venerdì 26 settembre 2014

L'imperatrice Yang Kwei-fei

Mizoguchi Kenji
La Cina del VIII secolo della dinastia Tang fa da sfondo al primo dramma in costume girato a colori da Mizoguchi, prodotto dalla Daiei con la Shaw Brothers di Hong Kong. Benché Yoda nelle sue memorie accenni al poco interesse di Mizoguchi per il colore, i suoi soli due film a colori (apprezzati più in Occidente che in Giappone) sono di una bellezza rimarchevole. Per L’imperatrice Yang Kwei-fei Mizoguchi assieme ai suoi collaboratori sceglie tonalità pastello, variazioni sui colori primari, che però acquistano grande profondità e cupezza. In questo film come nel successivo Shin Heike Monogatari, Mizoguchi adotta negli esterni uno stile quasi flamboyant, diffondendosi in vignette di popolo (la sequenza della festa) che sembrano una novità nel suo cinema; peraltro, accanto a questo senso di profusione resta quell’elemento di condensazione rigorosa dell’immagine che conosciamo. Le scenografie curate da Mizutani Hiroshi sono irreali; il regista crea un mondo che non ha a che vedere con la realtà storica, anzi accentua il carattere di diversità e astrazione rispetto a questa (dove poi la vera Yang Kwei-fei era una figura ben differente). Mizoguchi e Yoda la trasformano in una ragazza semplice, trattata come una Cenerentola dalle sorelle; pongono un legame stretto fra lei e il mondo popolare, di cui si fa tramite presso il monarca che esclama: “Dimentico che sono imperatore, mi sembra di essere un uomo del popolo”. Non dimentichiamo che il protagonista è in primo luogo un artista (la sua noia verso gli affari di Stato è espressa all’inizio del film): la sua verità interiore sta nella musica e non nei riti del potere.
Yang Kwei-fei e il sovrano sono esseri vibranti di sentimenti e di passioni, e insieme sembrano aleggiare distanti, silenziosi, puri fantasmi. Nella conclusione le stanze imperiali sono devastate dal tempo, polverose, piene di foglie morte, ma in esse risuona ancora quel dialogo della coppia appena riunitasi nella morte che appartiene al presente narrativo del film; un collegamento fra l’adesso delle voci e il dopo dell’immagine che è anche un’elegia del tempo, come se l’amore risuonasse in quelle stanze ancora molto dopo la scomparsa dei due. Proprio come ne I racconti della luna pallida d’agosto i vivi e i morti (e il tempo dei vivi e il tempo dei morti) coesistono sullo stesso piano.
 
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)


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