venerdì 9 novembre 2012

Io e te

Bernardo Bertolucci

Io e te” è un film importante non solo in sé ma anche perché segna il ritorno di Bernardo Bertolucci dopo che il confinamento su una sedia a rotelle, a causa di un'operazione, per anni gli aveva tolto la disposizione psicologica a girare. In questo senso “Io e te” segna un percorso di guarigione sia esternamente che internamente al film.
In attesa di vederlo, la previsione di tutti noi fedeli spettatori bertolucciani era di un film “da camera”, e quindi idealmente nella linea de “L'assedio”. Ora, è vero che “Io e te” è un “film da camera” (sebbene la “camera” sia una cantina) – detto per inciso, di stupefacente freschezza. Però nella filmografia di Bertolucci, più che a “L'assedio”, quest'opera va avvicinata a “The Dreamers” (che dal canto suo andava avvicinato a “Ultimo tango a Parigi”).
The Dreamers” infatti materializzava un concetto importante in Bertolucci, al quale anche “Ultimo tango” era dedicato: quello del rinchiudersi in uno spazio centripeto (connesso all'attività erotica) che tende a serrarsi sempre di più. Una sorta di utero che si fa via via più soffocante fino a divenire mortale; se ne esce solo attraverso un atto di violenza: la revolverata di Maria Schneider a Marlon Brando in “Ultimo tango”, la pietra sessantottina che rompe il vetro in “The Dreamers”.
Ma se diciamo utero, diciamo anche nascita. Questo concetto è assente in “Ultimo tango”, dove Maria Schneider sfuggiva alla spirale autodistruttiva per reinserirsi in un ordine borghese (col tocco radical-chic del fidanzato filmmaker); ma è fortemente presente in “The Dreamers”, ove addirittura la struttura di teli di plastica costruita nel film fa pensare alla “tenda sudatoria” che serve all'espansione dell'io nel misticismo degli indiani d'America. Complice quella pietra scagliata da fuori, “The Dreamers” sfocia nel passaggio alla vita: la strada (“Dans la rue!”), le barricate del Maggio parigino del '68 (qualunque sia il giudizio che oggi possiamo dare su quel movimento...), sulle note di Edith Piaf: Je ne regrette rien.
Ed eccoci a “Io e te”, tratto con intelligente libertà dal romanzo di Niccolò Ammaniti. Lorenzo è un quattordicenne disadattato: è asociale, anaffettivo, soggetto a scatti isterici (ne mima uno nel film per ingannare la madre divorziata con cui vive). E' evidentemente in preda a una sindrome di narcisismo; non per nulla lo vediamo leggere Anne Rice: il narcisismo è la caratteristica principale dei vampiri della Rice, e il film lo enuncia citando una frase paradigmatica: “Sono il vampiro Lestat. Sono immortale”.
Mentre la madre crede che vada in settimana bianca, Lorenzo finge solo di andarci e si nasconde, armi e bagagli, nella cantina del condominio. Solo che lì irrompe la sorellastra maggiore, Olivia, una tossica che sta cercando di smettere. Il rapporto che si instaura, prima ringhioso poi sempre più vicino, costringe Lorenzo a riconoscere l'altro in quanto altro; di più, la crisi di astinenza di Olivia lo costringe a fare i conti materialmente con la realtà.
Il film quindi si svolge principalmente in questa cantina-utero dove i due protagonisti si rinchiudono; l'amore di Lorenzo per i terrari (di rettili e insetti) evidentemente rima con la sua scelta di ritirarsi in questo spazio circoscritto. Ma stavolta lo spazio non si restringe in una stretta mortale; né di conseguenza c'è bisogno di un atto traumatico che lo rompa. Poiché qui Bertolucci mette in primo piano l'elemento della ri/nascita, si può ben dire che “Ultimo tango” e “Io e te” si pongono come due poli opposti, con “The Dreamers” a metà strada (in realtà, non proprio metà strada) fra i due.
Fra i fili che intessono il film, ce n'è uno che ricorda direttamente il capolavoro bertolucciano “La luna”: la tendenza incestuosa del protagonista verso la madre, che produce fantasie di incesto in una situazione post-atomica (Lot a rovescio). Ma una fantasia post-atomica di sopravvivenza è proprio quella che Lorenzo realizza nella cantina; escluso ovviamente l'aspetto incestuoso, ma l'attrazione non detta verso la sorellastra (ruba e conserva la sua foto nuda) è uno spostamento – e anche in questo un passo di guarigione.
E nello splendido finale, quando Lorenzo (dopo la partenza di Olivia) esce in strada, il fermo immagine e lo zoom su di lui sono l'esatto equivalente di quell'esplosione di confidenza e di vita cui alla fine di “The Dreamers” dava voce Edith Piaf.
A settant'anni Bernardo Bertolucci è uno di quei grandi vecchi maestri che hanno una visione saggia, distaccata ma umana, potremmo dire goethiana, della vita. E che posseggono inoltre il dono di una freschezza e di una immediatezza che molti giovani si sognano. Ha verso la vita un atteggiamento per così dire “paterno” (forse non è privo di senso che lo psicologo - figura paterna per definizione - che appare all'inizio sia su una sedia a rotelle, cosa che non può non farci pensare a Bertolucci stesso). E' esso che gli fa scegliere una conclusione non ottimista ma aperta rispetto al destino di Olivia (l'episodio del pacchetto di sigarette) contro il pessimismo un po' facile del romanzo. Questa particolare saggezza “riconciliata” era già presente nel Bertolucci maturo (basta citare “Piccolo Buddha”, “L'assedio”, “Io ballo da sola”, “Histoire d'eau”), ma qui è ancor più diretta, evidente, serena. Non vengono forse in mente il “gran padre di tutti” De Oliveira o l'ultimo Kurosawa di “Madadayo”?


1 commento:

Anonimo ha detto...

Bellissima recensione.