sabato 29 ottobre 2011

I tre moschettieri

Paul W.S. Anderson

Questo paradosso matematico - i tre moschettieri che invece erano quattro - ha popolato di eroici spadaccini la storia del cinema. Senza scomodare Douglas Fairbanks e il muto, resta indimenticabile il film di George Sidney del 1948 (D'Artagnan era Gene Kelly, Richelieu Vincent Price!); e nemmeno i due film di Richard Lester del 1973-74 si lasciano superare facilmente. Come interpreti, poi, i moschettieri più grandi potrebbero essere quelli de “La maschera di ferro” del 1998 (o almeno, Gérard Depardieu è il Porthos definitivo). “I tre moschettieri” di Paul W.S. Anderson – regista di film interessanti come "Event Horizon" e due “Resident Evil” - non può competere con precedenti di tale livello. Ma una volta che accettiamo questo, il suo film - grazie a una bella sceneggiatura di Alex Litvak e Andrew Davies (un esperto quest'ultimo di serie tv in costume) - si rivela una versione più che dignitosa; molto superiore ad esempio a quella di Stephen Herek del 1993.
Una versione steampunk, certo. Spostato un po' indietro rispetto all'epoca vittoriana: ma abbiamo “aeronavi” volanti sorrette da palloni d'elio che si cannoneggiano fra le nuvole; Athos che emerge da un canale di Venezia come un proto-palombaro ninja; un corridoio-trappola che rimanda direttamente a “I predatori dell'arca perduta”; Milady (Milla Jovovich) che imperversa sui tetti del palazzo reale saltando come Lara Croft. Il film ci offre tutto questo bric-à-brac con sfacciata piacevolezza; e in particolare, l'ipotesi che Milady, oltre che amante traditrice di Athos, facesse parte in origine di questo A-Team di moschettieri dedito a missioni impossibili (partecipa persino al “Tutti per uno” iniziale!) è un vero tocco di genialità.
Il difetto del film è una certa goffaggine iniziale nel mettere d'accordo le sue due anime dumasiane: quella del fedele rifacimento del testo e quella della sua impertinente modernizzazione. Esse si presentano allo spettatore (prima la seconda e poi la prima) in due blocchi narrativi semplicemente giustapposti, tanto che tendono a confliggere l'uno con l'altro. Tanto più che v'è un cambiamento di focalizzazione: il primo blocco s'inventa un'avventura veneziana del “quartetto originario” con Milady; il secondo riprende paro paro l'inizio del romanzo con D'Artagnan. Questo secondo blocco è molto fedele, alla Lester, e anche felice, con graziose trovate come il pubblico di popolani che nel famoso duello contro le Guardie del Cardinale applaude i moschettieri dai ballatoi. Anche in questa sezione c'è un'idea stupenda, che segna una pietra miliare nella filmografia dumasiana: quella di trasformare Luigi XIII e la regina Anna d'Austria in una coppia di giovanissimi impacciati (“bambini reali”, ringhia Richelieu/Christoph Waltz). Lo stesso Dumas avrebbe sorriso: “mais c'est joli, ça!”. Non è delizioso questo re che chiede consiglio (per “un mio amico”, dice) al suo coetaneo D'Artagnan su come dichiarare il suo amore alla regina?
Va da sé che in questa situazione di timidezza adolescenziale e reciproco innamoramento non può essere mantenuta l'idea dell'adulterio presente in Dumas; in questa versione la regina (anche in sintonia col neopuritanesimo hollywoodiano) ne è del tutto innocente, e viene incastrata rubando il fatale gioiello dalla sua camera. Molto divertente poi che il re, dopo aver scoperto da lettere false il supposto adulterio, corra come un cucciolo a chiedere aiuto a Richelieu in persona!
La sensazione tuttavia è quasi di vedere due film diversi cuciti insieme. Nello sviluppo ulteriore, per fortuna, i due fili della narrazione si legano meglio. Quando l'ombra dell'aeronave di Buckingham in visita diplomatica si staglia sulla corte di Francia, si ha il momento di raccordo fra le due anime del film, e di qui lo svolgimento è fuso in un racconto coerente che, invece di mettere da parte il testo dumasiano (primo blocco) o aderirvi del tutto dimenticando quanto visto in precedenza (secondo blocco), riscrive il romanzo in termini action/fantastici, non privi di valore visuale, sense of humour e originalità.

mercoledì 19 ottobre 2011

Carnage

Roman Polanski

A proposito di oggetti-simbolo, così frequenti nel cinema, la cui nuda presenza rimanda icasticamente a un complesso di significati, ve n’è uno di felice invenzione in “Carnage” di Roman Polanski: su uno spartito sul pianoforte, nell’appartamento borghese dove si svolge il jeu de massacre del film, spicca una macchia rossa che fa pensare al sangue. Violentando un caposaldo della civiltà europea come la musica classica, l’immagine bene rappresenta l’argomento base di “Carnage”: il crollo della nostra tenue patina di civilizzazione sotto gli impulsi egoistici e violenti che ci dominano (lo stesso, in modo più sfumato, dice la scena di una gigantesca vomitata sui libri di pittura).
Tratto dal dramma di Yasmine Reza “Le Dieu du carnage”, il film riporta Polanski a una radice profonda del suo cinema: lo sguardo impietoso (e impietosamente divertito) su alcuni personaggi che si sbranano all’interno di uno spazio chiuso. Dopo che un undicenne ha ferito al volto un coetaneo in un litigio, i loro genitori si incontrano per risolvere civilmente la questione: Alan, l’avvocato maneggione sempre al cellulare; Nancy, sua moglie, la signora elegante che si sconvolge soprattutto per un criceto abbandonato; Penelope, l’acida sacerdotessa del politically correct; Michael, suo marito, che senza rendersene conto non ne può più di lei. Dapprima sono tutti sorrisi e complimenti (“Per fortuna qualcuno ha ancora il senso della comunità”) - poi si dilaniano. Fra le citazioni tra le righe, ottima quella di Ebenezer Scrooge del “Canto di Natale” dickensiano: è un testo classico del pentimento e della riconciliazione - ciò di cui non v’è ombra qui.
Il testo realizza veramente la farsa della tragedia. In un bel crescendo, presenta continue incrinature della superficie “civilizzata”, da cui filtra fuori l’aggressività come dal ghiaccio che s’incrina filtra l'acqua gelida. Alleanze temporanee si formano e si sciolgono: ricchi contro middle class, maschi contro femmine, mogli contro mariti all’interno della stessa coppia (“Secondo me la coppia è la peggior tortura che Dio ci abbia inflitto”). Se alla base stanno le differenze di classe e quelle di sesso, in ultima analisi - come dice Michael a un certo punto - ciascuno è solo.
Sfruttando al meglio la mobilità della mdp e un montaggio fluido e oliato, “Carnage” non elide la sua natura teatrale (peraltro risultante chiaramente dalla scansione drammaturgica) ma la rende cinematografica. La presenza di uno specchio nell’appartamento non ha i consueti valori simbolici (se non forse all’inizio) ma serve piuttosto ad ampliare lo spazio. Le caratterizzazioni (concretizzate in quattro interpretazioni da Oscar) sono una delizia. Vero è che i personaggi della pièce di Yasmine Reza sono un po’ programmatici; tuttavia questo difetto viene superato, e in ultima analisi assolto, dalla finezza dello sviluppo. Diversamente da un altro esempio di pièce teatrale portata sullo schermo da Polanski, “La morte e la fanciulla”, dove le limitazioni del testo (il carattere didattico dei personaggi, con annessa prevedibilità dello svolgimento, nonché un coup de théâtre di cinismo basso-drammaturgico come l’episodio, raccontato dalla protagonista, di lei che, dopo essere stata imprigionata e torturata, si trascina verso casa e là trova il suo amante che la sta cornificando con una compagna) lo rendevano indigeribile.
Dunque in "Carnage" saltano in aria i valori della convivenza civile; ma anche il mito dell’uomo guerriero (si citano Ivanhoe e John Wayne) cade quando il gioco al massacro mette a nudo la debolezza di questi aspiranti machos. Grande quando il gelido Alan crolla dopo che la moglie gli ha distrutto il cellulare, con matte risate delle due donne! Ma subito dopo, l’isterismo di Nancy quando l’altra le fa volare la borsetta è una risposta sarcastica al suo discorso contro i maschi che hanno barattato la virilità con gli oggetti. Si finisce con voli pindarici di odio. In ultimo i quattro restano in silenzio nella nebbia dello sputtanamento e della sconfitta (il film è una ronde della dichiarazione che quella è la giornata peggiore della loro vita), seduti nell’appartamento olezzante di whisky, vomito e colonia spruzzata.
La sceneggiatura di Polanski e Yasmine Reza aggiunge alla pièce una sequenza muta iniziale e una finale. L’inizio ci mostra in campo lungo l’incidente fra i due ragazzini, con l’ottima musica di Alexandre Desplat che diventa evocativo-demoniaca col salire in primo piano delle percussioni. Alla fine, partendo dal particolare del criceto abbandonato che è ancora vivo, Polanski e Reza aggiungono una scena muta che è una tenue nota di speranza: i due ragazzini hanno fatto la pace e giocano insieme. Ma mentre il criceto appare in dettaglio, loro anche stavolta li vediamo solo in campo lungo. Forse - metaforicamente parlando - è meglio che la mdp non mostri gli esseri umani troppo da vicino.