lunedì 16 luglio 2012

A Liduina, mia madre

Benedetto Parisi

E' solo nel momento della memoria, la rievocazione complessiva che tracciamo a cose finite, che comprendiamo veramente ciò che è accaduto.
“A Liduina, mia madre” - del documentarista udinese Benedetto Parisi, l'autore di “The Time of Her Life” - porta già nel titolo il suo carattere di film doppio, film a specchio. La protagonista è Liduina attraverso lo sguardo rievocativo di sua figlia Monica - ma allo stesso modo è Monica che guarda indietro a se stessa nel suo rapporto con Liduina.
Liduina: una donna friulana con problemi mentali, con tutta una storia di ricoveri all'Ospedale Psichiatrico di Udine, che ha avuto Monica da una relazione con un altro ricoverato mentre era là; nei primi tempi, sentiamo, vegliava la figlia notte e giorno nel terrore che gliela portassero via per darla in adozione. Col passare del tempo e con l'apertura dei manicomi Liduina va a vivere in un appartamento. Ha un intenso, non facile rapporto con Monica, che sta ora in collegio, ora in temporanei affidamenti, ora presso amici (nel giro di pochi anni c'è un tentativo di suicidio della figlia e uno della madre). Il film testimonia le sue speranze, i progetti, le ossessioni, le ricadute, come l'episodio della gita, le fragili rinascite; racconta il manicomio e apre uno squarcio sulla vita quotidiana del dopo manicomio (il dettaglio delle ex ricoverate che condividono un appartamento e litigano sempre, ma quando arriva l'incaricato dell'ospedale per il controllo si fanno trovare d'amore e d'accordo); e in primo luogo naturalmente descrive il magma di affettività e tensione fra madre e figlia. Da adolescente Monica ce l'aveva con la madre per la mancanza di tranquillità in cui cresceva: “C'era astio fra di noi, c'era aggressività”; “Invece di volere il motorino volevo che lei stesse sempre bene”.
Monica – sentiamo nel film – è la scommessa di Liduina con la vita. Il suo sogno è che, finite le superiori, la figlia si trovi un lavoro di commessa in un supermercato e venga finalmente ad abitare con lei; quindi è un colpo duro quando Monica le dice che vuole completare gli studi all'ISEF a Urbino. “Non mi lasciava”: sono le prime o fra le prime parole che sentiamo nel film, relative al saluto in stazione dopo una visita che si rivelerà l'ultima (“... ma non mi ha aspettato”): la madre muore mentre la figlia è a Urbino.
Il racconto di Monica si sostanzia, oltre che delle testimonianze filmate, di foto, delle lettere sgrammaticate che riportano con pregnanza la voce di Liduina, dei verbali dell'ospedale psichiatrico che raccontano dei suoi elettroshock. Alcune deformazioni d'immagini, nel filmato, intendono accordarsi con il contenuto, per esempio quando si parla dell'elettroshock (non una scelta felicissima, perché troppo enunciativa; la drammaticità sta nel racconto, non nell'immagine). La voce narrante di Monica, che struttura il film, trova un corrispettivo nella sua presenza, muta, nel visuale, presenza fissa, insistita, che gira in auto per Udine come in una ricerca del passato – ma questo film è in effetti il documentario di una ricerca.
Monica traccia un disegno della vita di Liduina sotto l'angolatura della vita propria (ma è esattamente il modo in cui ci riferiamo ai nostri genitori, che a ben pensarci ci danno la vita anche in questo senso); e quindi nel fare un bilancio della vita di Liduina Monica definisce e giudica la propria. Lo sguardo è lucido; non ci sono né rancori né complessi di colpa ma la dura verità della vita. “Se adesso col senno di poi potessi evitarglielo” (sul tentato suicidio)... “Peccato che quando si è più giovani si capisce di meno”... Questa è la vera storia del documentario: un assessment che diventa una sorta di pacificazione: ovviamente già esistente sul piano personale e soggettivo, ma di cui questo documentario è una sorta di ricapitolazione ed esposizione pubblica. Possiamo vederlo come un rito di addio – ciò ch'è la vera elaborazione del lutto.
Come mostrava il bellissimo “The Time of Her Life”, quello di Benedetto Parisi non è il documentarismo panflettistico di moda oggi, che parte da un'idea predefinita e si limita a illustrarla - non dimostrarla - con immagini ad hoc, scelte e montate secondo un intento retorico più che narrativo. In Parisi il documentario è organizzazione della memoria – e quindi uno sguardo sulla concretezza materiale della vita; davvero in queste (ri)evocazioni il documentarista riesce a trovare e trasmettere la vibrazione inconfondibile (emozionante) della realtà.

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