lunedì 29 aprile 2024

Civil War

Alex Garland

L’energia e la freschezza del cinema orientale (potremmo citare, nel campo del cinema che racconta scontri politici, il recentissimo coreano 12.12: The Day di Kim Sung-soo) trovano una controprova, a contrariis, nella vacuità dell’americano Civil War di Alex Garland.
Siamo nel mondo dei corrispondenti di guerra, con un road movie minaccioso negli USA in piena guerra civile, con tutti i suoi orrori, per raggiungere Wahington assediata e raccogliere le ultime parole del Presidente – il quale peraltro, apprendiamo, ai giornalisti gli fa sparare. Psicologicamente vacuo, drammaturgicamente nullo, il film si serve di personaggi scontati e banali (la giornalista affermata col cuore al posto giusto, la giovane rookie ambiziosa, il vecchio saggio, il giornalista pseudo-cinico che è il peggiore) per mettere in scena una rappresentazione di buonismo, con l’esperta che prende, in modo burbero, l'ultima arrivata sotto la propria ala. Laddove (ripensando alla scena della fotografie scattate da terra nella parte finale), se il cinema americano avesse ancora la cattiveria di una volta, era l’occasione per realizzare un Eva contro Eva bellico.
Mentre la tensione del lungo viaggio verso Washington non differisce molto da quella dei film di zombi (buona la sequenza della cittadina dove sembra che non sia successo nulla), le scene di battaglia – in pratica due, una all’esterno e una all’interno – non sono male: ma è perché siamo a Washington e poi all’interno della Casa Bianca che ci colpiscono; se fossimo, diciamo, a Beirut non sarebbero niente di che. Anche perché, nella scena madre della battaglia di Washington, la messa in scena sfiora il ridicolo con questa giovane fotografa fanatica che si ficca tra i piedi dei soldati in combattimento a tal punto che nella realtà le avrebbero sparato alle gambe. E per arrivare all’unica battuta che resta nella memoria, quella finale del presidente, bisogna vedere tutto il film.
Certamente è una contraddizione del film il fatto che non siano resi chiari i motivi del contendere: si parla solo di un esercito secessionista contro un Presidente al terzo mandato che ha sciolto l’FBI e ha fatto bombardare cittadini americani. Qui però bisogna ammettere che, in un’America politicamente spaccata in due come oggi, prendere una posizione più precisa avrebbe voluto dire rinunciare in partenza a metà degli incassi. E’ una trovata intelligente da questo punto di vista che gli stati secessionisti (le Forze Occidentali. dalla bandiera a stelle e strisce ma con solo due grandi stelle) siano il Texas e la California, nella percezione di oggi uno Stato di destra e uno di sinistra: in questo modo si offuscano eventuali proiezioni della realtà odierna sulle forze in campo. Una nebbia sulle motivazioni è l’unico modo di costruire una distopia bipartisan
– benché la retorica del Presidente del film, che all’inizio del film parla di vittoria storica e definitiva mentre sta perdendo la guerra civile, ricorda (o è un'impressione personale?) la boria di Donald Trump. Come che sia, la prossima volta sarà meglio chiamare i coreani.

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