martedì 12 maggio 2015

Far East Film Festival 2015


A onta del pregiudizio di portasfiga del numero, la diciassettesima edizione del Far East Film Festival di Udine (aprile-maggio 2015) non poteva andar meglio. Mi ripeterò, ma la cosa che si nota a prima vista in questo festival è la sua atmosfera felice. Il concerto di Joe Hisaishi il giorno prima dell'apertura, la rutilante apparizione di Jackie Chan in persona il primo giorno (per inciso, una lezione di gentile professionalità per tutti quei divetti italiani che se la tirano, mentre non sarebbero riconosciuti se andassero a Capodistria), i bambini e adulti filippini in estasi davanti ad Anne Curtis, la simpatia degli ospiti in generale: queste immagini mantengono nel ricordo un calore che, come dire, ti illumina il giorno.

Sì, ma i film? Ebbene, anche in un'annata che non si può considerare la migliore del cinema asiatico, il festival è riuscito a presentare almeno un capolavoro, 0.5mm di Ando Momoko, e una pattuglia di ottimi film, fra i quali una tripletta coreana che ha fatto man bassa dei premi del pubblico.
Ma restiamo in Giappone. Ferma restando la preminenza del citato 0.5mm (vedi scheda sotto), vorrei segnalare subito la splendida coppia Parasyte e Parasyte 2 di Yamazaki Takashi, un regista (da Always – Sunset on Third Street a The Eternal Zero) unisce alla verve narrativa una forte carica di umanità. Vale anche per questi due film di invasione aliena, in cui dei parassiti intelligenti si impossessano degli umani producendo memorabili trasformazioni orrorifiche, e nutrendosi del primo malcapitato che passa. Portando sullo schermo il manga di Iwaaki Hitoshi, Yamazaki realizza un grande fantahorror pieno di suspense, venato di umorismo e popolato di personaggi memorabili - a partire dal protagonista due-in-uno, il giovane Takashi e il parassita Migi che abita nella sua mano destra (come frutto di una possessione mal riuscita): una coppia di amici-nemici e poi amici che avrebbe divertito Howard Hawks.
Conviene ricordare come nel Sei-Settecento andasse di moda in letteratura sottoporre la civiltà europea ad analisi critica attraverso l'occhio di un osservatore “alieno”: persiani (nelle Lettres Persanes di Montesquieu), irochesi, seleniti (in Cyrano de Bergerac), fino agli abitanti delle isole impossibili di Swift. Ebbene, Parasyte fa qualcosa di simile: questi parassiti che impadronendosi dei cervelli umani arrivano a una specie di para-umanità (un tema esplorato specialmente attraverso il personaggio della dottoressa) consentono al film di elaborare uno sguardo esterno e tuttavia partecipe, con notevoli risultati satirici e a modo loro filosofici.
Altro regista ricco di calore umano è Okita Shuichi (di cui abbiamo visto un paio d'anni fa The Woodman and the Rain). Il suo Ecotherapy Getaway Holiday è un piccolo film basato su un concetto semplicissimo: un gruppo di donne ultraquarantenni si trovano perse e abbandonate a se stesse durante una gita in un posto montagnoso del Giappone - che, dimensioni a parte, ricorda il Friuli. Pieno di episodi gustosissimi, il film è molto preciso nel descrivere “in punta di penna” i piccoli tratti dei personaggi: è una commedia di osservazione, dove anche l'elemento di essersi perdute non rappresenta la peripezia narrativa ma serve a dare un punto d'appoggio all'interazione. Le rivelazioni sulle loro vite e personalità che emergono via via compongono un ritratto psicologico non banale.
Il delizioso Make Room di Morikawa Kei, visibilmente tratto da un lavoro teatrale (dello stesso regista), si svolge tutto nella sala del make-up del tournage di un film AV, cioè un porno. Non è però un film erotico; anzi, è castissimo, a parte il dialogo sboccato (ma alla giapponese, non all'americana, vale a dire senza volgarità), che deriva dal contesto professionale. Per dare un'idea, ricorda Rumori fuori scena di Bogdanovich: è un film sul backstage, molto divertente, molto ben recitato e anch'esso pieno di calore umano senza esagerazioni. Piace il suo sguardo “affettivo” ma realistico, realistico ma non moralistico, sul mondo del porno. Si vede bene che il regista Morikawa ne proviene!
Un altro film, meno bello, che getta uno sguardo sul backstage del cinema (qui i film di supereroi e mostri per bambini, alla Power Rangers) è il passabile Unsung Hero di Take Masaharu (del quale ho perduto 100 Yen Love). Commovente il suo omaggio all'umile arte dello stuntman. Ben più rilevanti però sono il folle The End of the World and the Cat's Disappearance di Takeuchi Michihiro e il sentimentale Forget Me Not di Horie Kei (per ambedue, vedi schede sotto).
Delude invece Kabukicho Love Hotel, del bravo ma irregolare Hiroki Ryuichi. Questo film su un “hotel dell'amore” è, come si suol dire, telegrafato, con personaggi e dialoghi troppo visibilmente ad effetto, con pagine sentimentali ovvie (non per il contenuto: per la realizzazione). Fra queste storie interlineate, l'unica veramente riuscita è quella dei due poliziotti vanno all'hotel per far sesso e si accorgono che la cleaning lady è una ricercata. Sarebbe stato meglio incentrare su di essa l'intero film. Anche la resa degli attori è varia: bene le interpreti femminili, ma il protagonista Sometani Shota è un belloccio totalmente inespressivo che lavora contro il film.

Hong Kong era presente con alcuni supercolossi in coproduzione con la Cina, a partire da Dragon Blade di Daniel Lee che ha inaugurato il festival. Se entrerà nelle storie del cinema, più che per il valore artistico è per i valori produttivi: questo film costosissimo unisce Jackie Chan agli hollywoodiani John Cusack e Adrien Brodyper una bizzarra fantasia storica che fa incontrare nel 48 a.C.i cinesi dell'Impero con una legione di antichi romani sperduta sulla Via della Seta, divisa tra buoni e cattivi. E' un film gradevole, super-solenne e mortuario, basato sulla logica del sacrificio, con dell'ottima action e una messa in scena spettacolare. La scena in cui tutte le etnie guerriere della Via della Seta scendono in campo contro gli invasori – ciascuna accompagnata da un diverso strumento per la propria musica marziale – da sola vale il prezzo del biglietto.
Invece è mediocre Helios di Sunny Luk e Longman Leung. A parte le vivaci scene d'azione non c'è nulla; può essere interessante il suo aspetto “panasiatico” - ma alla fine (che resta sospesa, essendo questo un primo capitolo) ad affrontare il cattivissimo Helios restano solo i cinesi, cioè chi ha messo i soldi per il film. Osservazione personale: io nei gialli non capisco mai in anticipo chi è l'assassino, in Helios invece l'ho capito non appena è comparso, e ne ho avuto la conferma (spoiler) quando a un certo punto annuncia coram populo che va a telefonare. O sono diventato intelligente, o la sceneggiatura è sciocca (temo la seconda).
Ma più doloroso è ammettere di esser rimasti delusi dal kolossal di chiusura The Taking of Tiger Mountain del grandissimo Tsui Hark. Certo, l'action fa strabuzzare gli occhi (più di tutte una scena che coinvolge una tigre) ma da Tsui Hark ci si aspettava che fosse inserita in un racconto - qui invece assai scialbo. In questo senso, The Taking è l'anti-Detective Dee. Non a caso le sole figure interessanti sono la folle coorte dei cattivissimi, nella quale si infiltra l'eroe, con un gioco di inganni debitore alla tradizione wuxia.
Com'è noto, Hong Kong, sempre più schiacciata dal regime cinese, cerca di riaffermare nel cinema la propria individualità. Un esempio, pur essendo una coproduzione, ne è Kung Fu Jungle di Teddy Chen. Storia della lotta fra un ex carcerato e un serial killer, ambedue maestri di kung fu, si svolge interamente nel mondo delle arti marziali, con buona tensione e sicurezza narrativa. Ma soprattutto è un omaggio affettuoso al vecchio mondo del cinema di arti marziali hongkonghese, recuperandone tutti i personaggi-simbolo in un'orgia di cameo e citazioni.
Passando ai film di provenienza interamente hongkonghese, il più bello, e uno dei migliori del festival, è l'impegnativo Port of Call di Philip Yung. Tratto da un fatto reale, è un'investigazione sull'assassinio di una prostituta sedicenne – dove il problema non è chi sia l'assassino ma perché l'ha uccisa e ne ha smembrato il cadavere (in una sequenza molto grisly). L'investigazione, condotta da un poliziotto malinconico (Aaron Kwok), è più che altro uno scavo psicologico; però alla fine il mistero delle psicologie e delle motivazioni è stato, volutamente, appena scalfito. Più che un thriller è quasi un film d'essai che riorganizza la materia del thriller, sull'antica domanda: da dove viene il male? Il regista e sceneggiatore Yung si affida a uno stile estremamente moderno, con uno svolgimento ellittico in cui la narrazione si compone di frammenti spesso enigmatici che saltano avanti e indietro da un anno all'altro. Non è quindi inutile notare che nei ringraziamenti sono menzionati autori come Ann Hui e Fruit Chan, e che c'è Patrick Tam fra gli interpreti.
Infine, i giovani del concorso hongkonghese di cortometraggi Fresh Wave mostrano che ci sono sempre nuove energie in crescita, e potrebbero essere i nomi (anche del Far East Film Festival!) di domani. Vorrei menzionare in particolare Being Rain: Representation and Will di Chan Tze-woon per la genialità dell'idea (l'ipotesi di una cospirazione cinese per far piovere ogni volta che c'è una manifestazione per la democrazia) e iPhone Thieves di Louis Wong, per la sicurezza con cui realizza nel breve spazio del cortometraggio un autentico thriller hongkonghese, dando anche spessore al personaggio del protagonista.

Passiamo da HK alla Cina continentale - il che è proprio quanto ha fatto il regista hongkonghese Pang Ho-cheung, un regular del festival, che in Cina ha realizzato Women Who Flirt. Una commedia dove c'è qualche scena o battuta carina, ma dell'audace Pang Ho-cheung è rimasto poco, salvo alcune cosette stilistiche (accelerazioni ecc.) che sembrano messe a mo' di firma. La commedia cinese del genere “come siamo diventati ricchi” continua a fare vittime! Comunque, una grande come Ning Ying ha fatto di peggio col suo ultimo film, l'orrido Romance Out of Blue, che gli spettatori del Far East Film non hanno visto - e per questo dovrebbero offrire una pinta di birra ai selezionatori.
Invece un wuxiapian veramente bello, anche al di là del fascino proprio del genere, è Brotherhood of Blades di Lu Yang. Parla di tre spadaccini della polizia segreta imperiale incaricati di scovare un ex potente che ora è ricercato; ma come sempre nelle lotte di potere, è alle tue spalle che si nasconde il pericolo maggiore. Dai wuxia non si pretendono psicologie bergmaniane, ma certamente personaggi ben delineati entro una trama intrigante, e questo Brotherhood of Blades lo provvede in abbondanza. E' ottima la caratterizzazione dei tre protagonisti (giustamente Maria Barbieri in una bella scheda sul catalogo del festival menziona Dumas); idem per i cattivi, fra i quali spicca per una convincente bizzarria maligna l'eunuco Wei.
Zhang Meng, che anni fa aveva presentato al festival il bellissimo The Piano in a Factory, conferma le sue doti con Uncle Victory, una storia di pentimento e redenzione dove un ex gangster che ha passato 10 anni in prigione (Huang Haibo) mette su un asilo infantile, aiutato dall'infermiera tough-as-nails Zhang Xinyi. Non è una commedia, anche se i bambini dell'asilo provvedono molti momenti divertenti, ma un film nostalgico (sul passato e sulle cose che si dovevano fare e non si son fatte) e drammatico. La mano dell'autore di The Piano in a Factory è riconoscibilissima: la recitazione impassibile dei personaggi, il concetto del movimento (staticità rotta da improvvisi sbalzi di velocità), lo stile della fotografa, l'amore scenografico per gli scenari desolati dell'archeologia industriale da un lato e il teatro dall'altro, tutto si colloca in una linea di continuità con quel film. Zhang Meng è un autore assolutamente da seguire.
Mi scuso per non aver visto altro della selezione cinese; lo stesso vale per la “terza Cina”, Taiwan, presente con soli tre film quest'anno, dei quali ho visto uno solo: Meeting Dr. Sun di Yee Chih-yen, non sgradevole ma in ultima analisi trascurabile.

Un'altra nazione poco rappresentata quest'anno, dopo la grande esplosione dell'anno scorso, sono state le Filippine. E' intelligente e divertente la commedia The Gifted di Chris Martinez, storia amabilmente sfacciata di due amiche poi diventate nemiche fin dai tempi della scuola, che tanto erano brutte alolora quanto diventano belle dopo (sono Cristine Reyes e la glamorous Anne Curtis). Martinez, che è uno dei migliori sceneggiatori filippini, ci costruisce intorno una umoristica riflessione metanarrativa, che sfocia dopo i titoli di coda in un rovesciamento radicale (ciò non stupirà chi conosce il capolavoro di Marlon Rivera The Woman in the Septic Tank, che Martinez ha sceneggiato).
Una commedia assai diversa, meno spumeggiante ma sempre piacevole, è Where I Am King di Carlos Siguion-Reyna, che mette in scena le differenze di classe - nonché la lotta fra generazioni - nella storia di tre ricchi (un nonno e i nipoti) che vanno ad abitare nel quartiere più povero di Manila.

In compenso la Corea non solo era presente in forze ma, come anticipato sopra, si è pappata il primo, secondo e terzo premio del pubblico (un colpo riuscito in precedenza solo al Giappone). Il film vincitore è il pregevole e commovente Ode to My Father di J.K. Youn. Attraverso la storia della vita di un uomo ossessionato dal senso di colpa - da bambino ha perso la sorellina durante un'evacuazione nella Guerra di Corea - e dalla memoria del padre, perduto nella stessa occasione, il film si allarga al racconto della storia dell'intera nazione: dall'invasione cinese fino al giorno d'oggi, passando per l'emigrazione nelle miniere in Germania e la guerra del Vietnam. Chi durante il film non ha mai avuto gli occhi umidi – beh, probabilmente non dovrebbe andare al cinema.
Al secondo posto è stato votato il film storico The Royal Tailor di Lee Wok-suk, già vincitore in passato con How to Use Guys with Secret Tips (ha detto sul palco di considerare Udine la sua seconda casa). L'impianto di questo racconto di rivalità fra due sarti di Corte è sempre quello del mito di Mozart e Salieri: il mix di invidia e ammirazione di un artista di successo per un artista innovatore più dotato di lui. Non è solo la sontuosità di costumi e scenografie a imprimersi sullo schermo ma una tragedia personale e d'ambiente (gli intrighi di Corte).
Al terzo posto My Brilliant Life di E J-yong, davvero un grande del cinema coreano. Anche se in Corea è quasi un genere quello delle malattie e della morte (pensiamo a ...ing di Lee Eon-hee), ci vuole sia coraggio sia grande arte per fare un film come My Brilliant Life, il ritratto di un sedicenne colpito da progeria - una malattia che fa invecchiare a ritmo accelerato, e infatti lui sembra un vecchio - e la cronaca del suo ultimo anno di vita con i suoi genitori. O meglio, farlo senza finire nel Kitsch della spettacolarizzazione del dolore e della retorica strappalacrime. Questo è un film estremamente commovente, certo, ma mai piagnone: è attraversato da una serietà e una leggerezza (e perfino un sense of humour) ammirevoli. Le interpretazioni del padre, della madre e del vicino di casa sono eccellenti (rispettivamente Gang Dong-won, Song Hye-kyo e Bauk Il-seob), ma è sconvolgente quella dell'attore bambino Jo Sung-mok, il cui realismo assoluto va oltre quello impressionante del makeup di Greg Cannom.
Fra gli altri film coreani (non tutti visti) presenti al festival vorrei segnalare Confession di Lee Do-yun. Si tratta di un thriller psicologico del genere "Delitto e castigo", dove conosciamo fin dall'inizio l'accaduto ma l'argomento è la progressiva disintegrazione psichica di tre amici d'infanzia: due che sono colpevoli (uccidono senza volerlo la madre del terzo durante una rapina, con lei complice, per fregare l'assicurazione) e il terzo, che non ha idea che siano stati loro e vuole trovare l'assassino col loro aiuto. Le tre interpretazioni - diverse come stile - sono spettacolose. Non capita tutti i giorni di vedere un giallo coreano così solido: prosegue in modo nettissimo, matter of fact, con una specie di ferocia consequenziale sul piano narrativo e senza la minima sbavatura.
Gangnam Blues di Yoo Ha (del quale, a proposito di film storici, vorrei ricordare l'ottimo A Frozen Flower) ci porta nel quartiere oggi più fashionable di Seul quando era solo un villaggio contadino, e la speculazione edilizia basata sul gangsterismo si apprestava a papparselo. Sicuramente debitore al cinema americano (Scorsese e Coppola) è un vasto affresco gangsteristico e politico, che segue il modello della “vita esemplare” raddoppiandolo in due protagonisti, la cui ascesa è destinata a finir male.
Anni fa TAZZA: The High Rollers di Choi Dong-hoon, un thriller sul gioco d'azzardo tratto da un manga coreano, aveva avuto grande successo in patria (ed era anche piaciuto al Far East Film). Ora trova un seguito con TAZZA: The Hidden Card di Kang Hyoung-chul, sempre ambientato nel mondo dei giocatori e dei bari. Film piacevolissimo, pieno di musica, spirito e vivacità, dalla prima scena col bambino terribile fino a una magnifica partita a carte (giocata seminudi per ridurre le possibilità di imbroglio) alla fine. C'è una scena di romanticismo sanguinario assai bella, e sul piano dell'azione il film funziona come un orologio (vedi lo scambio “ostaggi contro denaro” con benzina e accendino, o poco dopo un car chasing velocissimo).
Infine, in un anno di nuovo privo dell'Horror Day, non dimentichiamo il notevole psycho-horror The Wicked di Yoo Young-seon (vedi scheda sotto).

Il 2015 è stato l'anno del debutto al Far East Film Ferstival della Cambogia, un debutto importante, visto che The Last Reel di Sotho Kulikar ha vinto il premio Black Dragon (voto degli abbonati sostenitori). Dedicato alle vittime della crudeltà dei Khmer Rossi, è un melodramma imperniato sul tentativo di ri-girare l'ultima bobina, perduta, di un film realizzato subito prima che questi assassini si impadronissero del paese. Pur con qualche tratto di ingenuità didattica nella sceneggiatura di Ian Masters, specie nella caratterizzazione dei personaggi, è un film convincente. Degno di nota l'aspetto metacinematografico, con un'affascinante rispecchiamento, che si rivela a poco a poco, tra l'antico film-nel-film e la vicenda dei protagonisti.

L'Indonesia era rappresentata da un solo film, ma significativo, Siti di Eddie Cahyono. Girato in b/n, il semplicissimo e raffinato film indonesiano parla di una donna dalla vita difficile: è poverissima e indebitata, perché il marito pescatore è paralizzato in letto dopo un incidente in cui ha perso la barca. Siti vive con lui, con una suocera molto umana e con un figlio bambino piuttosto discolo. La cosa peggiore è che da quando lei ha cominciato a lavorare al karaoke per guadagnare qualche soldo il marito non le parla più. Siti è stanca di lui, ed è anche corteggiata da un poliziotto che le piace, ma cerca di tirare avanti.
La freschezza nel fotografare situazioni d'ogni giorno (i lavori in casa) e rapporti umani (quello col figlioletto ma non solo), la quieta espressività con cui il film riferisce i dolori quotidiani, e contestualmente la nettezza di questa ambientazione poverissima – tutto ciò mi sembra debitore della lezione (si capisce, estremamente superiore) di Satyajit Ray. Sono storie di vinti, ma non rassegnati. La protagonista Sekar Sari, dal viso non bello ma interessante, trasmette tutto questo con una recitazione minimale, di ottimo livello. Magnifica la fotografia in b/n di Ujel Bausad: per citare solo un esempio, il finale – che allude al suicidio in mare – con Siti che cammina nel buio è davvero imponente.

Chi scrive non aveva mai sentito parlare di Viet-horror, ma sì: esiste una produzione horror in Vietnam! Lo testimonia Hollow di Tran Ham: è un (ambizioso) horror in senso stretto, con possessioni di spiriti a catena; evidentemente il Vietnam non segue la stupida politica proibizionista della Cina in merito. Il sottotesto, poi, parla di ragazzine che i gangster rapiscono per venderle ai bordelli dove i ricchi le possono stuprare, e siccome il film è di ambientazione contemporanea pare un'ammissione abbastanza franca delle magagne locali; unico accenno “ufficiale” un'irruzione della polizia, messa in scena in modo piuttosto ridicolo; per il resto davvero sembra un paese senza legge. In sé il film ha aspetti positivi (i trucchi sono discreti, la figura della bambina posseduta è adeguatamente sinistra, la prima parte è agile), ma anche negativi: la seconda parte è un po' gonfia dal punto di visto narrativo, a tratti quasi confusa, anche se è quella in cui si scoprono gli altarini; ci sono alcune goffaggini nella caratterizzazione dei personaggi; gli attori non sono tutti di buon livello (pessimo il patrigno che poi si rivela il cattivo, ad esempio).

Restiamo in campo horror per parlare della Thailandia. The Swimmers di Sophon Sakdaphisit è interessante, ha molte idee, ma le mischia a delle ingenuità (fra cui i classici “soprassalti a vuoto” dell'horror povero). Uno sceneggiatore più esperto avrebbe isolato l'idea migliore di tutte - il tema dell'aborto e dell'uomo incinto (un rovesciamento di prospettiva anche morale, una delle poche volte che il discorso critico di gender è giustificato) - costruendoci sopra tutto il film; qui invece esso si sviluppa nella seconda parte, misto a molto materiale secondario quando non inutile. Ma ciò non vuol dire che il film non abbia dei numeri. L'autore ha visibilmente studiato e ristudiato Hitchcock. Anche l'ambientazione nel mondo dei nuotatori sportivi e delle piscine – per una volta, senza influenza del J-horror – mi sembra nuova.
Sempre dalla Thailandia arriva l'apprezzabile The Last Executioner, che Peter Waller ha tratto dal libro di memorie dell'ultimo boia thailandese. E' un ambizioso biopic sull'ultimo carnefice (l'ultimo prima che si passasse dall'esecuzione con arma da fuoco all'iniezione letale), che riesce a concentrarsi sulla sua psicologia e la sua riflessione sul karma senza cascare nel pamphlet all'americana. Il quadro che ne emerge è variegato e completo (un carnefice che ama Elvis e sognava da giovane di diventare una rock star non si incontra tanto spesso), ben servito dall'interpretazione di Vithaya Pansringarm. Notevoli le scene della prigione, impressionanti quelle delle esecuzioni. Il film tiene un piede saldamente nel realismo e l'altro, in modo via via più evidente, nel simbolismo fantastico; l'inquietante attore David Asavanond - che avevamo già visto come spirito vendicativo in Countdown di Nattawut Poonpiriya – appare anche qui nel ruolo di uno spirito presente nella vita/nella psiche del protagonista. Forse nella parte finale questo simbolismo diventa un po' opprimente, ma anch'esso contribuisce alla riuscita del film.
Il terzo film della selezione è saldamente ambientato in Thailandia anche se è un po' un mix internazionale, coproduzione thai-indonesiano-americana diretta da un regista coreano-americano. How to Win at Checkers (Every Time) di Josh Kim è la storia, raccontata in flashback, di una crescita nell'ambiente povero thailandese e del rapporto del bambino col fratello maggiore (che è omosessuale, ma questo in Thailandia non sembra comportare il minimo problema). Il film ha i suoi difetti: un uso eccessivo della voce narrante nella presentazione dei personaggi all'inizio, alcuni cali di ritmo, un personaggio di cattivo (il giovane Junior) del tutto inutile. Però Josh Kim ha talento, sa lanciare uno sguardo sulle cose, e il film aumenta man mano di ritmo e di livello. Anche a parte l'aspetto estetico, il film desta l'interesse per la rappresentazione tanto del mondo della prostituzione omosessuale, con una notevole scena in un bar gay, quanto del curioso sistema thailandese del servizio di leva per estrazione a sorte.

Uno pensa a Singapore come a un posto piuttosto noioso – o almeno, con un cinema poco vivace. Ebbene, ecco che arriva a smentirci una commedia delirante e assolutamente oltraggiosa, Rubbers (“Preservativi”) di Han Yew Kwang. Che fa anche cambiare idea sulla censura di Singapore: evidentemente la nudità è assolutamente proibita, nemmeno un capezzolo, ma tutto il resto è permesso, da mimare il pompino in mille maniere a un'orgia di condom e dildo in primo piano (usati in tutti i modi possibili), al linguaggio e alle gag più spinte.
E' una raccolta di tre storie interlineate sul tema dei condom, una realistica con un fondo sentimentale, due fantastiche e surreali (in una appare un condom umano come consigliere invisibile di una condom reviewer che vuole sedurre un idraulico, ma ancora più divertente è l'altra, a sfondo onirico, in cui la barzelletta della donna che rimane attaccata per la bocca facendo un blowjob all'uomo viene prolungata e declinata nel modo più perverso). Il divertimento non viene solo dall'argomento: la regia è buona, al pari della recitazione (vedere una seria attrice sessantenne che maneggia un dildo con assoluta nonchalance vale da solo il prezzo del biglietto). Rubbers vince il piccolo premio im/morale di questo blog quale film più bawdy del festival.

Inutile, infine, menzionare l'importanza delle sezioni collaterali dei documentari (apprezzatissimo quello di Sunada Mami The Kingdom of Dreams and Madness, uno sguardo in profondità sullo Studio Ghibli), dei classici restaurati (fra i quali ho spazio per menzionare solo lo sconvolgente The Tragedy of Bushido di Morikawa Eiko), e infine la sezione retrospettiva Martial Arts curata da Roger Garcia, che ha permesso agli spettatori di vedere o rivedere alcuni classici del genere – stimolando il rimpianto per un cinema povero e sincero che, quale che sia lo state of the art del cinema hongkonghese e asiatico, comunque non si fa più. 
 

Nessun commento: