giovedì 11 settembre 2014

Imamura Shohei: Giappone-insetto


Voglio fare film disordinati”, ha detto Imamura Shohei. Dove quel disordine sta per un approccio espressivo “forte”, antitradizionale, concitato: un approccio flessibile, orientato alla centralità della narrazione più che preoccupato di stabilirsi una rigida forma come (inevitabile richiamo!) Ozu Yasujiro, di cui Imamura è stato assistente e con il quale ha avuto un complesso rapporto, prima rifiutandolo e negandone l’influenza, ma riconoscendola più tardi (1).
Il cinema di Imamura Shohei è cinema dell’energia. Anticonformista radicale, il regista giapponese trova il suo oggetto narrativo nel mondo degli emarginati perché questi sono l’incarnazione di un terribile vitalismo, ingordo ed egoista, avido e brutale, un vitalismo frenetico negato dalla tradizione giapponese, e di cui invece il cinema di Imamura si nutre. Come i suoi personaggi, Imamura è fatto di lava. Così, il mondo imamuriano è un mondo di sfrenate passioni (il sesso, goloso e violento, in primo piano) e di incontenibile struggle for life.
In questo mondo giocano la loro esistenza gli attori girovaghi di Nusumareta Yokujo (Desiderio rubato, 1958), gli sbandati di Hateshinaki Yokubo (Desiderio inappagato, 1958) (2), i teppisti di Buta to Gunkan (Porci e corazzate, 1961), i minatori disoccupati di Nianchan (Il secondo fratello, 1959). O il pornografo di Jinruigaku Nyumon (Introduzione all’antropologia, 1966) o il gelido assassino di Fukushu Suru Wa Ware ni Ari (La vendetta è mia, 1979). O gli esponenti di minoranze etniche o culturali, che ritornano spesso nei film di Imamura (l’assassino de La vendetta è mia è cristiano) ma appaiono in particolare in Kamigami no Fukaki Yokubo (Il profondo desiderio degli dei, 1968) e naturalmente nel suo film più noto in Italia, lo stupendo Narayama Bushi-ko (La ballata di Narayama, 1983).
O le donne, cui Imamura ha sempre riservato un’attenzione particolare: e che non sono le eroine stilizzate di Mizoguchi o le figure vagamente ieratiche di Ozu, ma creature tenaci, furbe, vogliose, ingannatrici e sensuali, psicologicamente più forti degli uomini. Già nello scombinato quartetto di Desiderio inappagato (un noir con deliziosi accenni di commedia macabra) la donna assume la leadership del gruppo - e fa anche di peggio. Tipica “donna forte” imamuriana, la Tome di Nippon Konchuki (Cronache entomologiche del Giappone, 1963) si scava la strada nella vita con cieca determinazione, da cameriera a tenutaria di un bordello. Assume toni disperati l’incerta volitività della protagonista di Akai Satsui (Desiderio d’omicidio, 1964). Ma anche lo splendido documentario Nippon Sengoshi – Madamu Omboro no Seitsaku (La storia del Giappone del dopo-guerra raccontata da una barista, 1970) (3) approfitta per delineare “dal vero” una figura di donna affascinante e pericolosa, indimenticabile. E' degno di nota il ritornare della parola “desiderio” nei titoli imamuriani. La centralità della pulsione. Anche quando l’autore si pone preoccupazioni di ordine filosofico - come nel “documentario” d’impianto pirandelliano Ningen Johatsu (Evaporazione dell’uomo, 1967) o più mediatamente in La vendetta è mia – rimane saldamente agganciato alle tematiche della passionalità.
Ovviamente, l’ambientazione spazio-temporale sarà parimenti scelta in modo da sottolineare la lotta: cittadine o quartieri che muoiono per abbandono (Il secondo fratello, Desiderio inappagato), periferie metropolitane, annoiate città di provincia piene di desiderio represso. Il Giappone del primo dopoguerra (Porci e corazzate, aspra commedia sull’occupazione americana, la prostituzione, la perdita di autorità dei genitori); il Giappone della ricostruzione (Cronache entomologiche del Giappone, che abilmente passa di continuo dalla fiction al materiale documentario, lo stesso poi usato per La storia del Giappone del dopoguerra...).
I “paradisi etnologici” vengono visti da Imamura come luogo dell’istinto (La ballata di Narayama) (4) o colti nel momento dell’impatto distruttivo col mondo moderno (Il profondo desiderio degli dei). Ed anche i due suoi film “storici” sono ambientati in epoche di transizione: Eijanaika (Cosa ce ne importa, 1981) alla fine dello shogunato Tokugawa, il bellissimo Zegen (Il mezzano, 1987) nei primi 40 anni del ‘900. L’attenzione è sempre focalizzata sulla “parte bassa” della società: il protagonista di Zegen è un patriottico impresario di bordelli che vede la propria attività come avamposto della diffusione giapponese nel Pacifico.
I titoli di testa di Cronache entomologiche delGiappone ci mostrano un insetto che si arrampica faticosamente per un declivio. Possiamo assumerlo come simbolo dell’intero universo di Imamura: tanto più che - ci informa Audie Bock (5) - Nippon Konkuchi si tradurrebbe letteralmente Giappone-insetto. Del resto, Imamura usa largamente gli animali in funzione simbolica, evocativa di vita istintuale e selvaggia. L’esempio più chiaro ne è Il profondo desiderio degli dei, dove richiamano un rapporto uomo/natura che si perde nella civilizzazione.
Tuttavia, quello di Imamura non è un cinema sentimentale, commosso o - men che meno - volgarmente engagé. Nel suo vitalismo, Imamura non tende all’elegia, e questo spiega la persistenza del suo terribile humour. Imamura è acutamente sensibile all’elemento comico insito nell’essere umano in qualunque situazione, e da ciò il paradosso che anche nei suoi film più drammatici si ride moltissimo.
In questo mondo lupesco le psicologie sono dei punti fermi. Con la possibile eccezione della commovente Sadako di Desiderio d’omicidio - una casalinga frustrata che s’innamora del ladro che l’ha violentata e scopre l’utopia di altre vite possibili in una disperata storiad’amore-odio - i personaggi imamuriani sono eguali a se stessi, persi (o perfetti) nelle proprie monomaniache passioni. Ne è un esempio allucinante il protagonista de La vendetta è mia, artista del crimine dal bizzarro humor nero, pieno di cieca aggressività contro se stesso e gli altri. Gli uomini, come gli animali, non cambiano: alla fine di Porci e corazzate l’equiparazione tra uomini e maiali è buffissima e totale.
Quindi non può esistere in Imamura la tematica di Ozu della crisi - comprensione - ricomposizione. Un buon esempio lo troviamo ancora in La vendetta è mia, quando il padre tenta un fallimentare colloquio in cella con il figlio assassino. Le due figure sono inquadrate per un attimo nella tipica posizione di Ozu “all’altezza del tatami”: ma immediatamente la composizione si spezza, il figlio si alza e si muove rabbiosamente per la cella in preda al solito furore: come un alludere anche sul piano visuale all’impossibilità di quell’accettazione serenamente zen che è alla base dell’arte di Ozu.
A volte Imamura arriva ad instaurare un tempo circolare entro il quale le stesse situazioni si ripetono identiche con gli stessi personaggi in ruoli diversi (Cronache entomologiche del Giappone). O capita che nei suoi film - segnatamente in Introduzione all’antropologia, che per chi scrive è il suo capolavoro - un punto d’arrivo drammatico, un possibile finale, anziché dar luogo ai titoli di coda come lo spettatore prevede, si rovesci in punto di partenza per un nuovo sviluppo: accumulo, non crisi.
Un’eguale energia si fa ricordare sul piano formale. Quello di Imamura è un cinema di movimento, di veloce e sapiente montaggio e di movimenti di macchina precisi, espressivi, organici: dai primi piani veloci e impauriti, alla scoperta dell’assassinio, in Desiderio inappagato alla commovente panoramica a destra che chiude Il secondo fratello legando le figure dei due bambini alla città in crisi, al virtuosismo della tragicomica presentazione della fidanzata alla madre in Introduzione all’antropologia: lunghissima soggettiva in piano sequenza mentre la ragazza s’avvicina per un corridoio che sembra interminabile, attraversando vari campi intersecati di ombra e di luce finché la mdp si abbassa lentamente perché la madre è svenuta alla vista della volgare spogliarellista: dissolvenza e seconda soggettiva dal basso in alto: “Lei ti saluta” (6).
Imamura ama accumulare le componenti nell’inquadratura; ma riesce a farlo senza dare un’idea di sovraccarico grazie all’estrema eleganza espositiva. Di questa salgono in mente mille esempi, dalla bellissima sequenza dei titoli di testa di Porci e corazzate (con le due linee divergenti delle navi alla fonda e dei camion sulla riva) alle belle partizioni dello spazio ottenute con gli alberi ne Il profondo desiderio degli dei, dal drammatico gioco in bianco e nero alla fine di Desiderio d’omicidio alle sublimi composizioni, quasi espressioniste, di Introduzione all’antropologia.
Zegen si chiude con l’immagine del vecchio ruffiano ormai semipazzo che arranca in bicicletta dietro alle incuranti truppe del Sol Levante... Ma il cinema di Imamura non è cinema della sconfitta. E' aspra, ironica, tumultuosa dichiarazione d’amore per la vita: di sconfitte quest’ultima è distributrice generosa, d’accordo, ma come l’insetto del film gli uomini e le donne di Imamura, disperatamente umani, continuano ciecamente ad arrampicarsi per la salita.

(Nickelodeon, dicembre 1987)


POSTILLA 2006

Purtroppo l’ultimo ventennio ha coinciso con un rallentamento dell’attività di Imaura Shohei (solo 4 film, più un corto, dopo Zegen); tuttavia, in età avanzata il regista ha continuato a stupirci con film rari ma poderosi, che mostrano una ricchezza artistica da grande vecchio saggio.
Imamura continua con i suoi personaggi di irregolari e outcast. In Kuroi ame (Black Rain, 1989) - con cui eleva un memorabile monumento alle vittime di Hiroshima, e chiude alfine i suoi conti con l’eredità di Ozu - la protagonista Yasuko è donna (il film è anche un’ulteriore riflessione sul ruolo della donna giapponese) ed è contaminata dalle radiazioni, situazione vissuta socialmente come una vergogna. Il “dottor Fegato” di Kanzo sensei (Dr. Akagi,1998) è un discusso pioniere della medicina nel Giappone 1945, dai metodi artigianali (utilizza per le sue ricerche un microscopio ricavato dal proiettore di un cinema!) e non privo di buffi tratti monomaniaci. I protagonisti di Unagi (The Eel, 1997) e Akai hashi no shita no nurui mizu (Acqua tiepida sotto un ponte rosso, 2001) - non a caso interpretati dallo stesso attore, Yakusho Koji - sono due “colletti bianchi” espulsi dal processo produttivo (uno è stato licenziato, uno esce di galera per aver ucciso la moglie). Ambedue incontrano una donna (sempre col volto di Shimizu Misa) come catalizzatore della rinascita. E la centralità della donna in tutto il cinema imamuriano esplode in Acqua tiepida sotto un ponte rosso, il film dove culmina la continua riflessione del regista sul desiderio e la passione, col personaggio di Keiko, la cui energia erotica si materializza durante l’orgasmo in rivoli di acqua tiepida e feconda che scorrendo in mare attirano i pesci. Imamura ci parla sempre della pienezza maestosa dello svolgersi della vita - metaforizzata in The Eel nel lungo viaggio oceanico delle anguille per riprodursi.
E c’è sempre la dimensione della bellezza della vita nei film di Imamura anche i più tragici. Ne è un simbolo fugace la carpa che salta dall’acqua del laghetto osservata da Yasuko in Black Rain. Imamura ha sempre mantenuto la bellezza dell’inquadratura, il framing, le belle partizioni dello spazio, e le stupefacenti inquadrature della natura (forse le più belle, simili a stampe, ce le offre la prodigiosa fotografia di Komatsubara Shigeru in The Eel).
Il segmento girato da Imamura per il film collettivo 11 settembre 2001 - coll’agghiacciante apologo del soldato giapponese che è diventato un serpente perché ha visto cose che gli hanno fatto passare la voglia di esser uomo - resta il suo testamento. Imamura si è spento quasi ottantenne il 30 maggio 2006.

(Nickelodeon, dicembre 2006, ripubblicando l'articolo)

1. Su Imamura (nato a Tokyo nel 1926) cfr. Shohei Imamura, a cura di Adriano Piccardi e Angelo Signorelli, catalogo della personale dedicatagli dal Bergamo Film Meeting 1987. E' grazie al Bergamo Film Meeting che finalmente il pubblico italiano può conoscere la grandezza dell’autore.
2. Noto anche come Desiderio infinito. Fra gli altri film, Il secondo fratello circola anche come Il diario di Sueko; di Porci e corazzate uscì a suo tempo una versione tradotta e tagliata col titolo di Porci, geishe e marinai.
3. Imamura è anche autore di una importante produzione documentaria in cui -come nei film di fiction – riesce a dare una visione assolutamente eterodossa della storia recente giapponese.
4. La versione precedente girata nel 1958 da Kinoshita Keisuke aveva invece scelto raffinati moduli narrativi debitori del teatro Kabuki.
5. Shohei Imamura, cit., p. 24.
6. Merita qui ricordare che Introduzione all’antropologia - storia di un mistero venditore/autore di film porno - è pieno di ironici riferimenti metacinematografici, arrivando a chiudersi con un inaspettato e scherzoso corto circuito” fra i film del film, il film stesso e naturalmente la vita.

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