venerdì 3 febbraio 2023

Io vivo altrove!

Giuseppe Battiston

Viva la campagna”, cantava cinquant’anni fa Nino Ferrer – ma è dubbio che questo sentimento bastasse a renderlo un bravo coltivatore. Lo stesso vale per i due Fausto di Io vivo altrove! di Giuseppe Battiston. Fausto Biasutti (Battiston) è un bibliotecario passabilmente frustrato: “La trama è fiacca, lo sguardo è povero” sono le prime parole che sentiamo nel film – ed è un inizio ironicamente apotropaico. Fa amicizia con Fausto Perbellini (Rolando Ravello), un fotografo dilettante (le sue foto, che vediamo alla fine, sono belle, e sono in realtà di Emilia Mazzacurati); alla sua età non verdissima questi vive ancora con la madre, ma lei vuole togliergli il laboratorio di sviluppo nel bagno per farne la sauna desiderata dal suo compagno (dal tempo dei bamboccioni la satira è passata a quello delle âgées immortali). Colpo di fortuna, Fausto B. eredita dalla nonna una proprietà in Friuli e coglie l’opportunità di mollare tutto, coinvolgendo Faust P. in un progetto di vita autosufficiente in campagna coltivando mirtilli.
Con Bouvard e Pécuchet Flaubert ha costruito una gigantesca epopea nichilista della stupidità umana e dell’illusione enciclopedica; dove l'ostinazione dei due protagonisti diventa una via crucis di entusiasmi e cadute sotto la lente di un umorismo spietato e misantropico che in certi punti sembra anticipare Morte a credito di Céline. Del romanzo di Flaubert Giuseppe Battiston riprende la prima parte per il suo esordio di regista, ma con un rovesciamento di prospettiva. Mentre lo sguardo di Flaubert è verticale, dall’alto, come si conviene a una satira impietosa, lo sguardo di Battiston – anche sceneggiatore con Marco Pettenello – è orizzontale: umano, alla pari, di adesione; il suo umorismo non è crudele. Il simbolo del film e dei suoi due protagonisti è il mirtillo, che sentiamo definire all’inizio “pianta acidofila ma caparbia”. Io vivo altrove! è un encomio e quasi un’elegia della caparbietà.
Non è che Fabio B. sia proprio popolare in paese (“Va via, mona!”), e l’incidente con la birra fabbricata non fa nulla per aumentare l’apprezzamento dei due. Intanto la terribile signora Gina (una grande Ariella Reggio) li guata dalla casa confinante, borbottando “Imbecilli”, ed è sempre pronta a comprare i pezzi di terra che i due sono costretti a vendersi. Una lunga serie di pasti francescani di insalata punteggia il film, mentre si fronteggiano i disastri dell'entusiasmo e la durezza della realtà: vediamo Fausto B. che strappa l’erba a mano, poi passa al falcetto, poi passa alla falce – e poi un’inquadratura col drone mostra il misero cerchio di terra liberata in un campo enorme. Fallimento dopo fallimento, chimera dopo chimera, i due tirano avanti ostinatamente, autoilludendosi e congratulandosi a vicenda, sempre inappuntabili sul piano formale, sempre dandosi del lei con un rispetto formale ottocentesco (o giapponese). Ma nella luce fredda della sconfitta finale, stanno per mollare tutto. “Qui i mirtilli non crescono”, sibila la signora Gina. Viso drammatico di Battiston – e poi l'imprevisto “Non ce ne andiamo”.
Di solito un regista al suo esordio dice troppo, c’è una difficoltà ad asciugare e tagliare. In questo caso si direbbe che Battiston abbia preferito l’opposto – alcuni passi del film lasciano l’impressione di essere stati asciugati troppo. Per esempio, uno dei momenti migliori, quando sull’onda emotiva di una canzone diegetica che passa da suono off a over vediamo la sera degli abitanti del paese, compresa la Gina che mette fuori il suo gatto, e avrebbe potuto essere allungato diventando uno squarcio psicologico-lirico.
Giuseppe Battiston ha una carriera teatrale ricca e intensa, nella quale per esempio è stato Welles e Churchill, o un grande Macbeth in una splendida messa in scena di Andrea De Rosa accanto a Frédérique Loliée, e attualmente Dovlatov. Non sempre, con alcune notevoli eccezioni, ma più d’una volta il cinema lo ha impiegato in modo un po’ facile, con una minore ampiezza interpretativa. In questo suo primo film da regista l’ampiezza si ritrova; il viso è aperto, cordiale, c’è un elemento di ingenuità nella voce, più chiara (inteso non come pronuncia ma come colore); e la rivelazione finale della sua tragedia, in una carrellata fra le tombe, illumina retrospettivamente le sue lettere alla figlia e quella seconda pianta-simbolo che è la “calendula greca”. C’è una gentilezza in questo film.

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