mercoledì 4 marzo 2015

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Roy Andersson

Signore, che pazzi sono questi mortali!”, se la ride Puck nel Sogno di una notte di mezza estate, ma il termine fools vale anche buffoni. Pazzi e buffoni: lo si potrebbe mettere in epigrafe a Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, film magnifico, nerissimo e follemente spassoso, nonché più saggio di quanto ci possa piacere di pensare; è opera del settantenne svedese Roy Andersson. In apertura, un personaggio dal viso cereo (come tutti) esamina gli uccelli imbalsamati in una sala di museo. Ma questi uccelli non sono tanto imbalsamati quanto la donna che lo attende immobile, o pure l'uomo stesso: perché nella loro fissità tassidermica almeno mantengono un'apparenza di vita e di volo, mentre questi personaggi viventi sono morti.
Bene, abbiamo un uomo che guarda gli uccelli. Ma se vogliamo prestar fede alle dichiarazioni del regista a Venezia, sono anche gli uccelli che guardano l'uomo: il film nasce dalla fantasia che osservino gli uomini dai loro rami e cerchino di immaginare cosa stanno facendo. Un piccione... consta di una serie di quadretti (i colori sono tenui, spenti) in piano sequenza, con un'inquadratura fissa frontale e distanziata che concretizza una distanza anche emotiva. Roy Andersson citava Brueghel il Vecchio; c'è poi chi ha menzionato Otto Dix e chi Edward Hopper; io per conto mio vorrei allegare Magritte. Sono episodi e personaggi comici e folli, sottilmente alieni; eppure, in questo speculum ornithologicum li riconosciamo benissimo come parte di noi.
Cosa sarebbe la vita senza un bicchierino”, dice un tale in un bar. A giudicare dai loro volti raggelati e apatici, anche con un bicchierino la loro vita non è un gran che. Impassibili come i personaggi di Kaurismäki (ma il primo Kaurismäki, quello di Calamari Union e Lemingrad Cowboys Go America), sono rassegnati e tristi. “Sono contento di sentire che state bene”, si ripetono di continuo al telefono, ma questo non fa che aggiungere qualcosa alla loro tetra comicità.
Storie di poesie non recitate, di morti improvvise che colgono comiche e surreali, di appuntamenti mancati con ridicola continuità, di minime speranze e amare delusioni, di una grassa maestra di flamenco che smanaccia un bell'allievo con la scusa della lezione, e lui rassegnato seguita ad allontanarle le mani. Più tardi li rivedremo come sfondo, che piangono, nella vetrina di un ristorante: in Andersson è fondamentale la profondità di campo, perché come la vita il suo cinema si svolge su differenti piani visivi.
E' un universo nel quale, in un anonimo bar di periferia d'oggi, può fermarsi l'esercito di Carlo XII (regale e autoritario, gay perso, che parla solo per bocca del suo luogotenente) in marcia nel 1707 per la battaglia di Poltava. Cantano la “Marcia di guerra” sulle note di Glory Glory Hallelujah. Più tardi la scena ritorna: l'esercito si trascina sconfitto e sfasciato, il re mezzo morto si ferma di nuovo al bar perché ha bisogno di usare il bagno. Geniale il collegamento oggettivo tra “Vostra Maestà, purtroppo il bagno è occupato” e “Metà del regno è perduta”!
Il ritorno di ambienti e di volti crea una geografia, un territorio diegetico. I protagonisti - se si può usare questo termine per un leggero filo conduttore - sono una coppia ultra-sfigata di rappresentanti di giochi e scherzi di una tristezza capitale: una maschera deprimente, un cuscino con risata incorporata che sembra uscito da un film dell'orrore, e non possono mancare i denti di Dracula di plastica, “sulla cresta dell'onda da tanto tempo”. Jonathan e Sam, l'uno un piagnone, l'altro un debole capoccia, sono un duo assolutamente beckettiano, come beckettiani sono il loro misero campionario e le loro ripetizioni (“Domani dobbiamo fare buoni affari”). E' importante ribadirlo perché Beckett – non solo quello teatrale ma anche quello narrativo (Watt) – non solo è alla base della coppia ma presiede al film.
Un piccione... è mostruosamente divertente; però, anche se i due sfigati ripetono di continuo che la loro missione è di aiutare la gente a divertirsi, c'è nel film una dimensione assai amara dell'esistenza. Chi sorride? Sorridono (compostamente) le bambine che giocano sul balcone, gli amanti, e soprattutto i marinai che baciano la taverniera Lotta la Zoppa in cambio di un bicchiere di acquavite, in un flashback nel 1943, nel cono di luce lontana del passato – memorabile scena di lontano calore cantata (ancora!) sulle note di Glory Glory Hallelujah, ma sembra Kurt Weill. Poi ritorniamo al presente, e il vecchio che ricordava si allontana faticosamente mentre la canzone prosegue solo in flashback sonoro – col che l'ironia distaccata dell'esposizione esplode in un folgorante momento patetico.
Un episodietto intitolato Homo Sapiens mostra una scimmia orrendamente vivisezionata che dalla sua postazione di tortura ascolta la sperimentatrice al telefono col solito “Sono contenta di sentire che state bene”. Qui il film vira al nero più cupo. Soldati dell'epoca coloniale costringono indigeni negri a entrare in una gigantesca macchina rotante che emette suoni musicali mentre li arrostisce vivi; qui ed ora, un gruppo di ricchi bianchi vecchissimi guarda (o ricorda?) bevendo champagne. L'orrore e le colpe dell'esistenza (e ci sarebbe qualcosa da dire sulla storia dell'Occidente). Infine, mentre un gruppo di personaggi alla fermata dell'autobus discutono follemente sul mercoledì, sentiamo fuori campo il tubare dei piccioni. Gli uccelli continuano - sempre perplessi - a guardare.

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