domenica 17 febbraio 2013

Zero Dark Thirty

Kathryn Bigelow

Se non sconvolgente come lo splendido e doloroso “The Hurt Locker”, “Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow è comunque un grande film – anche senza tener conto della soddisfazione individuale che procura quando tre pallottole dei Navy Seals si piantano nella putrida testa di terrorista assassino di Osama Bin Laden alla fine di una caccia decennale.
L'apertura ci fa ascoltare, sullo schermo nero, la registrazione autentica della telefonata sconvolta di una delle vittime, passeggero su uno dei due aerei quando sta per schiantarsi sulle Twin Towers l'11 settembre 2001. Questo serve a porre il ground morale del racconto della caccia della CIA a Bin Laden – tanto che fa tornare alla mente una citazione del “Macbeth”: “La loro giusta causa inciterebbe a spargimento di sangue e grida di guerra persino l'eremita votato alle mortificazioni”. Ma la presa di posizione è morale, non narrativa: il racconto è rigorosamente matter of fact. Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal concentrano questa lunga caccia nella figura femminile di Maya (Jessica Chastain) che ha l'intuizione di scovare Bin Laden seguendo la traccia del suo messaggero più importante, e prosegue la sua ricerca attraverso successi ed errori, intuizioni e passi falsi, attraverso le sfide all'incredulità altrui e la frustrazione di chi sa di aver centrato un bersaglio che altri non vedono. Il film utilizza la sua sensibilità femminile non in termini di contraltare emozionale o intuitivo al decisionismo razionalizzante maschile ma, all'opposto, come capacità di fissare il punto centrale e tener duro su di esso senza lasciarsi deviare dalle incertezze e dalla volubilità dei colleghi, che badano solo al risultato immediato (è quasi una pagina satirica quella della riunione col direttore della CIA in cui tutti i maschi cercano di darsi un'aria analitica e oggettiva sparando percentuali di probabilità).
A Washington dicono che è una killer”, sentiamo riferire di Maya poco dopo la sua apparizione nel film. Quella della protagonista per scoprire il covo di Bin Laden è un'ossessione – analoga all'ossessione del sergente di “The Hurt Locker”. Vero che quella proveniva dalla guerra come droga (citazione in esergo al film) mentre nel caso di Maya l'ossessione ha una più precisa base morale: “Voglio prendere i responsabili di questa barbarie - e voglio uccidere Bin Laden”, grida dopo l'attentato in cui è morta anche la sua amica (è bene avvertire che il testo originale è più sobrio del doppiaggio italiano: non dice il retorico “questa barbarie”, dice “questa operazione”, this op). Nondimeno è evidente un carattere ossessivo comune – e di qui il cupo senso di vuotezza del “dopo”, di cui si fa portatore il lungo drammatico PPP che chiude “Zero Dark Thirty”. E' quasi inutile ricordare come questa del forzarsi al proprio estremo (“avventurarci nel tratto buio in fondo alla strada”: “Strange Days”) sia l'essenza del cinema di Kathryn Bigelow (la citazione è di Aldo Viganò).
In completa opposizione alle regole hollywoodiane, il film non si costruisce come un ordinato processo drammaturgico di avvicinamento al climax - la magnifica pagina della spedizione dei Navy Seals - ma scorre verso di esso come un fiume dalle ampie anse lente. Così il fatto che lo spettatore già conosca la conclusione positiva non gli impedisce di sentire acutamente la frustrazione scoraggiante di una lenta ricerca che sembra un girare in tondo senza sbocchi. Anche in ragione di questa identificazione empatica il film si focalizza totalmente su “noi” in contrapposizione a “loro”: sui cacciatori americani, al massimo sulle vittime degli attentati come quelli di Londra, mentre i terroristi islamici appaiono solo in relazione ai “nostri”, mai come controcampo narrativo; non hanno sequenze autonome proprie (fa eccezione una riunione di terroristi nelle “zone tribali”, ma è brevissima, visualizza informazioni ricevute, e sembra quasi un film rubato).
Zero Dark Thirty”, dicevamo, sposta tutto il racconto sul piano del puro fatto. E' una rarità assoluta se non un unicum nel campo del cinema americano un film che asciuga così totalmente, e vorrei dire spietatamente, il plot eliminando il gioco sentimentale. E' un grande film senza romanticismo. Non che Kathryn Bigelow non lo possegga nelle sue corde (basta pensare agli amori immortali sotto le stelle de “Il buio si avvicina”); ma qui, ancor più che in “The Hurt Locker”, se ne astrae, portando agli estremi limiti la lezione di Howard Hawks: un cinema di persone che sanno fare il loro mestiere. Dunque la regista rinuncia a quello che è sempre stato un portato irrinunciabile del film di guerra: il côté dei sentimenti (magari solo alluso come un “di là” rispetto alla narrazione). Non sappiamo niente di Maya. Ha avuto degli amori? ha figli? le piace la pittura? le piaceva la scuola da bambina? ha un gatto? (persino la ferrea Ripley di “Alien” aveva un gatto). Ma questo non è perché “Zero Dark Thirty” la mostri emotivamente fredda... c'è anche, all'inizio, una bellissima pagina di recitazione di fronte alla tortura dei terroristi prigionieri... ma perché tutto il film si concentra interiormente sulla sua incrollabile determinazione ed esteriormente sul qui ed ora della narrazione.
Infine tutto sfocia nella splendida sequenza della missione dei Navy Seals, che partono con elicotteri invisibili nella notte per andare a “terminare Osama nel suo nascondiglio ad Abbottabad (il film non grida ai quattro venti ma diplomaticamente lascia intendere la complicità del Pakistan con il terrorismo islamico). Nessuno aveva reso tanto memorabile un volo di elicotteri da guerra fin dai tempi di Coppola in “Apocalypse Now” - ma rovesciandolo: quello era luce, fragore, potenza, Wagner; questo è buio, silenzio, pericolo, sorvolare furtivi un paesaggio che la notte rende incantato.
E poi l'attacco alla casa, con l'alternanza delle soggettive verdi dei visori e delle oggettive buie, il tutto scandito dall'abbaiare dei cani, mentre le prime figure di gente allarmata sui tetti delle case vicine, le prime finestre che vi si illuminano, creano una suspense che nessuna scena di combattimento potrebbe eguagliare. Non v'è ombra di abbellimento, di “riordino” drammatico o estetico nella scena dell'irruzione. E' isterico affrettarsi, dolore e spavento, incertezza ed esaltazione, e infine la liberazione esausta della vittoria e del ritorno. Se il cinema ama esibire il corpo del nemico ucciso, qui dopo che il capo di Al Quaeda ha incontrato il suo destino non ne vediamo niente se non una barba grigia e un naso insanguinato nell'apertura del body bag.

Nessun commento: