martedì 8 gennaio 2008

Galline in fuga

Peter Lord e Nick Park

Dalla luna piena la macchina da presa scende a inquadrare in dettaglio il filo spinato. Il cinema ha una sua memoria simbolica: automaticamente quest’apertura ci porta in quella specie di sottogenere che è il cinema sui campi di concentramento nazisti.
In realtà ci troviamo di fronte a un’analogia sviluppata a dimensioni gargantuesche. L’importante “Galline in fuga” di Peter Lord e Nick Park è una bizzarra e perversa avventura comica che si svolge nel tetro allevamento dei coniugi Tweedy, dove le galline che non fanno uova vengono decapitate per servire da cena ai padroni. Galline e umani (e cani e ratti) di plastilina, naturalmente: Nick Park - l’autore dei deliziosi cortometraggi di Wallace e Gromit - è un mago dei pupazzi di plastilina, animati fotografandoli a passo uno. La fuga diventa una necessità vitale quando la perfida padrona, cervello della coppia, acquista un gigantesco macchinario per trasformare l’azienda in una fabbrica di pasticci di pollo. “O moriremo galline libere o moriremo nel tentativo!”.
L’assunto base essendo quello di equiparare l’allevamento non genericamente all’universo concentrazionario ma proprio ai campi nazisti, Park e Lord surfeggiano arditamente fra denotazione, connotazione e memoria cinematografica. In quella direzione indirizzano coerentemente le scelte narrative (le galline terrorizzate schierate per l’ispezione, l’apparizione di Mrs Tweedy in puro stile SS), scenografiche (l’analogia fra i lettucci per deporre le uova e i letti a castello dei Lager), di inquadratura: le frequenti inquadrature dal basso degli esseri umani e dei loro cani da guardia corrisponde sì al punto di vista del gruppo protagonista (il film ci mostra l’universo “ad altezza di gallina”) ma soprattutto al complesso formale prestabilito dei “Lager movies”. Allo stesso modo i film di fuga dal Lager, dal magnifico “Stalag 17” di Billy Wilder allo sciocco e bambinesco “La grande fuga” di John Sturges, forniscono atmosfera e citazioni: la rapa che la protagonista Gaia fa rimbalzare contro le pareti nella carbonaia/cella d’isolamento cita direttamente Steve McQueen e la sua palla da baseball ne “La grande fuga”, mentre richiama il William Holden di “Stalag 17” il personaggio di eroe ambiguo del gallo Rocky (quel saluto raggiante e sbrigativo...).
“Galline in fuga” fa largo uso dei modi retorici classici del cinema: vedi il commosso carrello ascendente che si innalza in direzione contraria alle gocce di pioggia che piombano giù, nella scena della peggior delusione di Gaia, oppure la drammaticità di una carrellata indietro che svela la cuccia vuota della compagna uccisa. Ma il concetto stesso di un film “recitato” da pupazzi di plastilina introduce (più ancora di quanto farebbe un cartone animato) un elemento straniante, che trasporta queste forme di linguaggio dal piano espressivo a un piano espressivo di secondo grado, citazionistico. Ovvero, il loro significato emotivo non ci arriva direttamente bensì per il tramite della memoria di analoghi movimenti nel cinema “umano”. In questo senso “Galline in fuga” è un film altamente manierista.
La sua cupezza sviluppa una strada storicamente poco battuta dall’animazione in Occidente. In effetti “Galline in fuga” non è un film molto divertente: nella prima parte è nerissimo, e il dramma traspare con crudele evidenza sotto la coloritura comica. Nella seconda parte (anticipata dalla grande sequenza di Rocky e Gaia all’interno della macchina sfornapasticci), il film si apre, si allarga a puro “Wallace & Gromit”. Di quei piccoli gioielli ritroviamo molti aspetti: le macchine incredibili; il senso delle combinazioni acrobatiche; la stessa perfezione con cui viene declinato il principio avventuroso dell’“ultimo momento” (le avventure di Wallace e Gromit hanno un “timing” formidabile).
E, “ça va sans dire”, il trionfo finale di queste galline (i cui dentoni, zoologicamente improbabili, sono una specie di marchio di fabbrica di Nick Park) arriva a commuovere anche chi non è vegetariano.

(Il Nuovo FVG)

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