lunedì 13 gennaio 2020

Dracula

serie tv di Mark Gatiss e Steven Moffat


Quando uscì, nel 1966, La Bibbia di John Huston, gli spettatori commentarono all'unisono: è meglio il libro. La stessa cosa si può ripetere adesso dopo la visione dello sciocco Dracula revisionista della BBC (trasmesso da Netflix), realizzato e sceneggiato da Mark Gatiss e Steven Moffat in tre episodi della lunghezza di un film. Molti fili sciolti denunciano il progetto di una seconda stagione. 
I due sono gli autori, com'è noto, dello Sherlock Holmes televisivo in abiti moderni. Stavolta, con meno successo, applicano la formula a un altro caposaldo dell'immaginario vittoriano: anche se è solo il terzo episodio a essere ambientato nella nostra epoca, tutto il loro Dracula vuol essere una trasposizione del romanzo di Bram Stoker (1897) sotto il segno della contemporaneità. Gatiss e Moffat hanno letto il loro Stoker (troviamo frammenti familiari a tutti i lettori di Dracula come il termine bloofer lady nel pessimo terzo episodio) ma si divertono a stravolgerlo.

L'idea più centrata è lo sviluppo del personaggio di suor Agatha, che in Stoker è solo nominato di passaggio; qui è Agatha Van Helsing (e poi la sua discendente Zoe), avversaria di Dracula, e il personaggio più saldo nella traballante scrittura della miniserie. Va segnalato che la storia si caratterizza per un doppio livello di realtà, poiché porta la vittima dentro la mente del vampiro, in una dimensione allucinatoria causata dal morso (nel secondo episodio ciò porta all'unico vero momento di brivido dell'intera miniserie, la rivelazione di chi è l'inquilino della cabina 9).
Il concetto generale è questo: a) Dracula è un buongustaio del sangue, con tutti gli abusati doppi sensi su bottiglie e inviti a pranzo; b) attraverso il sangue si impossessa delle conoscenze delle vittime (per cui, “Blood is lives” e non life). Ecco un esempio un po' alla Mel Brooks: conversando sulla nave con una granduchessa, nel secondo episodio, si accorge che il suo tedesco è un po' arrugginito, esce un attimo, va a bersi un marinaio bavarese e poi torna che è perfettamente fluente.
Ma la caratteristica che rimane principalmente impressa è che Dracula (Claes Bang) è un battutista inveterato – e parallelamente anche suor Agatha (Dolly Wells) ha una lingua che taglia e cuce. Bisogna ammettere che si può trovare qua e là qualche battuta divertente (la madre superiora: “Perché le forze oscure dovrebbero attaccare un convento?” – suor Agatha: “Forse sono sensibili alle critiche”). Tuttavia il risultato complessivo è goffo: quando Dracula, minacciando il terrorizzato Jonathan Harker perché scriva le lettere, fa il ragazzo allegro (“Johnny... Johnny...”) col tono ironico che userebbe un giovane gangster di Martin Scorsese, viene voglia di piantare un paletto di frassino nel televisore.
Nota bene, anche il Dracula di Bram Stoker non è privo di un sardonico humour (basta pensare al terribile scherzo dei lupi). Nelle principali trascrizioni filmiche, Bela Lugosi e Gary Oldman hanno suggerito anche questo aspetto, Christopher Lee, Jack Palance e Klaus Kinski no. Qui però Dracula risulta grossolanamente appiattito. La questione non è che parla tanto (anche il Dracula del fumetto Marvel Tomb of Dracula è enfatico e logorroico, e ciò non lo danneggia). Bisogna rovesciare la questione: le sue battute non sono la causa della sua diminutio bensì l'effetto. Questo è un Dracula che manca di grandezza. Non senza una dose di abilità mal impiegata, Gatiss e Moffat hanno voluto privare questa figura archetipica di tutta la sua dimensione mitica – fino a concludere il terzo episodio con un tentativo di psicoanalizzare Dracula (un mix di incongruenze e banalità pomposamente venduto come rivoluzione euristica) facendolo risultare un credulone impigliato nella propria leggenda.
Così, cosa resta di Dracula? Un villain che sa atteggiarsi a uomo di mondo. Il modello è chiaro: i cattivissimi di James Bond – i quali ci riportano, tout se tient, al Moriarty holmesiano. Ora, i vari Blofeld, Goldfinger, Scaramanga, Mr. Big, Le Chiffre sono indubbiamente più o meno odiosi, ma non fanno paura. Non vorremmo incontrarli nella vita reale, sono pericolosi, ma siamo lontani da quel frisson che è sempre stato l'appannaggio del vampiro. Analogamente questo Dracula stand-up comedian (vedi la scena alla porta del convento) è sempre molto crudele, ma ha perso l'aura, diventando un Auric Goldfinger qualsiasi (nemmeno un Blofeld, che invero possiede una certa maestà).

Il primo episodio, diretto da Johnny Campbell, copre l'esperienza di Jonathan Harker al castello di Dracula; ha se non altro l'interesse della scoperta, ma vi si palesa subito il modo abborracciato con cui Gatiss e Moffat hanno voluto impastare tutto e il contrario di tutto, l'horror e la commedia, il dramma e la parodia, lo stereotipo e il dialogo hip. Un postmoderno che è la parodia di se stesso. L'elemento di omosessualità (Harker viene nominato “sposa di Dracula”!) presente qui come in tutta la serie è più un principio modaiolo che la volontà di seguire una suggestione effettivamente presente in Stoker.
Il secondo episodio, di Damon Thomas, narra il viaggio del conte vampiro sulla nave Demeter. Con un Dracula sempre spiritosone ma che tende meno a strafare, è il meno peggio dei tre. L'organizzazione narrativa segue un filo logico più stringente, e la progressiva scomparsa dei passeggeri porta una reminiscenza di giallo classico alla Dieci piccoli indiani. Vero è che il film non si pone il minimo tentativo di replicare il modo di pensare vittoriano (una gentildonna non userebbe mai il verbo retch, vomitare, specie con uno sconosciuto) ma questo non può essere imputato a Gatiss e Moffat, essendo un tratto comune a tutto il moderno cinema in costume, che fa pensare i suoi personaggi come contemporanei.
Il terzo episodio, di Paul McGuigan, sulla vampirizzazione di Lucy Westenra, è il peggiore, e riesce ad essere banale e insensato nello stesso tempo. A differenza degli altri, si segnala in negativo anche per alcune goffaggini di regia e messa in scena. Quando la morta Lucy ritorna come vampiro (è un cadavere bruciato ma non lo sa, poiché nello specchio si vede giovane e bella), ha senso che dapprima compaia ai nostri occhi riflesso sul piano lucido del tavolo – ma l'insistenza troppo prolungata su questo fa capire in anticipo la rivelazione della sua realtà oggettiva. Parimenti, ha senso che il suo innamorato Jack si sia portato un paletto per darle la pace, ma il modo in cui lo tiene dietro la schiena è da commedia più che da horror. Peggio ancora, l'insulsa sceneggiatura trasforma il personaggio di Lucy in un'oca assoluta; il che non sarebbe illecito, se il film non volesse farne l'oggetto privilegiato di desiderio di Dracula in 500 anni di vita (parole sue). La miniserie non riesce assolutamente a far capire cosa ci trovi il conte in questo personaggio stereotipato di scemetta contemporanea; cerca faticosamente di spiegare che Dracula la vede come “innamorata della morte”, ma questo tratto di Lucy sembra, per com'è realizzato, più stupidità giovanile che spirito romantico. Non si pensi peraltro che questa caratterizzazione sia tutta farina del sacco di Gatiss e Moffat: in realtà qui i due plagiano, e rovinano caricandola mostruosamente, un'intuizione di F.F. Coppola in Bram Stoker's Dracula. L'influsso mal digerito del film di Coppola è rintracciabile in più di un aspetto della serie.

La trascrizione filmica di un'opera letteraria non ha un dovere di fedeltà ma ha – potremmo dire – un dovere di efficacia. Un'opera mediocre tratta da un testo di valore sarà sentita non solo come un tradimento delle nostre aspettative di spettatori ma anche, inevitabilmente, come un tradimento della potenza intrinseca al testo.
Tirando le somme, non è dunque un problema di “leso Bram Stoker” ma di fallimento narrativo e artistico. Questo Dracula della BBC è privo di sentimenti: non il personaggio ma il film. E' un male del cinema occidentale contemporaneo l'incapacità di rendere i sentimenti (perché se ne vergogna) – laddove anche nel più deteriore Z-movie di una volta (metti, Dracula's Castle di Al Adamson) c'era almeno un tentativo di prenderli sul serio, pur con tutta l'ironia del caso. Questa miniserie artificiosa e superficiale postula un cinema di pupazzi ridotti a puro segno. Ed è, questo tipo di cinema, lo specchio di una civilizzazione che ha paura della complessità e della profondità. Per questo è mille volte meglio il cinema orientale. 

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