sabato 23 marzo 2013

Re della terra selvaggia

Benh Zeitlin

L'America, terra di spazi sterminati, nella sua vastità ha qualcosa che noi nella stretta e popolata Europa non possediamo: la dimensione dell'Eden. E' ancora possibile andare nella wilderness alla ricerca di un mondo in cui continua a svilupparsi (drammaticamente) la Creazione.
Potremmo definire “Re della terra selvaggia” (“Beasts of the Southern Wild”), di Benh Zeitlin, un'Apocalisse psichedelica. Il suo profeta è la bambina negra Hushpuppy, sei anni, orfana di madre, che vive nelle zone povere, emarginate dal mondo “civile”, del bayou della Louisiana. Suo padre la ama e contemporaneamente la trascura - non solo per rinchiudersi nel rimpianto della moglie morta (così bella che accendeva i fornelli senza toccarli) ma perché sa che la figlia resterà sola (lui è gravemente malato) e vuole insegnarle a essere forte. Proibito piangere. “Chi è l'uomo?” - e Hushpuppy: “Io sono io l'uomo!” (il film è sceneggiato col regista da Lucy Alibar, da una sua pièce teatrale).
Sto registrando la mia storia per gli scienziati del futuro”. Hushpuppy (interpretata in modo sconvolgentemente autentico da Quvenzhané Harris, di nove anni) intende il battito del cuore degli animali e capisce le semplici cose che dicono: ho fame, devo fare la pipì; “certe volte però parlano in codice”. Lirica e filosofica, la voce di Hushpuppy non solo attraversa ma materialmente fonda il film. Illustra prepotentemente il “mondo magico del fanciullo”, nel quale non c'è distinzione fra le categorie dell'immaginazione e della realtà: non solo i vivi e i morti (la madre) sono compresenti nel mondo ma uomini/animali/cose appartengono a uno stesso ordine di viventi. La voce di questa bambina di sei anni ha una potente saggezza da sciamano. Ci parla di un incastro perfetto fra tutte le cose che costituisce l'universo; se un solo pezzo si rompe, tutto crolla.
Quella che è la grande realizzazione artistica del film è di riuscire a unificare in una identica poderosa concezione visionaria il mondo interiore dell'infanzia e il mondo esterno, che si articola sotto il segno del mito. Ovvero, vediamo lo stesso universo magico e organico tanto nella mentalità infantile quanto nell'elaborazione mitica. Senza saperlo, questo è un film vichiano.
Per trasmetterci questo universo panico è necessaria una particolare bellezza della fotografia. Il nome che viene subito alla mente vedendo il film è naturalmente quello di Terrence Malick. Però, mentre Malick organizza un flusso di immagini girate in modo netto e rifinito fino all'estremo, la splendida fotografia di “Beasts of the Southern Wild” (di Ben Richardson) usa immagini più “sporche”: macchina a mano, pellicola sgranata, costruzione dell'inquadratura apparentemente immediata e istintiva.
Il bayou della Louisiana è popolato da una comunità anarchica e individualista - una comunità di giganti, capaci di irridere agli uragani. Siamo a metà strada fra il Southern Gothic di un Faulkner impazzito e quella mitologia pionieristica americana che comincia con le leggende di Paul Bunyan e Mike Fink, passa per Mark Twain (il Mississippi di Huck Finn) e finisce come malinconica evocazione in Kerouac. Ma in primo luogo questo racconto filmico fa venir voglia di citare il Rimbaud de “Il battello ebbro”, per l'estasi che lo attraversa.
In questo universo organico dove tutto è interconnesso, un giorno nella rabbia Hushpuppy colpisce il padre – che crolla a terra, debole com'è. E questo fa crollare l'ordine del mondo: un colpo di tuono, iceberg che crollano al Nord, liberando antichissimi mostri dal ghiaccio. “Mamma, mi sa che ho rotto qualcosa!” Riemersa dal ghiaccio, la razza dei mostri, gli Aurochs, che un tempo dominavano la terra, si mette in marcia distruttiva verso il bayou.
Inoltre, affrontato con coraggio dai coriacei abitanti del luogo, arriva anche l'uragano del secolo, che allaga tutto (“Per ogni animale che non aveva un papà a metterlo nella barca, la fine del mondo era già arrivata... Sono tutti giù nel fondo dove cercano di respirare attraverso l'acqua”). E poi i rappresentanti del mondo esterno rastrellano i locali e li portano volenti o nolenti in un campo-ospedale.
Molto ancora deve accadere; alla fine il film si trasforma in una Quest, infantile (di Hushpuppy con tre coetanei) ma sacra e solenne: in ricerca della madre (anche sotto forma di una madre sostitutiva), del modo di “aggiustare” il mondo, del piatto di alligatore fritto - come la madre lo preparava - che conforterà il padre morente. Perché, se la presenza della morte è fortissima in tutto il film, è con la morte del padre che Hushpuppy deve fare i conti più dolorosi. “Tutti perdono la cosa che li ha creati”.
Come ogni Quest, è un'impresa eroica - ma eroica la bambina lo è senza dubbio: proibito piangere. Ed eroica e solenne è la conclusione: dopo la morte e il funerale “vichingo” del padre vediamo Hushpuppy e la piccola comunità del bayou in marcia sventolando bandiere nere: gente che non si arrende mai.
Quando io morirò gli scienziati del futuro sapranno tutto”. E questa fantasia paradossalmente è vera; perché un'immagine poetica e commovente del Tutto è esattamente quello che ci trasmette il film.

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