giovedì 14 settembre 2017

Dunkirk

Christopher Nolan

Mettiamo le mani avanti: Dunkirk di Christopher Nolan è un buon film di guerra. E' adeguatamente emozionante durante la sua ora e tre quarti e lo spettatore non esce insoddisfatto. Sennonché... e già, c'è un sennonché.
Ci sono film che crollano sotto il peso delle loro ambizioni. Per Dunkirk la faccenda è un po' diversa, forse più gloriosa, forse meno: Dunkirk crolla sotto il peso del suo trailer. In altre parole, il trailer che ha battuto ossessivamente i cinema era così ben realizzato da farci entrare con grandi aspettative (poi c'entra qualcosa anche il nome del regista); ci aspettavamo non già un film discreto ma un capolavoro del cinema bellico – e non lo abbiamo avuto. Sulla drammatica evacuazione di Dunkirk (che fuori dal mondo di lingua inglese sarebbe Dunkerque, ma pazienza) ci ha detto di più in pochi asciutti minuti il capolavoro di Noël Coward e David Lean In Which We Serve che tutto il film di Nolan.
Vediamo innanzitutto gli aspetti positivi. Dunkirk è un incrocio di linee geometriche che si dipartono da un punto che è la spiaggia: dove – in quella che è l'immagine più memorabile del film – linee di soldati inglesi aspettano in fila ordinata un possibile imbarco per la salvezza. Verso questo punto focale si dirigono le navi di salvataggio e le imbarcazioni dei civili inglesi, qui rappresentate per sineddoche dal piccolo yacht di Mr. Dawson, come pure gli Spitfire della RAF, come angeli vendicatori, che si impegnano in combattimento contro gli aerei tedeschi. Da questo punto focale si allontanano le navi cariche di soldati in ritirata, magari destinate a una triste fine per le bombe e i siluri nemici. Questo sistema spaziale è ricco di fascino e dà una struttura forte al film.
Un'idea molto efficace è che il nemico nel film non ha volto. I tedeschi che stringono d'assedio l'esercito inglese “parlano” all'inizio attraverso i volantini che fanno piovere dai loro aerei, ma per il resto del film rimangono un nemico esterno, quasi astratto, che si manifesta dal fuori campo attraverso cannonate, fucilate e siluri; vediamo solo gli aerei della Luftwaffe, di cui però indicativamente non vengono mai inquadrati i piloti (in netto contrasto con quelli della RAF). I soldati tedeschi appaiono come ombre indistinte solo in un segmento del finale.
Le scene più interessanti sono quelle di guerra aerea; qui il film mostra in modo eccellente la “fatica” del combattimento aereo, le difficoltà a inquadrare l'aereo nemico nel mirino e a colpirlo con le mitragliatrici in un punto vitale.
Dove Dunkirk è carente invece è sul piano umano, e questo è il grave limite della sceneggiatura, anch'essa firmata da Christopher Nolan. Questi soldati sono anonimi (e no, non possiamo farlo passare come simbolismo, poiché tutto l'impianto del film si muove in direzione contraria).
Probabilmente ciò è anche causato da una scelta narrativa che sulla carta sembra vincente: frazionare il racconto in una serie di sottostorie in un ossessivo montaggio parallelo – che viene però indebolito dall'incapacità del film di costruire degli autentici personaggi/episodio. Anche quei personaggi cui viene dato più spazio, non è che emergano a tutto tondo sul piano psicologico. In generale i personaggi non hanno consistenza – il che equivale a dire che ormai Hollywood ha perduto una delle componenti più preziose della sua eredità classica.
A tal proposito devo richiamarmi, in contrapposizione a questo film, alla lezione figurativa del cinema bellico inglese (anche realizzato “in diretta” durante la guerra, come il film di Coward e Lean sopra citato) – il quale poi era influenzato dalla grande scuola documentaristica dei Grierson e dei Jenkins.
L'elemento di maggior consistenza umana prima del solenne pre-finale, quando il mare davanti a Dunkirk si riempie delle piccole navi dei civili inglesi accorsi al salvataggio (ma perché così poche in un film ricchissimo di effetti speciali?), l'ho trovato all'inizio del film, quando i soldati francesi sulla barricata gratificano di sguardi ostili e di un sarcastico “Bon voyage” il soldatino inglese in fuga. Fuga che, beninteso, era una necessità strategica. “Dobbiamo riprendere il nostro esercito”, dice il contrammiraglio - perché la temuta invasione nazista dell'Inghilterra è alle porte. Nella ritirata di Dunkerque vengono salvati, che nella logica spietata della guerra vuol dire risparmiati, 335.000 soldati (non avere usato i carri armati fu il grande errore strategico di Hitler, sul quale ancora si discute).
In conclusione, l'impressione generale che lascia Dunkirk è che tutto quello che il film dice sia già stato detto meglio. Sulla tragedia della guerra fra mare e sabbia resta inarrivabile la sconvolgente apertura di Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Le esplosioni disastrose sulle navi col massacro di chi c'è sopra non valgono quelle del recente e superbo The Eternal Zero di Yamazaki Takashi. Più in generale, il senso di minaccia e di intrappolamento (la tragedia di Dunkerque, come di Dien Bien Phu o simili, è quella della condizione dell'animale in trappola) viene espresso adeguatamente sul piano narrativo ma sarei perplesso a dire che il film riesca a trasmetterlo compiutamente in modo empatico, né l'angoscia del tempo che sgocciola via. Avete visto per esempio il dimenticato Hunde, wollt ihr ewig leben (Stalingrado) di Frank Wisbar? E la frenesia disperata della sconfitta l'abbiamo vista molto meglio, per fare un nome illustre, in Michael Cimino.
Tuttavia, mi sembra giusto aggiungere che non è fair play nei confronti di Nolan criticarlo per non aver raggiunto quei livelli; è più giusto paragonarlo a Nolan stesso; e anche qui, bisogna dire che Dunkirk non vive al livello della drammaticità potente di Interstellar (“Non sono montagne, sono onde!”) o di altre opere nolaniane.

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