Disclaimer: questa
recensione è piena di spoiler (Tarantino direbbe of fucking
spoilers) e chi voglia leggerla è caldamente consigliato di
farlo solo dopo aver visto il film.
C'era una volta a...
Hollywood, com'è giusto per un film di Quentin Tarantino, è un
film di corpi. Corpi segnati di cicatrici come lo stuntman Cliff
Booth (Brad Pitt); corpi logori con occhiaie di preoccupazione e
stanchezza come l'attore in declino e bevitore Rick Dalton (Leonardo
DiCaprio); corpi che russano pesantemente quando dormono come due
belle donne nel film; corpi sporchi come le hippies che rovistano
come ratti nella spazzatura; corpi che sanguinano.
Al fondo di questo
bellissimo film giace un concetto: la fragilità dei corpi degli
attori (l'alcoolismo, l'invecchiamento, le delusioni che segnano il
viso) in contrapposizione all'eternità im/materiale dei corpi
filmici sulla pellicola. Il cinema è immortale, i corpi degli attori
no.
E
siccome i vicini di casa di Rick sono Roman Polanski e Sharon Tate,
ci aspettiamo che questo concetto sfoci dolorosamente nel suo
assassinio per mano della banda Manson. Tanto più che Tarantino –
in uno dei suoi improvvisi momenti di poesia –sottolinea
l'innocenza di Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie)
mostrandocela che va al cinema a rivedere Missione compiuta
stop. Bacioni Matt Helm dove
appare in un ruolo secondario, e nella sua ingenua felicità è
commovente quanto Audrey Hepburn. Non solo il suo assassinio fa parte
dell'enciclopedia” dello spettatore ma il film, quando il momento
si avvicina, sembra prepararlo con la freddezza cronachistica della
ricostruzione storica: didascalie di tempo incalzanti (quindi
drammatizzanti) e presenza narrante della voce over. Questa non è
mai soggettiva nel film ma è materializzazione dell'istanza
narrante del racconto (vedi
l'elemento di complicità, quando compare per la prima volta a inizio
film, per un precisazione completa del consueto fucking
tarantiniano): in base alle convenzioni del cinema possiede uno
statuto di indiscutibilità.
Ma...
ma quando si arriva al dénouement
la storia si rovescia. Tarantino riscrive il passato: i tre hippies
assassini non entrano nella villa dove c'è l'indifesa Sharon Tate
coi suoi amici, bensì in quella accanto, dove stanno i protagonisti
Rick e Cliff (l'uno sbronzo, l'altro fatto di LSD) e il pitbull
Brandy – e mal gliene incoglie. E' un vero godimento vedere i tre
bastardi morire di mala morte. Tarantino fa fuori le carogne hippie
come aveva fatto fuori le carogne naziste in Inglorious
Basterds (chi è cresciuto come
lui guardando vecchi film e vecchie serie tv, c'è poco da fare, è
cresciuto con una morale). La storia fattuale – in Basterds
la grande storia, qui la cronaca
nera – può venire corretta:
come sempre per Tarantino il cinema è il luogo dove l'immaginario
può riparare illusoriamente (“C'era una volta...”) alle colpe
della realtà.
Si potrebbe osservare
che c'è uno iato fra la prima e la seconda parte del film, del resto
esplicitato anche da un lungo “nero” cui segue la didascalia “Sei
mesi dopo”: quasi due film, o se preferiamo, un film e il suo
seguito, satiricamente pessimista il primo, fiabescamente ottimista
il secondo. E', questo iato indubbiamente spiazzante, una discrasia,
un difetto dell'opera? Non mi pare: Tarantino ama la “forma
doppia”: penso non solo a Dal tramonto all'alba (che è un
prodotto Tarantino-Rodriguez anche se lo firma il secondo) ma a
Grindhouse (altro prodotto dei due) nella sua concezione
originale massacrata dai distributori italiani, o al doppio andamento
della coppia Kill Bill, o ai due tempi, voluti
dall'autore più che imposti dalla lunghezza, di The Hateful
Eight.
Questa ampia e
nostalgica rievocazione della Hollywood degli anni Sessanta tra
realtà e fantasia, è un film buddy-buddy, di amicizia
virile, quasi hawksiano nella concezione dei due protagonisti, Rick e
la sua controfigura Cliff (Tarantino, lo sappiamo, ama gli stuntman),
e del loro rapporto ineguale ma solido. Due figure segnate da una
doppia sconfitta. Rick sta andando giù dopo aver rovinato la propria
carriera lasciando la serie televisiva di successo Bounty Law
per cercare di affermarsi sul grande schermo (mentre tutti, compresi
gli assassini!, continuano a ricordarlo per il suo personaggio in
quella vecchia serie). Cliff non trova lavoro a Hollywood perché
gira la voce che abbia ucciso la moglie (nel flashback in barca con
lei che stra-rompe, l'ellissi provvista dal fine flashback è
vivamente ironica) riuscendo a cavarsela. Rick è piuttosto
infantile, beve troppo e si piange addosso; la leggera balbuzie che
emerge ogni tanto denuncia la sua insicurezza. Cliff – usato
dall'altro come autista e uomo di fatica – nel film appare come il
“vero uomo” del cinema western: forza e dignità. Infatti è puro
western la sua entrata nello Spahn Ranch, il covo degli hippies di
Charles Manson, dove in assenza del capo regna un'inquietante Dakota
Fanning. La bellissima inquadratura degli hippies che entrano
silenziosi in campo di spalle seguendo Cliff pertiene però
all'horror.
Nelle figure dei due
protagonisti Tarantino, secondo il suo modo usuale, rifonde e
concentra una quantità di ricordi storici e suggestioni. Ciò gli
offre l'occasione di un'affascinante serie di scherzi cinefili che
incrociano riferimenti autentici e reinvenzioni (questo è un film
che andrebbe visto almeno due volte per apprezzarne la ricchezza),
con Rick che appare in serie tv realmente esistenti (esclusa Bounty
Law) e Cliff che litiga e si batte con Bruce Lee, ben
interpretato fra citazionismo e parodia da Mike Moh. Tarantino
reinventa la storia del cinema, con quell'acribia filologica che
possiede; per esempio, il passaggio sui “western spaghetti”
interpretati da Rick in Italia è di una giustezza fenomenale
– non dico per gli (pseudo)film attribuiti a Corbucci, Margheriti e
Ferroni, ma chi altri avrebbe pensato a mettercene uno del grande
Joaquin Romero Marchent?
Sono una delizia le
clip dei film e telefilm interpretati da Rick che costellano il film,
coi loro colori segnati dal tempo stile Grindhouse, come il
film di guerra con Rick/McCluskey che arrostisce i nazi col
lanciafiamme (il nome del personaggio è ovviamente un omaggio a
McKlusky, metà uomo metà odio di Joseph Sargent). Il più
eccezionale è però un film mai realizzato nemmeno nell'universo
immaginario di C'era una volta a... Hollywood: vediamo una
scena ipotetica de La grande fuga di John Sturges, che
Rick aveva sperato di interpretare quando Steve McQueen si era
ammalato, e la vediamo con Leonardo DiCaprio inserito digitalmente al
posto di Steve McQueen.
Quando Tarantino si
diverte e si dilunga a mostrarci le riprese del pilot della
serie tv Lancer, interpretato da Rick nella parte del cattivo,
regia di Sam Wanamaker, si fa notare un passaggio. Rick dimentica le
battute e deve ovviamente riprendere da un punto prima; sentiamo la
voce off del regista ma senza “Cut!”, non c'è una reale
interruzione, non vediamo il dispositivo (cineprese eccetera);
ovvero, siamo a metà strada fra il cinema e la realtà: la scena ci
dice come per Tarantino il cinema sia realtà assoluta.
E'
sul set di Lancer che Rick incontra la figura memorabile della
bambina geniale (la piccola attrice, Julia Butters, deve avere
qualcosa in comune col suo personaggio!), chiacchiera con lei
ottenendo una lezione di recitazione che gli servirà, ma poi piange
perché il romanzo western che sta leggendo su un domatore di cavalli
in declino rispecchia la sua storia; l'incontro fra i due si sviluppa
quasi in un mini-film commovente. Ecco di nuovo il gusto narrativo
tarantiniano per le linee digressive. Quasi rossellinianamente in
Tarantino l'inessenziale diventa essenziale.
A
tale proposito: Tarantino è sempre l'uomo dei dialoghi fulminanti e
vagamente filosofici, che non mandano avanti l'azione ma sono gemme
del film. Qui forse sono meno filosofici ma spassosi come sempre –
per esempio la tirata di Al Pacino, agente cinematografico, sui ruoli
di cattivo come indice di decadenza di un attore (conclusa da
un'esilarante parodia della serie tv Batman), o l'impagabile
discussione fra Cliff e il vecchio Spahn (Bruce Dern).
Così
abbiamo menzionato qualche nome supplementare di attore. Senza
togliere nulla al gigantesco Leonardo DiCaprio e agli eccellenti Brad
Pitt e Margot Robbie, ricordiamo che uno dei punti forti di Tarantino
è la capacità “sinfonica” di ottenere una grande recitazione
collettiva. In questo quadro val la pena di menzionare la giovane
Margaret Qualley (figlia di Andie McDowell) nel ruolo di Pussycat –
che esibisce un'ammirevole abilità di mimo.
E poi – ça va
sans dire – in un film di Quentin Tarantino non può
mancare il feticismo dei piedi femminili, che è una specie di firma,
e qui trionfa in più bellezze diverse – a partire da Margot
Robbie, dal cui bel piede nudo inizia la panoramica sul suo corpo
mentre dorme a letto, più Margaret Qualley, e anche Lorenza Izzo
(Francesca, la nuova moglie italiana di Rick). Ma stavolta c'è
qualcosa in più. Come già accennato, sia Sharon Tate nella scena
citata sia Francesca sull'aereo russano tutt'altro che dolcemente. Eh
sì: anche le belle possono russare forte – e Tarantino ha il
coraggio di mostrarlo.
All'inizio del film
Rick esprimeva a Cliff come un sogno irrealizzabile la fantasia che
essere vicino di casa di Roman Polanski lo portasse a fare un film
con lui. Alla fine del film scopriamo che Sharon Tate è una sua
ammiratrice... sempre per quella serie tv! Lo invita a casa propria –
e l'apertura del grande cancello ha un valore simbolico perfetto. Un
delizioso movimento in gru sale in verticale, passa sopra le piante e
inquadra lo spiazzo davanti alla villa con Sharon Tate che abbraccia
Rick. Su questo appare il titolo, dove il riferimento a Sergio Leone
si trasforma nel finale di soddisfazione delle fiabe: Once Upon a
Time in... Hollywood.
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