martedì 24 maggio 2011

Wanted: Border

Ray Defante Gibraltar

Fra i capolavori indiscutibili del tredicesimo Far East Film Festival, è una scoperta assoluta del festival il filippino “Wanted: Border” di Ray Defante Gibraltar (il titolo, che compare in un cartello nel film, vuol dire “Cercasi pensionante” col sostantivo boarder scritto sbagliato – richiamando così il concetto di “frontiera”).
In ottanta minuti scarsi, questo film concentra un maelström di esistenza umana di ampiezza e intensità sconvolgente, intrecciando mania religiosa, cannibalismo, crudeltà cieca, superstizione, trauma infantile, sessualità contorta, satira sociale, e anche uno sguardo retrospettivo alla storia filippina e alle squadre della morte della dittatura di Marcos. Il tutto attraversato da una vena di umorismo nero e bizzarro - già annunciato dal delirante doppio senso dell'inizio: sentiamo la protagonista dire “Oh dio mio!, mi hai spaventato”, sembra una normale interiezione, visto che l'ospite inatteso è un signore baffuto in camicia hawaiana con una ghirlanda di fiori al collo - e invece è proprio Dio (lei gli bacia la mano).
Tutto si tiene, tutto ritorna su tutto nel film. Al centro sta il concetto di cannibalismo, ove il collegamento al cinema di genere (il vecchio mito horror del ristorante che serve carne umana) è pura traccia, materia di base. Partendo di qui il film costruisce una vertiginosa pluralità di senso fra il dubbio cibo cucinato dalla protagonista Saseng (la storia della quale si delinea a poco a poco), il cannibalismo che ci sta sotto, i miti popolari sui mostri mangiatori di carne umana delle foreste, il valore simbolico e sacrale del cibo in senso religioso, il “cannibalismo sacro” del rito cristiano (se il Vangelo dice “Questa è la mia carne”, qui abbiamo Dio in persona, nella sua camicia hawaiana, che implora irosamente di essere macellato, cotto e mangiato). Un film del genere, che sarebbe piaciuto a Buñuel, poteva solo uscire da una cultura intrisa di cattolicesimo come quella filippina. Non occorre insistere, perché sono evidenti, sulla prodigiosa inventiva visuale, la bellezza e la libertà inventiva dell'inquadratura, la nettezza del montaggio, l'ottimo lavoro sul suono.
In voce over, come un controcanto sulle immagini, ritorna ossessivamente il delirio religioso di Saseng, che trasforma il film in una perversa parodia di sacra rappresentazione. Questo film non è teatrale, in realtà, ma ne dà l'impressione, perché talmente depurato da raggiungere un livello di astrazione quasi epica, come dichiarano anche i cartelli-didascalia. Narrativamente non lineare, sebbene assai ben connesso, “Wanted: Border” pone un tempo frazionato, un tempo che ritorna su se stesso, fugge indietro nel flashback e avanti nell'anticipazione: un tempo ridotto a schegge, disseminate in un modo che sembra irregolare, e che il progredire dello svolgimento riconduce a unità: il quadro si definisce nella memoria dello spettatore con un effetto di scoperta che lo mette “in rilievo”. Un po' come in Resnais o in Tati, il film è proiettato nella mente dello spettatore.

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