martedì 5 febbraio 2019

Il primo re

Matteo Rovere

Spero che molti spettatori vadano a vedere Il primo re di Matteo Rovere; in primo luogo perché si divertiranno; e poi perché questo film meriterebbe d'incassare milioni fosse solo per il coraggio che dimostra. In un paese grezzone che non ama i film in originale sottotitolato, Il primo re è interamente parlato in latino arcaico con sottotitoli italiani – che per la storia di Romolo e Remo cade a fagiolo.
Latino arcaico, a cura – leggiamo nei credits – del linguista Luca Alfieri. Quindi, in aggiunta alla pronuncia corretta con le C e le G dure valida anche per l'epoca classica, sentiamo terminazioni come ignim anziché ignem, divosom anziché divorum, e contrazioni come vivust (che si ritrovano ancora in Plauto).
Nel quadro di uno svolgimento avventuroso-spettacolare che è la sua caratteristica base (non siamo davanti all'Alba dell'uomo di Kubrick!), Il primo re è un film intelligente e intrigante. Forse è perché viviamo in un'epoca di tragico declino dell'Occidente, ma nel cinema e nelle serie televisive (non che distinguere abbia ormai senso) proviamo una particolare fascinazione per le epoche primitive e barbariche. Il primo re mette in scena una comunità più vicina alla preistoria de La guerra del fuoco che alla civiltà organizzata di Romolo e Remo di Sergio Corbucci (1961). Siamo in una protostoria selvaggia – Alba(longa) è un villaggio di capanne circolari che sembra un panorama africano – che in verità sembra cadere anche prima dello stadio arcaico testimoniato dal latino del film. La religiosità illustrata ne Il primo re è arcaica anche per il 753 a.C.: gli dei sono entità numinose e innominate (per questo, detto per inciso, suona strana in un passaggio l'imprecazione mehercle, per Ercole). E' un mondo di elementi primari, l'acqua, la terra e il fango, il fuoco-dio, il sangue. Questa materialità terrestre e primeva è bene espressa nell'evidenza fisica dei corpi sporchi e delle ferite aperte, del combattimento nella sua forma più cruda e brutale, comprendente le dita negli occhi e i morsi in faccia, e in un senso del soprannaturale che pesa su tutto. La bella fotografia di Daniele Ciprì rende assai bene questo universo tenebroso e profondamente magico, dagli sciami di faville ai pollini al fumo e alla nebbia.
La temuta foresta dove i fuggitivi guidati da Remo si addentrano è una foresta da horror, popolata di strani rumori e pericoli invisibili: di uno sciocco che vi si avventura da solo sarà ritrovato solo mezzo corpo, appeso a un albero. E anche se il film non è un fantasy, è molto forte al suo interno la presenza del divino – un divino primordiale, spietato e incomprensibile – e del presagio. Questo è un film di forze oscure. La maledizione della vestale con sacrata verba, parole maledette, contro chi violerà il suo cerchio di fuoco ha una potenza che fa correre un brivido per la schiena non solo ai membri di questo gruppo di fuggiaschi.
La bella pagina dell'aruspicina leggendo il fegato dell'animale sacrificato ha un senso di verità arcana che era già perduto in epoca classica (quando Cicerone celiava dicendo di non comprendere come mai un aruspice non ridesse quando incontrava un altro aruspice). Del resto, è ovvio in un film su Romolo e Remo il futuro “prema” sui suoi protagonisti. “Tremate – questa è Roma” è la frase che conclude il film. Inevitabilmente, anche nel razionalistico Romolo e Remo di Corbucci la predizione trovava il suo ruolo e l'ultima parola era “Roma”.
E' molto interessante che nel presente film lo scontro mortale fra Romolo e Remo avvenga, sì, in seguito alla violazione di un limite sacro, ma che questo limite non sia il famoso solco tracciato con l'aratro per la fondazione della città bensì quello che circonda i cadaveri dei caduti. Così il limite viene ricondotto a una sacralità che precede quella sociale e civile, ovvero al culto dei morti, e cioè alle origini stesse della civilizzazione.
Siccome buona parte del film si svolge con Romolo gravemente ferito e assente dall'azione, questo lascia spazio a Remo che è il vero protagonista del film. Attraverso un percorso che nasce dalla disperazione quando i due fratelli sono resi schiavi – Soli sumus, “gli dei non si curano di noi” – e culmina nel rifiuto di uccidere Romolo dopo la profezia che il fratello ucciderà il fratello, Remo afferma un rifiuto degli dei rivendicando una fiducia esclusiva nella forza, che diviene via via più feroce. E' tristemente paradossale che tutto ciò nasca dall'amore fraterno per svilupparsi come dispotismo. Nella parabola di Remo possiamo leggere tutta la storia della tirannia come hybris.
In un gruppo di attori che affronta entusiasticamente una condizione estrema, spicca Alessandro Borghi, notevole nel ruolo di Remo. Nella parte finale del film, quando è incerto e schiacciato dal peso dei suoi errori e delle sue colpe, i suoi occhi febbrili sono davvero quelli di Macbeth. Alessio Lapice è Romolo. Ma bisogna menzionare anche l'eccellente Tania Garribba nella parte della sacerdotessa vestale, il cui viso smagrito e i cui occhi sottolineati dal trucco primitivo e sacrale esprimono in maniera impressionante la posizione di confine fra l'uomo e il dio.

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