sabato 13 luglio 2013

The Lone Ranger

Gore Verbinski

Quando un film vuole riprendere un personaggio di peso della mitologia popolare, come il Lone Ranger (ignoto in Italia ma assai familiare negli States), deve, per così dire, declinarlo al presente. Cioè rispondere alle esigenze, alla morale, ai gusti, alla concezione narrativa del proprio tempo. Teoricamente sarebbe possibile darne una lettura rigorosamente “antiquaria”, nello stile di The Artist - ma significherebbe andare a caccia di guai al box office.
Per alcuni personaggi è facile, meno per altri; e vorrei sostenere qui che il sottovalutato The Lone Ranger di Gore Verbinski supera la prova con brillante ingegnosità. Sì, lo fa con un filmone che è molto lungo e che assomiglia a un pot pourri la cui lista degli ingredienti copre mezza pagina; ma chi se ne importa, stante che durante la visione non ci si annoia mai - e più di una volta si rimane ammirati?
Non bisogna sottovalutare la difficoltà. Perché questo personaggio - nato nel 1933 in radio, e poi moltiplicatosi in serial cinematografici, libri, telefilm, film, fumetti - è strutturato da una serie di topoi caratterizzanti abbastanza difficili da riportare nel cinema contemporaneo. Un tizio col cappello da cowboy bianco e la mascherina, che usa pallottole d'argento (ma non uccide) e che cavalca gridando “Hi-yo, Silver! Away!”, sulle note di Rossini, rischia di apparire anacronistico e quasi lezioso. Per di più, il Lone Ranger ha per aiutante e numero due l'indiano Tonto (che lo chiama Ke-mo-sah-be e parla appunto come gli indiani nei vecchi film) - il che rischia di ferire la stupida sensibilità politically correct di oggigiorno.
Il film risolve quest'ultimo problema rovesciando l'importanza dei personaggi. Tonto da sidekick diventa il vero protagonista, mentre il Lone Ranger impara da lui. Non è che il nome indiano Tonto significhi “tonto”, naturalmente, ma ci dà il destro di annotare che dei due il vero tonto è il Lone Ranger. Nel ruolo dell'indiano, traccia un altro dei suoi ritratti memorabili Johnny Depp, col viso impiastrato di terra e con un corvo imbalsamato (al quale dà del becchime!) come copricapo. Mantiene anche il modo tradizionale di parlare (delizioso il suo “Dobbiamo saltiamo!”, “Dobbiamo andiamo!”): può permetterselo in uno spirito camp, tanto più in un film schierato dalla parte degli indiani.
A giustificare i tratti anacronistici del Lone Ranger non provvede solo una sceneggiatura tongue in check (di Justin Haythe, Ted Elliott, Terry Rossio) che contiene tocchi veramente spiritosi: vale da solo il prezzo del biglietto vedere il Lone Ranger e Tonto che, come pretesto per investigare, fanno valere i regolamenti sull'igiene di oggi in un bordello del West (dove la maîtresse è una grande Helena Bonham Carter con una gamba d'avorio con arma da fuoco incorporata). La trovata vincente è quella di inserire il racconto base in una cornice: nel 1933 un bambino vestito da Lone Ranger visita una Mostra del Far West; la statua del “Nobile Selvaggio” si muove, rivelandosi Tonto vecchissimo, e gli racconta la storia com'è accaduta nel 1869. Ciò sposta tutto il film su un piano metanarrativo, ricco di ironia (Tonto che in un fermo immagine volta la testa per discutere con il bambino, o l'apparizione nella storia interna di un oggetto - il sacchetto di noccioline - appartenente al racconto-cornice).
C'è di più: Tonto rappresenta la classica figura del narratore inaffidabile, perché la sua memoria è labile, perché narra il proprio mito, e perché appartiene a un'altra cultura da quella bianca a cui parla - infatti la sua prima apparizione è in una mostra, come specimen di un mondo estinto, accanto al bisonte e al grizzly. Così vediamo l'identità tradizionale del Lone Ranger ricomporsi pezzo per pezzo attraverso il doppio filtro dell'inattendibilità del narratore infradiegetico e dell'ironia del “grande narratore” che è, come istanza narrante incorporea, il film stesso.
Questa struttura tutt'altro che banale consente un doppio grado di distanziazione, che lascia spazio all'assurdità del racconto e contemporaneamente smussa il lato aggressivo dell'ironia. Ecco dunque la traduzione oltraggiosa del nome Ke-mo-sah-be, o gli scherzi sul cavallo Silver, che appartiene alla stessa meravigliosa famiglia equina-quasi-umana del Trottalemme di Jacovitti e del Jolly Jumper di Lucky Luke. La stessa libertà narrativa consente al racconto di sviluppare l'elemento fantastico, con dettagli imprevisti e stupefacenti (i conigli che si rivelano mostruosi e carnivori, il cavallo che mangia gli scorpioni), e giustifica le spacconate ipercinetiche del finale. Gore Verbinski è un regista perfettamente inserito nel sistema commerciale (per questo i critici paludati non lo riconoscono) ma ha un'audacia e un senso visuale che marcano in senso autoriale ogni film della sua variegata carriera.

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