martedì 8 gennaio 2008

The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair

Daniel Myrick e Eduardo Sanchez

Non bisogna cercare il cinema dell’”horror ambiguo” di Val Lewton degli anni ’40 alla base dello splendido “The Blair Witch Project” di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez bensì la cultura del video amatoriale: l’ossessione della videocamera come occhio registrante. L’invenzione generatrice è che tre giovani, Heather, Mike e Josh (i personaggi conservano il nome dei loro interpreti) si addentrano in un bosco malfamato per girare un documentario “alla ricerca” della Strega di Blair, di cui si favoleggia da secoli in un paesino del Maryland. Lo filmeranno con una cinepresa 16 mm e insieme, con una videocamera, un diario video della loro esperienza. Due anni dopo la loro scomparsa, viene ritrovato il loro filmato: che costituisce interamente “The Blair Witch Project”.
Fotografato da Neal Fredericks, “The Blair Witch Project” è accuratamente mimetico nel restituire il filmato: il bianco/nero più curato e definito del 16 mm. e il video a colori, sgranato e quotidiano. La conoscenza del cinema horror presente dietro questo film (anche Val Lewton: c’è una reminiscenza della piantagione piena di feticci voodoo di “I Walked with a Zombie”; ma soprattutto è evidente il debito col Sam Raimi de “La casa”) è celata; la grandezza del film è proprio quella di rinunciare alla pulizia di scrittura per fondersi nel suo assunto mimetico. Camera a mano, definizione imperfetta, anche perdite della messa a fuoco. La pulizia dell’immagine quando c’è è diegetica (cioè interno alla logica della narrazione): come i frammenti del documentario abortito.
I due filmati (riprese in b/n e videodiario a colori) dovrebbero essere sentieri paralleli. Ma quando i giovani si perdono assurdamente nel bosco, perseguitati da un orrore che non si mostra mai direttamente, allora fra questi due sentieri si apre una voragine: che inghiotte il primo e fa implodere il secondo. Emerge così la faccia maligna e diabolica dell’universo. Non dimentichiamo che ci troviamo nel Maryland! L’occulto di “The Blair Witch Project” non è quello “cittadino” delle messe nere. E’ fatto di alberi, di sassi e di sterpi. Perché nei grandi boschi oggi ridotti a residui dalla civilizzazione dorme il cuore profondo dell’America della East Coast; vi si annidano i terrori che tormentarono generazioni di coloni, cui Irving, Hawthorne, Lovecraft hanno dato vita.
L’orrore ambiguo (Val Lewton) e quello della visibilità (l’horror Universal e poi Hammer) si basano sulla polarità visto / non visto: ma in entrambi i casi il film dev’essere leggibile. Ambiguo, magari, ma sottoposto a una chiarezza di messa in scena. Invece la scrittura “sporca” di “The Blair Witch Project” si basa sul non leggibile. Vediamo solo i segni distorti e residuali di un discorso malefico e incomprensibile (e questi misteriosi mucchietti di sassi e fasci di rametti che infestano il bosco - la scoperta del contenuto di uno di essi, verso la fine del film, è uno shock schermico assoluto - non hanno l’aspetto artificioso, di messa in scena proprio dei film, ma quello squallido e materiale della realtà). Onde precipitiamo in una confusione impaurita come i personaggi. Possiamo trarne una regola: la paura è l’illeggibile.
Così questo pseudodocumentario - che sfocia nella pagina straziante delle scuse di Heather in pianto alla telecamera per aver trascinato se stessa e i compagni nell’avventura - documenta il nulla, la follia e l’assurdo. E diventa altresì uno (pseudo)documentario sui giovani: la loro fragilità, l’incapacità litigiosa di fronteggiare una sfida - solo che qui è la sfida assoluta. I tre giovani di notte si chiudono nella tenda come in un utero.
Qualcuno, fraintendendo completamente il film., ha osservato a mo’ di critica che non c’è un’evoluzione drammaturgica dei personaggi. “The Blair Witch Project” non fa drammaturgia: ha spostato lo sguardo al grado zero del discorso orrorifico. Da qui in futuro si potrà solo tornare indietro. Replicarlo sarebbe impossibile. Visivamente “The Blair Witch Project” è un prodotto al limite, come “Blue” di Derek Jarman. Ma apre nuove strade al cinema dell’orrore.

(Il Nuovo FVG)

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