sabato 5 agosto 2017

I tempi felici verranno presto

Alessandro Comodin

Il cinema di Alessandro Comodin va seguito con attenzione. Se L'estate di Giacomo era bello, I tempi felici verranno presto (anch'esso distribuito dalla Tucker Film) è bellissimo. Comodin persegue un'idea radicale – e incredibilmente fisica – di cinema, che, visti i due lungometraggi e il corto Jagdfieber (La febbre della caccia) che li precedeva, possiamo prendere come un dato di fatto autoriale. Del presente film, Comodin oltre che regista e co-sceneggiatore con Milena Magnani è montatore assieme a João Nicolau, nonché operatore alla macchina per la fotografia di Tristan Bordmann. Merita aggiungere che una caratteristica dei suoi film è un uso notevolissimo e quasi ipnotico del sonoro.
Il tema è una doppia fantasia sulla fuga. Doppia perché il film si articola in due episodi; due storie collegate da rime e richiami, come lo scavare, gli animali sventrati nella logica crudele della caccia, i fucili; ed è anche da notare come la fuga dei due giovani all'inizio del primo episodio e la corsa del ragazzo e della ragazza nel secondo si rispecchino sia dal punto di vista spaziale sia da quello del linguaggio cinematografico, con un carrello laterale che elegantemente crea un angolo, e non una parallela, col movimento.
Il primo episodio si svolge in qualche momento durante l'ultima guerra, fra il 1943 e il 1945- Due giovani sono in fuga in un bosco; appena scappati si liberano di cappotti di foggia militare, e questo è l'unico tenue accenno di backstory. Diceva l'autore in un incontro che Robert Bresson è il suo regista numero uno. Comodin non imita Bresson – non usa i suoi attori, quasi tutti non professionisti, come “modelli” in senso bressoniano: tutto il contrario – ma nel suo film c'è qualcosa di assolutamente bressoniano: la fatica del corpo, del movimento. Perché in Bresson i corpi sono pesanti, lourds – e qui, segnatamente nella sequenza iniziale della fuga ma pure in tutto il film, c'è una sensazione fisica della gravezza; i corpi non sono agili, non sono ballerini, si muovono soggetti alla forza di gravità.
Ti ammazzo. Ti butto nel buco e ciao”, sentiamo fra i due giovani in una rissa scherzosa, da amici, ma non del tutto. C'era qualcosa di simile ne L'estate di Giacomo. Si direbbe sia un tratto ricorrente in Comodin questo che l'amore/l'affetto/il desiderio si colori di un elemento di minaccia (e vedi nello stesso episodio il gioco pericoloso di puntarsi contro il fucile). Il secondo episodio, poi, circa quest'aspetto è paradigmatico e letale.
Anche nella seconda storia sta al centro il bosco, dove una ragazza, Ariane, si inoltra, e incontra il lupo – il lupo che raggiunge la dimensione mitica e umanizzata del lupo mannaro delle fiabe. Ariane vuole uscire dal quotidiano e ritrovarsi (è il termine usato nel film) nella natura; ma attenzione, la natura in Comodin è panica e spietata, e bene lo mostrava già Jagdfieber.
E' un essere dentro la natura in entrambi i casi. Se il primo episodio si basa su un realismo di fondo, pur nella voluta indefinitezza del contesto, il secondo vira su una dimensione onirica e fiabesca, ma senza perdere di quella materialità che è un tratto costante di Comodin.
Perché, cosa notevolissima, Comodin non raggiunge questa indefinitezza attraverso i mezzi dell'astrazione; al contrario, qui come nei suoi film precedenti mostra un'assoluta consistenza, un'immediatezza del reale. I suoi boschi sono così concreti che il film trasmette una sensazione di sinestesia – l'umidità, la tattilità del legno e della pietra, l'odore del terriccio e delle foglie morte sembrano passare attraverso lo schermo in sintonia con l'elemento visivo.
Il racconto è criptico, allusivo, si muove su più piani, lascia molto alla “cooperazione interpretativa” dello spettatore; non è ricezione passiva di una storia, a tale that's told, ma piuttosto conoscenza per empatia: come già ne L'estate di Giacomo, ma in misura maggiore. Esagerando ma nel senso giusto, potremmo paragonare il film alle macchie di Rorschach, in cui il nostro inconscio può guardare se stesso. Prendiamo la caverna onirica in cui si avventura Ariane, uscendone infine come Tom Sawyer da un piccolo pertugio luminoso: chi scrive ci vede una profondità ctonia, per cui il passaggio alla luce e all'aperto attraverso quel pertugio è una ri/nascita; e viene a coincidere con l'entrata della sessualità; ma attenzione, è una rinascita crudele, perché è un'entrata nel mondo delle favole – il mondo del lupo. Che appare nelle forme di un ragazzo che le gira intorno nel fiume dal fondo fangoso dove lei si bagna, nuotandole intorno in una sorta di corteggiamento animale. Questa è una storia d'amore e di sangue. Breve nota in margine: chissà se Comodin ha letto André Pieyre de Mandiargues (sto pensando ai racconti de Il museo nero) – c'è nelle sue storie qualcosa che lo ricorda. C'è una scomparsa, una esplosione di sessualità, una ricerca collettiva, una morte – e c'è un epilogo in prigione che ridefinisce la storia; ma non la “spiega” nel senso tradizionale, anzi, aggiunge dell'altro a questa affascinante, elusiva disponibilità

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