venerdì 22 febbraio 2019

9 doigts - 9 dita

F.J. Ossang

Avete mai pensato che onirico è l'anagramma di ironico? Ce lo ricorda in modo fulminante il film 9 doigts – 9 dita del regista, poeta, scrittore, musicista F.J. Ossang: un piacevolissimo film d'avanguardia che è passato in proiezioni speciali per alcuni cinema selezionati.
Impossibile da riassumere se non per sommi e infedeli capi, 9 doigts si situa sotto i numi tutelari di Jean-Luc Godard e Raul Ruiz. A un certo punto di questo lungometraggio poetico-noir-fantastico viene esibito il romanzo Vampir di Hanns Heinz Ewers (incidentalmente, l'autore de La mandragora e sceneggiatore de Lo studente di Praga); e questo testo un personaggio lo definisce “un romanzo a pezzi e colori”. Ma proprio questo è il film di Ossang! Che è un mosaico non tanto di frammenti narrativi quanto di suggestioni (cinematografiche, letterarie, paraletterarie, eccetera) in forma semi-narrativa. Le brevi scene sono tagliate da stacchi bruschi e improvvisi che sottolineano le battute finali con una perentorietà godardiana (si pensa subito ad Alphaville); né, è chiaro, sarebbe stato possibile un altro tipo di interpunzione. La bella fotografia in b/n, che concretizza l'amore di Ossang per l'espressionismo, è firmata da Simon Roca.
Il film incrocia le forme ben conosciute del noir e del polar per sfociare nel delirio. Inizia sulla misteriosa fuga del protagonista Magloire, con un cappotto dal bavero alzato da personaggio di Wenders (ma nel corso del film par di notare una vaga somiglianza con Jean-Paul Belmondo che rafforza la matrice godardiana). Ed è, questo inizio, ingannevolmente narrativo: la sua fuga sui binari fa pensare all'inizio di Mr. Arkadin di Welles; tanto più che la continuazione della fuga nel tunnel roccioso, con quel falò acceso, ricorda ancora il barocchismo wellesiano, benché spinto verso l'estremismo dei B-movies (il Jesus Franco “wellesiano” del primo periodo ne sarebbe stato fiero).
Catturato in un acquario (ombra di The Lady from Shanghai!) dai suoi inseguitori, Magloire viene arruolato a forza in una folle banda di gangster (un viaggio in auto a un certo punto passa al negativo, come in Nosferatu di Murnau) e finisce su una nave da carico che solca l'oceano portando un velenoso carico di polonio. Le inquadrature di navigazione viste dalla nave ricordano l'Atalante di Jean Vigo; non so se questo abbia un collegamento con una battuta memorabile quando più tardi un ambiguo medico dice a una delle due donne “Le darò delle pillole di Atalanta Fugiens” – ma certamente è divertente vedere l'Atalanta mitologica trasformata in un'erba medicinale.
La nave è pilotata dal capobanda Kurtz; e se uno non avesse colto il riferimento, basterebbe una battuta quando il film si avvia verso la fine, “E Kurtz che crede ancora di poter seguire la mappa!” (del resto risuona anche il korzbskiano “La mappa non è il territorio”). I suoi folli disegni di rotta sono fallaci e/o sabotati. La nave non va verso la sua destinazione ma viene attirata e come fagocitata dalla cupa Nowhereland, un'isola “senza radici” nata dai rifiuti, e simbolo della polluzione. I personaggi si chiedono se non siano capitati su un vascello fantasma; ma concludono che il vero vascello fantasma è la Nowhereland stessa. Come che sia, non per nulla la loro la nave si chiama Marryat. Il capitano Marryat era uno scrittore dell'Ottocento, allora noto e oggi dimenticato, che appunto scrisse un romanzo sul vascello fantasma dell'Olandese Volante... Ma nota (e questo potrebbe essere lo scherzo più nascosto del film) che Marryat scrisse anche uno dei più famosi racconti di lupi mannari del XIX secolo; ed ecco che, in mezzo a immagini ricorrenti della luna piena che corre tra le nuvole, ci vien detto che uno dei gangster si chiama Warner Oland – come l'attore che interpretò il licantropo che contagia il protagonista nel primo film hollywoodiano sull'uomo lupo, The Werewolf of London del 1935 (Lon Chaney jr. verrà dopo).
Questa quantità di riferimenti, che lo spettatore del film si diverte molto a cogliere, non deve far pensare che 9 doigts sia un gioco letterario-cinefilo, una specie di film à clef. I riferimenti nascosti e le citazioni appartengono al procedimento poetico di marca surrealista di Ossang, che vorrei qui paragonare alle deliziose poesie tassellate di citazioni di Marianne Moore. Il film è appunto un'opera poetica (in un passaggio il capitano della nave, in primissimo piano guardando in macchina, recita un grande discorso tratto dai Canti di Maldoror di Lautréamont: “Io ti saluto vecchio oceano”), e attraverso questa una meditazione allegorica politico-ecologica in una dimensione apocalittica.
Un'opera oscura e chiarissima, onirica e ironica, indubbiamente ricca di fascino. Il Pardo d'Argento per la miglior regia al Festival di Locarno per questo film è meritato.

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