giovedì 3 gennaio 2008

Braveheart

Mel Gibson

C'è un attimo assolutamente memorabile in “Braveheart” di Mel Gibson, quando in una scena di battaglia uno spruzzo di sangue lascia una goccia sull'obiettivo della cinepresa, quel che di solito succede con l'acqua. Sangue finto? Sangue vero del cinema. “Braveheart” dura tre ore, ed è un po' troppo, ma è un gran bel fil m: cinema vitale, fatto di carne e nervi, energetico e selvaggio: da anni non vedevamo un film in costume così “fisico”. A renderlo bello, a dargli corpo è proprio lo spirito guerriero e feroce che lo attraversa, nell'esplosione ribollente delle sue battaglie.
Il cuore va con questi stracciati ribelli scozzesi dal viso tinto di blu, che urlando esibiscono le parti intime ai nemici prima della battaglia e poi si rovesciano su di loro come un'iradiddio, sfondano facce e fracassano ossa in un tripudio di sangue che schizza sotto i loro martelli da guerra. Li guida William Wallace (la tintura blu sul viso in tono con gli occhi azzurri di Mel Gibson), ribelle indomabile che solleva un esercito di contadini contro i conquistatori inglesi del crudele Edoardo I, li sconfigge, ma tradito dai nobili e consegnato al nemico muore torturato e decapitato al grido di “Freedom!”
A Mel Gibson, convincente qui sia come interprete che come regista, va riconosciuta una capacità particolare di filmare la guerra; fa vibrare una forza sua in scene di battaglia ovviamente reminiscenti di tutto il cinema epico, Olivier e il Milius di “Conan il barbaro”, “Highlander” e “Ran” e Kenneth Branagh. Tanto lo svolgersi delle battaglie è convulso e ritmato, quanto il loro prepararsi è lento, solenne, soggettivo nelle bellissime “prises de vue” degli eserciti schierati (memorabile l'arrivo della cavalleria pesante inglese alla battaglia di Stirling, annunciato fuoricampo dalle vibrazioni che fanno tremare il terreno...).
L'interessante tema dei messaggi che Wallace riceve in sogno dai morti è appena accennato, sacrificato alquanto. Si adattava bene al “mood” barbaro e celtico del film, ma si capisce il timore di Gibson di annacquare, premendo troppo sull'irrazionale, il robusto realismo della messinscena. Invece appesantisce questo kolossal il suo côté romantico, che è un po' prevedibile e pecca di sentimentalismo, in particolare le parti con la pur brava Sophie Marceau. Inutili, in fondo, per un film che fondamentalmente è innamorato della Scozia: la fotografia di John Toll sa restituirci la sua terra umida e aspra con un senso del paesaggio che “la canta” e così la solleva dalla mera bellezza cartolinesca.
I dialoghi della sceneggiatura di Randall Wallace sono vivi e credibili. Sul versante dei cattivi, l'ottimo Patrick McGoohan disegna con divertimento il perfido re Edoardo. I suoi scontri col debole figlio omosessuale, futuro Edoardo II (che poi è l'“Edward II” di Jarman) sono deliziosi: il volo del cortigiano dalla torre è un capolavoro.
Gli scozzesi invece sono nobili selvaggi in treccioline, rudi, eccessivi e simpatici (l'amico Hamish sembra Obelix!). Il discorso di Wallace ai suoi prima della battaglia è una versione povera ma sincera di quello che di lì a poco Enrico V pronuncerà ad Agincourt nella fantasia di Shakespeare (infatti l'ispirazione allo sceneggiatore viene da lì). Ma di questo ribelle soprattutto non dimenticheremo l'umanità della sua preghiera solitario in cella prima di essere torturato e ucciso (“Ho tanta paura”); e certo quell'ultimo grido di “Libertà!”, che replicato nell'inquadratura-simbolo della spada che oscilla piantata in terra il film affida al ricordo in chiusura.

(Il Friuli)

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