mercoledì 10 dicembre 2014

Magic in the Moonlight

Woody Allen

Sta il concetto di magia nei suoi più vari significati alla base dell'ultimo film di Woody Allen, Magic in the Moonlight. Il primo è la magia come prestidigitazione, illusione ottica, trucco (è il mestiere del protagonista Colin Firth, illusionista di gran successo sui palcoscenici europei travestito da cinese). Secondo, e contrario, la magia come arcana realtà, che sostanzia l'ipotesi di un mondo differente in cui la telepatia e le premonizioni funzionano, e i morti rispondono all'appello nelle sedute spiritiche (la rappresenta la giovane Emma Stone, medium e sensitiva dalle capacità inspiegabili razionalmente). Terzo, la magia dell'amore: che è (attesta Allen in questo film e non solo) l'unica magia esistente nel triste mondo che si conosce “all'apparir del vero”. E quarto, naturalmente, la magia del cinema, questo dispositivo capace di materializzare i fantasmi e il passato (siamo nel 1928), il fascino di una sera d'estate in Riviera, conversazioni beneducate in cui ci si dicono cose cattive senza alzare la voce, abiti bellissimi di quando la gente sapeva vestirsi, un mondo - un po' alla Fitzgerald - di eleganza e ricchezza che oggi ci appare più perduto degli elfi di Tolkien. Del testo, parlando di tempo che svanisce, siamo nel 1928: i roaring (o comunque, sparkling) Twenties sono arrivati alla fine; e la scena nel cabaret berlinese già anticipa le atmosfere corrusche e isteriche di Bob Fosse.
E' facile capire che un filo forte lega la prima e l'ultima di queste magie: l'illusionismo e il cinema. Ma allora il grande illusionista è Woody Allen stesso – e il dilemma che si dibatte nel cuore del protagonista è lo stesso che da sempre si agita nel cuore e nel cervello di Woody Allen come persona e come autore... modificandosi solo perché si è precisato (qualcuno direbbe irrigidito) in senso sempre più pessimista e cupo. E' questo: siamo condannati a sopravvivere in un universo meccanicistico, inumano, basato sul cieco caso – o è possibile ritrovarvi un senso che ci porti ad essere felici?
Nel presente film, il famoso prestigiatore Colin Firth applica all'universo la logica del palcoscenico: tutto ciò che va al di là della realtà visibile è trucco e inganno: “E' tutto fasullo, dal tavolo a tre gambe al Vaticano”. Il film è ricco di battute carine come questa, ma ve n'è solo una all'altezza del Woody Allen degli anni d'oro, quando il protagonista ringhia: “Speriamo tutti che arrivi qualcuno dotato di superpoteri, ma l'unico superpotere certo brandisce una falce”.
Un amico e collega prestigiatore lo prega di aiutarlo, in base al principio che ci vuole un illusionista per smascherare un altro illusionista: lui ha cercato di smascherare una bella ragazza che spopola come medium fra le famiglie ricche del Sud della Francia, e pur essendo un esperto non c'è riuscito. Così... non era stato ancora fondato il CICAP, ma Colin Firth si precipita verso la Riviera con tutta la righteousness vendicatrice di un Piero Angela incazzato. Troppa, e troppo sprezzante e supponente è l'uomo, perché non si sospetti che c'è molta debolezza nascosta. E infatti succede quel che accade in molti film di Woody Allen: un evento imprevisto manda in aria il castello delle certezze del personaggio e fa emergere il suo vero io. Qui è (spoiler) il fatto che Emma Stone si rivela anche ai suoi occhi dotata di potere sovrannaturali. Lo scettico accanito diventa fervente credente - e arriva l'amore.
Sulla carta tutto questo – che copre solo la prima delle grandi giravolte filosofico-esistenziali del film – è assai bello. Il problema è che la resa cinematografica non corrisponde per qualità al fascino dell'idea; si ripete quella discrasia tra il concetto e la sua realizzazione che già caratterizzava Hollywood Ending – ma almeno là c'era l'oltraggiosa originalità dell'invenzione del regista cinematografico cieco. Qui, c'è molta saggezza (grande la zia Eileen Atkins, superba la sua discussione finale col nipote), ma questo discorso sull'illusione e la realtà era stato meglio espresso - solo per frugare tra i film alleniani recenti - in You Will Meet a Tall Dark Stranger (quel film che in Italia si chiama Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni sui manifesti ma non sulla copia, che fa testo). Tutto è già visto, dalla riflessione dubitosa sulla preghiera (Crimini e misfatti) al personaggio dell'egocentrico buffo nella sua esagerazione (Accordi e disaccordi); ma tutto ha una mancanza di verve, e di quella poesia che era propriamente alleniana: così il già visto diviene déja vu.
Certo, in Magic in the Moonlight il meglio, più che la storia, è l'atmosfera incantata, simile a quelle che così spesso Allen ha frequentato, e cito solo Una commedia sexy in una notte di mezza estate. Tuttavia manca qui la leggerezza densa (ossimoro) di quel film e dei suoi confratelli. Film corretto, ben recitato, Magic in the Moonlight contiene troppo poca magic per soddisfarci, e ancor meno moonlight. Restiamo con l'impressione che Woody Allen in diverse scene sembri aver fretta. Ma in realtà non è una questione di fretta o di tempo: è che si intuisce che non ci mette l'anima.

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