giovedì 17 gennaio 2008

Giovanna d'Arco

Luc Besson

Il viso di Giovanna bambina nella grata del confessionale: la prima immagine, severa e quasi astratta, dell’ambizioso “Giovanna d’Arco” di Luc Besson ha due significati. Serve per impostare il tema: la Giovanna di Besson è spinta da mania religiosa (acuita dallo shock di aver visto la sorella inchiodata alla porta con una spada e violentata da morta). In una delle sequenze estremiste di questo film interessante e in ultima analisi non riuscito, Giovanna di nascosto in chiesa consacra e beve il vino, e il “sangue di Cristo” inonda rosso la sua bocca come il sangue di Dracula. Tuttavia, nonostante Besson miri a una “Giovanna d’Arco” razionalista (se qualsiasi “Giovanna d’Arco” è un mistero, il suo è un mistero agnostico e materialista) quest’apertura para-mistica sembra un voler pagare dazio all’elemento mistico presente in tutte le precedenti Giovanne cinematografiche.
E’ un tema fisso di tutto il cinema di Besson quello di una creatura semplice scaraventata nella logica della violenza, e che la fa propria. Senza distanziamenti impietositi o impauriti: poiché Besson sente fortissimamente il fascino esaltato e demoniaco della violenza. Il suo “Giovanna d’Arco” è concitato, eccessivo, isterico. “Io non penso: lascio che Dio pensi per me”, grida Giovanna ai capitani francesi. E durante le battaglie Giovanna, per usare un’espressione che ci viene dai vichinghi, diventa berserk: impazzisce della follia distruttiva della guerra. Milla Jovovich col suo bel viso di Barbie uscita di senno è efficace nella parte. “E’ pazza”, dice ammirato il suo compagno d’arme Gilles de Rais (Vincent Cassel), che rappresenta una sorta di cinica razionalità. La follia berserk contro la ragione bellica incarnata dai comandanti francesi - ma la guerra appunto non è ragionevole.
Non mancano le visioni (il cardine del personaggio), ma Besson non le visualizza in modo agiografico: la prima (un ragazzo biancovestito sul trono di pietra) è celtica e pagana più che cristiana, la seconda è una sorta di Cristo demoniaco, dal viso duro e fisso, sulla cui veste bianca si notano i gigli di Francia. E la croce, elemento ritornante del film, è fotografata in modo oggettivo, distaccato, come la vedrebbe un giapponese (in effetti c’è qualche reminiscenza di Kurosawa nel film). Esiste solo la lotta; mentre il gioco della politica (ottimi John Malkovich e Faye Dunaway, il Delfino e la sua nobile suocera) prima sfrutta Giovanna e poi la getta ai lupi.
Ben servito dalla bellissima fotografia di Thierry Arbogast (vedi come sa rendere la difficile ora del crepuscolo), la “Giovanna d’Arco” di Besson si può considerare un bel film mancato. Da un lato lo stile magniloquente di Besson - un uomo che racconterebbe la caduta a terra dell’accendino mentre ti accendi una sigaretta come se fosse uno scontro di pianeti - gli dà una potenza e un’indubbia qualità visionaria. Dall’altro un’insicurezza di fondo su dove andare a parare attraversa il film e finisce per consegnarlo alla sconfitta.
Tutto sarebbe andato bene se Luc Besson si fosse abbandonato al proprio consueto romanticismo estremista, se avesse consegnato senza remore l’epopea di Giovanna alla sua esaltazione di rumore e follia, senza l’ossessione di definire la sostanza filosofico-psicologico-spirituale delle visioni di Giovanna. Ma, come abbiamo detto, la sceneggiatura di Besson e Andrew Birkin ha la coda di paglia nei confronti delle interpretazioni mistiche degli antenati nobili del film, Dreyer, Rossellini, Bresson eccetera. E allora nella terribile parte finale introduce Dustin Hoffman nel ruolo di un personaggio immateriale dalla barba bianca che il vostro recensore ha dovuto aspettare il cast & credits dei titoli di coda per capire chi è: “The Conscience”; ma che richiama alla mente più che altro il fratello autistico di “Rain Man”.
Così il film perde paurosamente ala. Ma prima, la violenza roboante della battaglia, il vero e proprio urlare del sangue, ci hanno riconsegnato l’arte elementare ma coinvolgente di Luc Besson.

(Il Friuli)

Nessun commento: