martedì 18 settembre 2012

E' stato il figlio

Daniele Ciprì

Due nomi salgono alla mente vedendo “E' stato il figlio”, diretto e fotografato da Daniele Ciprì: N.V. Gogol' e Marco Ferreri. E' assolutamente gogoliana la monomania di Nicola Ciraulo (Toni Servillo), poverissimo pater familias della Palermo più misera, che campa recuperando ferraglia dalle navi in disarmo, assieme a un figlio malinconico e svaporato; ma quando l'adorata figlia bambina viene uccisa per sbaglio in un agguato di mafia, arrivano i soldi del “risarcimento” statale; e che ne fa Nicola? Convince la famiglia a comprare una Mercedes. L'auto diventa la ragion di vita del poveruomo - e qui è posto il seme della seconda e definitiva tragedia.
Il film è una discesa agli inferi in quattro movimenti: la vita familiare prima della morte della bambina; l'attesa spasmodica dei soldi dello stato, battagliando contro la burocrazia e intanto compromettendosi con un usuraio; il breve momento di “felicità” con la Mercedes; l'irridente e crudelissimo sviluppo finale. Come nel miglior Ferreri, “E' stato il figlio” è una commedia grottesca che va oltre il dolore implicito compreso nell'essenza stessa del comico per portare in primo piano come un grande affresco il dolore universale. Tragedia in chiave di commedia nera, è strutturata in quattro atti così fortemente segmentati da mettere a rischio l'unità del film se non funzionasse (oltre al connettivo del racconto coram populo a distanza di anni del narratore Busu: indimenticabile il suo sguardo sconvolto in macchina) il magnifico gioco d'insieme degli attori, vero elemento unificatore. Lasciano stupiti, tanto più in un film italiano, la perfezione e alla compattezza del lavoro attoriale. Se Toni Servillo, senza sorpresa, è magistrale, del pari lo sono Giselda Volodi e Aurora Quattrocchi (la madre e la nonna); e Fabrizio Falco, che era poco convincente in “Bella addormentata”, è invece ottimo qui nel ruolo del figlio.
Ciprì ha il diritto che non si assuma sempre la sua attività sotto il segno del lungo periodo di collaborazione con Franco Maresco (“Cinico Tv” e i due film collegati), ormai definitivamente concluso. Ma naturalmente c'è molto nel film che ricorda quella lunga epoca. Non solo alcuni dettagli estrinseci come i ciccioni sfatti (Giovanni sulla spiaggia) o nel finale quel paesaggio urbano popolato di cani randagi (già evocati in una notizia del giornale esibito in apertura) quando Busu ritorna tristemente a casa. Rientra nell'orizzonte morale di “Cinico Tv” quello sguardo “freddo” sul suo mondo – non sprezzante ma distaccato – dove la compassione è un'illusione ottica. Se ne allontana invece la costruzione solida della sceneggiatura, di Ciprì, Massimo Gaudioso e Miriam Rizzo, ispirata al romanzo di Roberto Alaimo.
L'incredibile evidenza dei visi, magari solo colti in un'auto che sorpassa per strada, si assomma a una regia sicura ed elegante, per quanto qui il termine strida con la materia. Penso per esempio alla bellezza dell'incrocio fra il carrello indietro della mdp e il passaggio laterale del treno, ritornante nelle scene con l'usuraio. Mentre “Cinico Tv” era puro barocco del disfacimento dei corpi, in “E' stato il figlio” Ciprì descrive una realtà orrenda senza ricorrere a barocchismi marcati - se non in alcuni passaggi di massima tensione narrativa ed espressiva: l'inquadratura “gridata” dall'alto nella scena della morte della bambina, tragica come una “Deposizione”; i forti PPP e dettagli quando la nonna, nel disastro del finale, prende il comando e impone una cinica linea di condotta come una Lady Macbeth dei quartieri bassi. In questa trasformazione della figura della nonna non vedi tanto il “familismo amorale” del Sud di cui tanto si parla dopo il famoso saggio di Edward Banfield, quanto il riemergere di una feroce (e ferocemente saggia) tradizione matriarcale.
Come la “Gomorra” di Garrone, la Palermo infima e degradata di Ciprì non è un luogo contaminato dal male, è esso stesso un atomo del male. Il termine abusato di inferno resta l'unico adatto a definire questo territorio e la vita miserrima che striscia nei suoi interstizi. Anche gli innocenti, che non sono solo i bambini, sono destinati alla perdizione. Che non è necessariamente la morte: sicuramente anche il giovane mafioso Masino ha giocato da piccolo in quel piazzale degradato; e il segno premonitore di un destino nero (non individuale ma collettivo) si può leggere nelle pistole con cui giocano le due bambine alla loro apparizione nel film, o nel gioco dei ragazzini di fare un falò nella piazza e farci esplodere bombolette vuote - gioco che congiunge l'innocenza infantile e l'illegalità adulta. Il film si conclude di fronte a un bambino triste davanti alla grande macchia di sangue sull'asfalto.
“Abbiamo l'idea di un Dio ormai impotente, che non può fare più nulla”, dicevano Ciprì e Maresco in una vecchia intervista. In “E' stato il figlio” vediamo più volte, sempre in quel piazzale, una figura ritornante: un anziano signore vestito di nero, con la barba bianca, che guarda muto e impalato. Dio forse? Chiunque sia, Dio o un uomo, è uno figura dello sguardo inane - che non può far altro che contemplare immobile l'assolutezza del male.

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