sabato 26 gennaio 2013

Django Unchained

Quentin Tarantino

Bang all'improvviso! Spesso nei film di Quentin Tarantino il colpo di violenza omicida entra nella narrazione in modo imprevisto e fulmineo, come una gag (onde l'imprevedibilità produce un effetto quasi comico). Succede anche in “Django Unchained”. Non è solo il bizzarro sense of humour dell'autore: è il riflesso di un universo caotico. Ma una simile concezione del mondo si trova anche nel western italiano, e segnatamente nell'opera nera e tragica di Sergio Corbucci (“Il grande silenzio” - tenuto presente in”Django Unchained” sul piano visivo - finisce addirittura con la morte dei buoni e degli ostaggi e la vittoria dei cattivi; mentre “caos” è il solo termine adatto per il mondo impastato di fango e sangue in cui l'eponimo “Django” trascina la sua bara). E' dunque più della semplice passione cinefila che ha portato Tarantino a rendere omaggio a Corbucci nel nome dell'eroe del suo western - con tanto di dialogo tra il protagonista Jamie Foxx e Franco Nero in partecipazione straordinaria circa lo spelling e la pronuncia del nome (va da sé che i titoli di testa sono puro spaghetti western e su di essi risuona la canzone di Bacalov per il “Django” corbucciano).
Dunque noi abitiamo un mondo in preda al caos (un “Planet of Terror”, direbbero i gemelli siamesi cinematografici Tarantino e Rodriguez), nel quale galleggiano come relitti su un mare tempestoso i nostri sentimenti. Come l'amore per cui lo schiavo liberato Django vede comparire di continuo (nel fiume gelato in cui si bagna, nella piantagione che attraversa a cavallo) l'immagine fantasma della moglie perduta Broomhilda, che sta andando a liberare (non dimenticate mai la carica di romanticismo nascosta in Tarantino!).
Alberto Pezzotta in un'illuminante messa a punto ha ricordato come l'ispirazione massima di Tarantino sia il cinema di Hong Kong e ha osservato che i protagonisti di “Django Unchained” somigliano, più che ai cinici eroi picareschi di Sergio Leone, a quelli del western americano: giusti, motivati, altruisti. Verissimo, ma bisognerebbe aggiungere che nel loro altruismo - come lo incarna Christoph Waltz nel film - permane un'ombra molto tarantiniana di folle eccentricità (nota in margine: questa è la seconda volta che Christoph Waltz senza essere il protagonista - villain in “Bastardi senza gloria”, deuteragonista in “Django Unchained” - ruba il film in quanto personaggio più interessante di tutti). Oltre a tutto il personaggio di Waltz, rientra nell'imprevedibilità dei sentimenti uno dei tratti più originali del film, il rapporto di amicizia (e quasi parentale) tra il negriero Leonardo Di Caprio e il vecchio maggiordomo negro Samuel L. Jackson, più bastardo e razzista del bastardo suo padrone.
In una scena affascinante Christoph Waltz racconta a Django, presso il fuoco del bivacco, il mito tedesco di Brunilde (sua moglie è stata chiamata Broomhilda dagli ex padroni tedeschi); e il chiarore e l'ombra di lui si riflettono sulla parete di roccia. Un richiamo alla caverna platonica mi sembra assai probabile. Renderebbe chiara la concezione di Tarantino del cinema come copia delle idee: non le idee primarie dell'iperuranio platonico ma i grandi grumi mitologici che determinano la nostra Weltanschauung, e di cui è materializzazione il cinema (per Tarantino, l'unica realtà concreta: cfr. l'uso a dir poco disinvolto dei fatti storici in “Bastardi senza gloria”). Anche sul piano dell'onomastica: in Tarantino i nomi sono delle evocazioni.
Platone e Tarantino? Perché no? Lo stesso titolo, oltre che riferirsi alle catene reali e metaforiche degli schiavi, potrebbe strizzar l'occhio alla tradizione classica (“Prometheus Unchained”). E qui si aprirebbero – ma dobbiamo lasciarle qui – interessanti suggestioni sulla natura stessa dell'epos tarantiniano. Non è anche l'Iliade un universo di caos?
Se inseriamo “Django Unchained” nella cronologia del cinema di Tarantino, si rafforza però un dubbio già fatto sorgere da “Bastardi senza gloria”: magnifici film entrambi, ma autorizzano l'ipotesi che Tarantino sia passato (per continuare a usare il linguaggio della classicità) dall'età aurea a quella argentea. Perché vi sono in “Django” come in “Bastardi” pagine di grandissimo cinema - ma i due film non hanno la perentoria compattezza drammatica dei capolavori del periodo precedente, dal folgorante esordio de Le iene” all'esplosione enciclopedica di “Kill Bill”. In “Django” si ha l'impressione che quella calibratissima scansione dei tempi, che è sempre stata una delle glorie di Tarantino, nella seconda parte cigoli un po'.
E' poi col personaggio di Broomhilda che ci accorgiamo che qualcosa non va nella scrittura. “Piccola peste”, la chiama affettuosamente Django più d'una volta - il che farebbe pensare a un personaggio alla Katharine Hepburn, a un'ipotesi di dialogo screwball. Ma piccola peste nel film Broomhilda non lo è mai: è la classica damsel in distress, che per tutto il film non fa che piangere e tremare. Era un personaggio più vivace e spiritoso la ragazza negra che accompagna Django nella piantagione di Big Daddy in precedenza. Giacché Tarantino ha realizzato alcuni dei più bei ritratti femminili del cinema americano contemporaneo, qui si direbbe che si sia voluto frenare (anche circa il suo leggendario feticismo dei piedi: la mdp che scivola su Kerry Washington sul letto non si sofferma sul suo piede nudo). All'esatto contrario di quanto ha starnazzato Spike Lee, Tarantino sembra aver avuto paura di essere accusato di exploitation.
Tarantino è un poeta della violenza: indimenticabile (e molto orientale per concezione) il dettaglio dei fiori bianchi che uno spruzzo di sangue rende macchiettati. Ma come sempre il punto più alto del suo cinema viene raggiunto in quei momenti di “sospensione” in cui i personaggi parlano a ruota libera (ciò che accade nella vita, ma di rado il cinema lo ha reso così bene). Grandi i dialoghi, aerei e deadpan; grande la “lezione” di frenologia di Leonardo Di Caprio; ma il vertice lo raggiunge il geniale episodio della posse di razzisti mascherati (gli antenati del Ku Klux Klan), scena sublime nella sua delirante comicità, coi cavalieri mascherati che litigano sui cappucci che impediscono la vista, criticano la moglie di uno di loro per averli cuciti male, e quello s'incazza perché non sopporta che si critichi la sua signora, volta il cavallo e se ne torna a casa... Proprio come in “Bastardi senza gloria”, non tutti i momenti del film sono dello stesso livello, ma alcuni sono degni di un'ideale antologia del cinema di Tarantino, del cinema in assoluto.

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