domenica 4 ottobre 2015

Ritorno alla vita

Wim Wenders



C’è una battuta di importanza capitale in Every Thing Will Be Fine (Ritorno alla vita) di Wenders quando, nella hall a un concerto, Sara, l’ex compagna del protagonista (che lo guardava da un palco in platea), osserva: “Ti siedi ancora vicino all’uscita come una volta”. Sì, lo scrittore di successo Tomas (James Franco) è proprio un tipo così: quello che si siede sempre vicino all’uscita. Every Thing Will Be Fine si potrebbe definire sommariamente come una storia di colpa e redenzione - chiarendo che la colpa qui non è un fatto oggettivo ma una durezza dell’anima. 
Il fatto concreto è un incidente inevitabile: guidando nella neve Tomas investe accidentalmente due imprudenti fratellini in slitta, dei quali uno muore. Nessuno, nemmeno la loro madre single, gliene addebita la responsabilità; tuttavia il senso di colpa resta; perché se uccidi un bambino ti senti tragicamente colpevole anche se sei innocente. Tuttavia Tomas rifugge da questo senso di colpa riconoscendolo a livello razionale (sul momento mette anche in atto un tentativo di suicidio “dimostrativo”) e insieme indurendosi a livello emotivo; e il film racconta del suo recupero (in Wenders la dialettica è sempre tra la fuga e il ritorno).
Un avvenimento che accade anni dopo è indicativo: al luna park (meraviglioso come in questa scena Wenders fa passare il mood dall’allegria festiva alla minaccia) un incidente di cui sono testimoni spaventa Tomas, la sua nuova compagna Ann e la figlia di questa. Tornati a casa, Ann gli dice: “Non c’è niente che riesca a scalfirti?” – e ne nasce un “litigio freddo” con una discussione molto wendersiana sulle mani che tremano o no. Gli attimi in cui il mondo traumaticamente cambia dovrebbero cambiare anche noi. Ma noi facciamo resistenza al cambiamento; non è che non lo viviamo, ma lo nascondiamo a noi stessi e agli altri (per quale miracolo della forza di volontà, o per quale vischiosità del sentire, le nostre mani non tremano quando dovrebbero tremare?)
La realtà è che Tomas è un lontano discendente dello scrittore Wilhelm di Falso movimento. Senza nemmeno rendersene conto, fagocita le emozioni per trasferirle sulla pagina bianca; non per nulla gli viene osservato nel corso del film che i libri scritti dopo il suo incidente sono migliori; e in questo trasferimento è come se si assolvesse dall’obbligo del tremore. Sente la tragedia intellettualmente ma non più nelle fibre; lascia che il tempo la ottunda. Ancora alcuni anni dopo, l’incontro casuale con Sara (che era la sua compagna al tempo dell’incidente e che lui ha lasciato) lo conferma. Lo schiaffo improvviso di Sara ci ricorda che il male che uno ha fatto rimane comunque, per quanto uno possa cambiare e magari pentirsi (“Pensavo solo a me allora”. Il cinema di Wenders è pieno di queste figure).
Come si sarà capito, il film si dilata “nel corso del tempo”, qualcosa che Wenders ama molto, con salti ora di due anni, ora di quattro, che seguono la vita di Tomas, col passaggio da Sara ad Ann e il suo formarsi una famiglia, visto che Ann ha una figlia bambina (adorabilmente saputella, Mina è uno dei personaggi più brillanti del film). Contestualmente il film segue la vita di Kate, la madre del bambino ucciso, e di suo figlio Christopher. I due, Tomas e Kate, condividono in una sequenza magica un momento di commozione e ricordo (in questa scena la vecchia strip di foto che Tomas osserva è una reminiscenza di Alice nelle città); ma poi non si vedranno più. Fra le righe, c’è un accenno alla più grave e profonda delle questioni religiose occidentali: la teodicea: qual è il senso del dolore e del male?
Si potrebbe osservare che la narrazione parte in modo un po’ incerto; ma poi Every Thing Will Be Fine prende ala e cresce costantemente.  E’ anche un film sulla paternità mancata, altro tema wendersiano; Tomas non può avere figli (fisicamente e metaforicamente); anche la figliastra Mina gli ricorda - senza polemica - che lui non è suo padre; quando poi a Tomas è richiesto di assumere una funzione di aiuto e consiglio (cioè paterna) verso Christopher cresciuto, aspirante scrittore anche lui, si sottrae miserabilmente al suo compito. La vendetta di Christopher innesta una sequenza che dal punto di vista del linguaggio cinematografico si può definire solo magistrale, quando la famiglia torna a casa e trova una finestra aperta: parlo dello stupefacente senso di minaccia reso con piccolissimi carrelli da destra a sinistra e viceversa.
Imprevedibilmente (considerata la personalità di Tomas) il film si rivela un percorso di ricrescita. Nello svolgimento come possibilità e nella conclusione come possibilità concretizzata, con quell’abbraccio finale (e quei due primissimi piani, contrapposti, illuminati dal sole in faccia!) ritroviamo quella pietas, quel senso doloroso della fratellanza umana - in Italia potremmo dire leopardiano – che è un tratto base di Wenders, e di cui è manifesto Il cielo sopra Berlino col suo sequel. E’ come se accanto a Thomas e Kate ci fosse - invisibile stavolta a noi come a loro - uno degli angeli di quel film.
Inutile dilungarsi sulla bellezza dell’aspetto visuale (che nel buon cinema è sempre consustanziale al narrativo); dalla scena di minaccia citata al modo eccellente di risolvere una conversazione telefonica, a un movimento in dolly che rivela il panorama urbano attraverso la finestra di un grattacielo. Sono stati diffusamente segnalati i riferimenti visuali ad Andrew Wyeth; vorrei menzionare anche quelli a Edward Hopper nella scena del dialogo al bar con Christopher. Ma su un punto è obbligatorio soffermarsi, ed è l’uso del 3D.
Nonostante il nome, non è esatto dire il 3D dia la sensazione della tridimensionalità. Quello che fa è di scomporre i piani, aumentando la distanza fra il primo piano e il fondo; c’è un’illusione di profondità ma al costo di un effetto di schiacciatura che solitamente è più spiacevole che altro; e serve soprattutto a lanciare oggetti contro lo spettatore.
Invece Wenders, il direttore della fotografia Benoît Debie e la director of stereography Josephine Derobe comprendono bene la natura del 3D e lo hanno portato a un livello eccellente, almeno per lo state of the art. Wenders ha capito l’importanza delle linee oblique come congiunzione psicologica per connettere il primo piano e il fondo, e allora ecco oggetti nella posizione adatta, oppure strade e vialetti con pilastri e steccati che formano una linea obliqua. Nonché, naturalmente, un’abile scansione dei piani, o al contrario un’apertura senza limiti che eliminano propriamente quell’effetto di schiacciatura. Anche se non si può dire che i difetti siano sempre eliminati (penso alla bruttezza, verso l’inizio del film, di un primo piano in auto con un normalissimo gioco di messa a fuoco che il 3D rende irreale), comunque Every Thing Will Be Fine è un passo avanti su questo terreno scivoloso. 


Nessun commento: