Un
treno è un segmento. Al suo interno si conosce un solo movimento,
avanti o indietro. Ecco allora che costringere l'azione di un film
tutta dentro un enorme treno fantascientifico, da cui non si può
scendere perché intorno c'è il nulla, significa incanalare
l'azione lungo un'unica linea – il che ne amplifica l'effetto
simbolico e psicologico, in una sorta di idraulica delle emozioni.
Così
nell'emozionante e visionario Snowpiercer,
del coreano Bong Joon-ho, l'ascesa dei rivoltosi dalla coda alla
testa del treno, scandita in tappe drammatiche dalla divisione in
vagoni assai diversi tra loro, assume particolare risonanza nella sua
natura di progressione - verso il trionfo e la morte.
L'idea
di partenza è una divertente frecciatina contro l'ecologismo
contemporaneo. I governi hanno avuto la bella pensata di diffondere
nell'atmosfera un gas che dovrebbe abbassare la temperatura per
risolvere l'effetto serra. Funziona anche più di quanto dovrebbe:
crea una nuova era glaciale che distrugge la vita sul pianeta.
Diciassette anni dopo, gli unici superstiti (per quel che se ne sa)
vivono su un lunghissimo treno, un'“arca sferragliante” che corre
eternamente su una linea ferroviaria circolare tutt'intorno alla
Terra.
Ma
su questo treno le differenze di classe vanno ben al di là della
comodità dei posti. Nei vagoni di coda, sovrappopolati e senza
finestrini, si accalca un'umanità miserrima e pezzente, nutrita con
tavolette di proteine ricavate dagli insetti; nei vagoni di testa si
godono la vita i ricchi; a capo di tutto c'è la “Sacra Locomotiva”
guidata da Wilford, il costruttore del treno. L'oppressione è
violenta; non a caso gli elmetti delle guardie ricordano gli elmi dei
soldati nazisti, e in generale il film è un'allegoria del
totalitarismo (vedi la sequenza dei bambini fanatizzati nel
vagone-scuola). Guidata da Curtis (Chris Evans), scoppia l'ennesima
rivolta: un gruppo di ribelli si fa strada sanguinosamente verso la
locomotiva, in scene di una crudeltà molto coreana: il tasso di
morte e di dolore nel gruppo protagonista è assai superiore a quanto
ci aspetteremmo in un blockbuster americano. E' un'ascesa
dall'inferno degli umili al paradiso festaiolo dei potenti, scandito
da momenti di scoperta stupefatta: il vagone-giardino con gli aranci,
il vagone-acquario con un pasto di sushi. Fino all'epilogo,
Snowpiercer sotto l'elemento fanta-avventuroso è una satira
sociale.
Incontro
cinematografico fra Oriente e Occidente, Snowpiercer è
sceneggiato dal regista e da Kelly Masterson (Onora il padre e la
madre), dalla graphic novel Le Transperceneige di
Jacques Lob, Benjamin Legrand e Jean-Marc Rochette. L'idea di base
potrebbe sembrare azzardata, ma come sempre la credibilità è
questione di messa in scena; e questo cronotopo, o
universo/situazione, è costruito su un realismo spietatamente logico
(collabora a renderlo credibile il grande lavoro scenografico del
production designer Ondrej Nekvasil). Il film si regge su
un'eccellente caratterizzazione dei personaggi, come il genio drogato
delle porte (l'attore coreano Song Kang-ho) che è il solo a
comprendere che la soluzione non sta nel conquistare il treno ma
nell'uscirne, e il solo ad aver notato negli anni che la neve sta
lentamente diminuendo. Lo stesso protagonista Curtis è inusuale
nella sua caratterizzazione: si porta dietro dei peccati che vanno
ben al di là del solito carico romantico alla Jena Plissken, e li
pagherà nel finale in un contrappasso karmico.
Bong
Joon-ho, un nome ben noto a tutti gli estimatori del cinema coreano,
è un cineasta molto fisico. Una costante del suo cinema è
l'antipatia per l'autorità costituita (cfr. Memories of Murder,
The Host, Mother), espressa solitamente nella
dimensione dell'ironia, nonché la solidarietà ribelle fra gli
umili, come per esempio la famiglia di poveracci di The Host.
Tutta la sua opera è caratterizzata da un gusto per il particolare
bizzarro e al tempo stesso realistico (nota qui lo shock dei ribelli
quando, avendo conquistato un vagone, per la prima volta vedono la
luce del giorno da un finestrino) e da un controllato humour
grottesco: il perfido Ministro Mason, interpretato da una Tilda
Swinton autoparodistica, offrendo di collaborare dopo essere stata
catturata si toglie la dentiera come un pegno di pace; oppure la
scena in cui occorre della luce (perché si combatte al buio e i
nemici hanno visori a raggi infrarossi) e dal fondo del treno arriva
una torcia che passa di mano in mano in una staffetta che richiama
direttamente la torcia olimpica.
Nella
fotografia di Hong Kyung-pyo, le
inquadrature esterne di un mondo gelato, benché desolanti, giocano
con la luce e lo spazio aperto in contrapposizione all'elemento
costretto e claustrofobico del treno. L'ascesa rivoluzionaria
culmina nell'incontro col capotreno Wilford (Ed Harris) e le sue
teorie: il treno è un ecosistema chiuso e occorre un dominio
assoluto. “Hai visto cosa fanno gli uomini senza un capo: si
divorano a vicenda... Tu puoi salvarli da loro stessi”. Come ogni
altra distopia, Snowpiercer tratta in forma di finzione
narrativa la grande questione posta nel Novecento dal nazismo e dal
comunismo: gli uomini devono essere liberi, a rischio di scatenare il
loro potenziale autodistruttivo, o è meglio che qualcuno pensi per
loro?
A
questo punto si consiglia a chi non ha ancora visto il film di
smettere di leggere: è inevitabile, per discutere di Snowpiercer,
svelarne la struttura, e quindi pagare lo scotto di uno spoiler
definitivo. La rivelazione del film non è tanto che Wilford offra a
Curtis il proprio posto alla guida del treno: questo è un vecchio
topos della
fantascienza, scalare la piramide oppressiva per vedersi proporre il
ruolo di nuovo reggitore “dietro la macchina”. E' che c'era
Wilford, tramite un complice, dietro la rivolta, da lui progettata
come le precedenti (impossibile qui non ricordare che Ed Harris era
il regista-demiurgo di The Truman Show).
Il motivo è freddamente logico: l'ecosistema del treno ha bisogno di
far calare periodicamente la popolazione, così i padroni del treno
organizzano delle rivolte da schiacciare. Qui appare chiaro un
rimando nascosto ma a ripensarci evidentissimo: Snowpiercer
è fortemente debitore a Metropolis
di Fritz Lang.
Con
la differenza - a parte ovviamente il livello estetico perché Lang è
un gigante - che mentre Metropolis,
sulla scorta dell'ideologia di Thea von Harbou, finiva con la
riconciliazione fra capitale e lavoro, per Bong Joon-ho non c'è
soluzione se non attraverso una palingenesi totale. In un abbagliante
finale aperto, che lascia l'incertezza sul destino di tutti
i personaggi salvo due, una donna e un bambino si allontanano nella
neve - in cui è ritornata la vita: in lontananza vedono un orso
bianco, come fosse un'apparizione divina (un giapponese direbbe un
kami) che porta un
raggio di speranza.
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