venerdì 13 settembre 2019

Pillole dalla Mostra di Venezia 2019



Piccoli post da Venezia per FB. Altri film (come J'accuse) saranno recensiti all'uscita.

l fragile e benintenzionato Les Epouvantails ("The Scarecrows") di Nouri Bouzid è il tipo di film che guardi per fare una buona azione. 5 è il numero perfetto di Igort è una trascrizione assai piacevole della sua graphic novel - pensare che doveva dirigerla Johnnie To! - molto hongkonghese in salsa di guapparia napoletana. Ma anche in salsa di graphic novel, con le sue astrazioni figurative che lo raffreddano. La vérité, di Kore-eda Hirokazu in trasferta, è un bellissimo film, del tutto kore-ediano nella sua trascrizione francese. L'attrice Catherine Deneuve e Juliette Binoche, madre e figlia in conflitto, danno corpo ai temi classici di Kore-eda: la famiglia e la percezione, come cambia nel corso del tempo; e questo mentre Catherine Deneuve interpreta un film di fantascienza che è un'evidente mise en abyme della storia, e perché non sembri una trovata ovvia Kore-eda si diverte a dichiararcelo in faccia continuamente... E non manca nemmeno il suo "timbro": l'animale magico.
Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone è come quelle tragedie shakespeariane che vengono messe in scena in abiti moderni. Eduardo parlava di una camorra del 1960 che oggi è storia antica, con un boss settantacinquenne; quello di Martone è un giovane con il comportamento aggressivo proprio dei boss d'oggi, dell'epoca della ferocia e della droga. Una contraddizione stimolante? O artificiosa e che fa risaltare senza volerlo le rughe del testo?
Se Christopher Nolan ha rotto tanto con le origini di Batman, è solo giusto che Todd Phillips dedichi un film alle origini del Joker. Joker è un'ingegnosa (ri)costruzione di come un underdog, il clown sfortunato Arthur Fleck, si sia trasformato nel futuro peggior nemico di Batman. Una spirale di disgrazie e umiliazioni fa riemergere una pazzia latente; il turning point è quando Arthur uccide a pistolettate tre bastardi aggressivi in metropolitana (fa benissimo, beninteso, ed è un vero piacere vederli morire); di lì, è il precipizio. Joaquin Phoenix è convincente nel ruolo, e la sua risata psicotica (che scoppia nei momenti più sbagliati per lui!) è un tratto che non dimenticheremo.
Non privo di qualche suggestione kubrickiana, il film ha diverse cose buone (c'è una scena splatter molto riuscita) ma appare anche piuttosto "pensato", costruito, un po' meccanico. Lascia un'impressione di opera altalenante. E infatti: alla fine, mentre Gotham City è in rivolta nella notte, il Joker alza le braccia come un Anticristo perverso davanti ai suoi seguaci mascherati da clown. Dici: ottimo finale. Dissolvenza - e invece dei credits il regista aggiunge un secondo finale del tutto inutile. Ah ces Américains...
Facevano bene gli americani a stampare sul denaro "In Gold We Trust" (poi c'è stato un errore di stampa ed è venuto God, ma questa è un'altra storia). Una volta il denaro era un mezzo di scambio, concreto e reale, come l'oro. Magari te lo rubavano di notte, ma aveva un'autenticità. Oggi - come ci spiegano Gary Oldman e Antonio Banderas all'inizio del delizioso The Laundromat di Steven Soderbergh - il denaro è diventato astratto, inessenziale, virtuale.
Giustamente, tutto comincia da un'onda. Quella che sommerge un battello turistico producendo 21 vittime, fra cui il marito della protagonista (una gigantesca Meryl Streep). Ma quando lei si rivolge all'assicurazione, attraverso lei scopriamo una miriade di scatole cinesi vuote; quell'onda, metaforicamente si ripercuote e ne produce altre, e la lezione di economia si sviluppa a catena, fino a rivelarci il megascandalo dei Panama Papers.
The Laundromat - non perdetelo su Netflix - è una lezione piena di humour e vivacità (scritta da Scott Z. Burns) su come l'inessenzialità del denaro abbia portato alla proliferazione di società vuote, puri gusci (shells) che servono a schivare le tasse a spese della gente normale. E' un film non solo istruttivo ma divertentissimo. Castigat ridendo offshores.
Uno dei misteri della Mostra è quello dei gemelli Assayas (altro che i gemelli Mantle cronenberghiani!). Perché non è possibile che il geniale Olivier Assayas, che ancora l'anno scorso ha portato il delizioso Doubles Vies, sia lo stesso che ha presentato quest'anno un film di imbarazzante bruttezza come Wasp Network. Deve avere un sosia.
Fondamentalmente Wasp Network riscrive a parti rovesciate il film maccartista I Was a Communist for the FBI (1951): gli agenti segreti del governo cubano sono i buoni che si infiltrano tra gli anticastristi di Miami, terroristi e spacciatori di droga. A livello di incapacità narrativa il film di Assayas si situa a mezza strada fra Il boia scarlatto di Massimo Pupillo e Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee. Così, avevo persino pensato che il regista avesse voluto rifare parodisticamente un film brutto, del genere "so bad it's good" - ma non è così. Questo è solo bad.
The King di David Michôd mostra che gli sceneggiatori, David Michôd e Joel Edgerton, non hanno complessi d'inferiorità. Capisco sfidare Shakespeare e riscrivere la storia del principe Hal/Enrico V (Timothée Chalamet) e di Falstaff (Edgerton), con Falstaff che è molto saggio e in guerra è uno stratega; ma inserire nelle battute accenni shakespeariani, è da cuor di leone. E sì, c'è anche una nuova versione del discorso di Azincourt, dove Enrico V sembra un po' Al Pacino in "Ogni maledetta domenica". Ma attenzione, il film, benché un po' verboso, è avvincente e piacevole. 
Certo, resta la contraddizione del cinema in costume del nostro tempo: da un lato la messa in scena cerca di avvicinarsi il più possibile alla realtà storica effettuale (i combattimenti in armatura sembrano risse da osteria); dall'altro questa vicinanza alla storia quotidiana si accoppia a una lontananza sul piano culturale che sfiora l'anacronismo: i concetti e i sentimenti dei personaggi sono XXI secolo, non XV.
E non dimenticate: vale da solo il prezzo del biglietto vedere Robert Pattinson che (deliberatamente) ham
s it up, super-gigioneggia, nella parte del Delfino di Francia!
Inizio di No. 7 Cherry Lane di Yonfan: sopra le case della Hong Kong del 1967 passa un aereo ciclopico, come un'astronave di Star Wars. Ora, è vero che all'epoca del vecchio aeroporto gli aerei atterravano praticamente in città, passando sopra gli edifici: ma ovviamente non c'era questa sproporzione di dimensioni. La spiegazione è semplice: siamo nella dimensione della memoria, che modifica gli oggetti e i loro rapporti. "Guarda come sono volati via gli anni d'oro".
All'affascinante film d'animazione di Yonfan presiede esplicitamente Proust. La "ricerca del tempo perduto" è la materia di cui è fatto il sogno che è il film. Mentre la linea narrativa, di folgorante intensità nella grafica solo apparentemente semplice (e mutevole) del segno, è il rapporto amoroso, socialmente impossibile,fra una donna matura, la signora Yu, e il giovane Ziming. Un rapporto che nasce attraverso una discussione letteraria (chi aveva mai pensato a paragonare la Recherche e Il sogno della camera rossa?) e si rispecchia nella visione dei film della diva francese M.me Simone che i due vanno a vedere: in tutti si rispecchia la loro storia, e vederli è come parlarsi attraverso quei film.
Questa ricchissima opera di Yonfan si basa sul concetto di correspondance: ma non solo relativamente a romanzi e film: di poetiche correspondances fra momenti, personaggi, segni, il film è zeppo; ma anche di correspondances politiche. Con la sua evocazione di vecchie repressioni (a partire dalla Shanghai anteguerra) che richiamano immediatamente quelle nuove; e ancor più, con la sua evocazione innamorata e dolente della Hong Kong del passato. Oggi a Hong Kong la nostalgia è un atto politico.
Dopo lo sciocco e inutile Guest of Honour di Atom Egoyan, è stato una consolazione About Endlessness di Roy Andersson, l'autore di Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza. Diciamo la verità: questo film, Roy Andersson avrebbe dovuto intitolarlo "Paralipomeni del Piccione", perché sebbene sia un po' più slegato di quel film, il concetto è esattamente lo stesso, con i suoi personaggi immobili dal viso cereo, le sue brevi scene, le sue assurdità post-beckettiane. Sarà pure maniera; ma è grande maniera: sempre appassionante, stimolante, e cupamente comico.
C'è una cosa da aggiungere. Molti cineasti presentano una bella fotografia; pochi presentano una fotografia di costruzione pittorica e di gelida esecuzione come Andersson. Penso a quella brocca abbandonata nell'angolo inferiore destro nella scena dell'omicidio. Lui dice che gli piace Hopper, ma i suoi quadri fanno pensare al Vermeer più metafisico. E ovviamente la staticità delle sue scene permette di esaminarli a nostro agio come se fossimo in un museo.
L'horror è uno dei generi più politici, se non altro per le sue enormi possibilità metaforiche. Ma nel notevole La llorona di Jayro Bustamante (Guatemala-Francia) - se non proprio un horror, certo un film del soprannaturale - l'orrore nasce dalla realtà senza bisogno di metafore. La llorona è una creatura del folklore latinoamericano (già comparsa in un paio di film) che qui si presenta sotto le spoglie di una serva in casa di un generale autore di un genocidio, la cui condanna è stata annullata dalla Corte Costituzionale; ma contro gli spettri vendicativi non c'è magistrato corrotto che tenga. Da segnalare un'ottima idea narrativa: la moglie del generale, che lo difende fanaticamente, nei suoi incubi rivive col proprio corpo invecchiato i patimenti toccati alla ben più giovane Alma, ossia la llorona.
L'idea stessa di un plot tipo "Lei è un'adolescente malata di cancro e si innamora di un ragazzo drogato" sembra fatta apposta per far aggricciare i denti. Eppure, voglio testimoniarlo: Babyteeth ("Denti da latte") dell'esordiente Shannon Murphy, abilmente scritto da Rita Kalnejais, è un buon film. Invece di pestare sul pedale strappalacrime sceglie una narrazione matter of fact (e pertanto ancor più commovente) e percorsa da un filo di umorismo (le figure dei genitori di lei sono deliziose). Grande l'interpretazione della giovane Eliza Scanlen nella parte protagonista.
Uno dei film più intelligenti degli ultimi anni è The Death of Stalin (Morto Stalin, se ne fa un altro) dello scozzese Armando Iannucci. Ora il "controcampo storico" di quel film è fornito dal magnifico film di montaggio State Funeral di Sergej Loznitsa, che l'anno scorso alla Mostra ci aveva stupiti con Process, la storia di un processo-farsa dell'epoca staliniana interamente consistente di filmati d'epoca - dove solo le didascalie finali esplicitano il carattere di falsificazione criminal-paranoica di quel processo, e dunque il punto di vista del regista. Con State Funeral Loznitsa rifà più in grande l'operazione, montando una massa enorme di filmati d'epoca sui funerali di Stalin e sul lutto in tutta l'Unione Sovietica, nel 1953. Il suo film è affascinante, è una macchina del tempo: non solo sul piano oggettivo ma per l'abile rimontaggio di Loznitsa, che fra l'altro - di nuovo - non vuole sovrimprimere se stesso sulla materia, e si riserva solo le didascalie finali. In questo senso Loznitsa è l'esatto contrario di Esfir Šub.
E' certo divertentissimo sentire i discorsi dalla tribuna del mausoleo, carichi di lodi sperticate del defunto, non solo di Malenkov (futuro giubilato) e di Berija (futuro fucilato) ma di Molotov, che se Stalin fosse vissuto ancora un paio d'anni sarebbe stato vittima dell'epurazione che il despota preparava, insieme con Mikojan. Ma soprattutto, l'autentico dolore collettivo che attraversa la Russia ci dice molto sulla realtà del totalitarismo: il vožd (duce) come grande padre.

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