martedì 10 agosto 2010

Solomon Kane

Michael J. Bassett

Michael J. Bassett non è John Milius; “Solomon Kane” non è “Conan il barbaro”. Tuttavia neanche stavolta Robert Ervin Horward (1900-36) dovrà rivoltarsi nella tomba; il film sul puritano inglese dei suoi enfatici e affascinanti racconti è più che dignitoso. Lo sceneggiatore-regista si è letto Howard ed è venuto fuori con una trascrizione fedele - se non nella lettera, nello spirito.
E' interessante, parlando di trascrizione, il mutamento di affiliazione religiosa, che nei racconti è decisiva mentre nel film è aerea e indefinita. Kane (James Purefoy – un nome singolarmente appropriato) viene chiamato “puritano” una sola volta, sembrerebbe come variazione ironica di “pacifista” (i puritani, inutile dirlo, non erano pacifisti per nulla; lo erano gli anabattisti - almeno in teoria - o i quaccheri, ma nessuno ha mai pensato di collegare il nostro eroe a queste sette).
In Howard, quello di Solomon Kane è un cupo fanatismo contro il male: per Kane il demonio veramente cammina sulla terra “in su e in giù”, come dice la Bibbia, e lui sente il dovere di sradicarne col ferro e col fuoco ogni traccia, si tratti di mostri soprannaturali o di uomini crudeli. Peraltro la sua psicologia è la più articolata fra quelle dei personaggi howardiani: il modo in cui quello che Kane “è” (il berseker compulsivamente attratto dall'avventura e dallo scontro sanguinoso) si traduce, in un certo senso si maschera, in quello che Kane “sente di essere” (il combattente in nome di Dio) è reso con discreta finezza.
Il presente film modifica la backstory del personaggio: Kane è una specie di pirata che in un incontro ravvicinato con le potenze infernali viene a sapere di essere dannato. Comprensibilmente cambia vita, si fa tatuare una grande croce sulla schiena e si rifugia in un convento di monaci (nell'Inghilterra del 1600?! Evidentemente questo è un mondo alternativo in cui non solo esiste la magia ma Enrico VIII non ha mai decretato la dissoluzione dei monasteri). Poi si lega d'amicizia a una famiglia (la madre è Alice Krige, che ha collezionato una bella antologia di ruoli secondari nella fantascienza e nell'horror), il cui massacro lo porta a riprendere le armi: la scena rende in modo assai convincente il cambiamento di Kane da un ripugnante pacifismo a quella volontà di uccidere i malvagi che in ultima analisi è la qualità migliore di un uomo. La solennità della vestizione di Kane qui è un momento di enfasi “western” ma serve altresì a riconciliarlo con l'iconografia del personaggio stabilita dalla grafica e dal fumetto.
Il film, una produzione anglo-franco-ceca, possiede quella concretezza realistica che caratterizza l'horror inglese. Di qui la sua discreta pregnanza visuale: un'Inghilterra umida e terragna, desolata sotto l'assalto dell'esercito del male, con masse di profughi che si aggirano per i boschi; il castello demoniaco decorato di teschi; la bambina che si rivela una strega; il colore rossastro della campagna autunnale (ma anche, in una delle rare scene di pace, l'uso dei fiocchi di neve per creare un'atmosfera lirica). Anche se il plot è un'invenzione di Bassett, le scene posseggono la stessa “fisicità” esaltata dei racconti di Howard. Gli scontri sono parossistici ed estremi – compreso quello finale con un demone che per la verità ricorda un po' il Balrog de “Il Signore degli Anelli”. Quando Kane viene crocifisso dai nemici, più che connotazioni cristologiche (crocifissione e resurrezione) qui è messo in scena quell'estremismo della sofferenza che è tipico di Howard – e che per combinazione è rientrato nella cultura occidentale d'oggi attraverso il cinema e il fumetto giapponesi e cinesi.
Il film chiaramente ambisce a porre le basi di una serie. Forse sentiremo ancora parlare di Kane sugli schermi; e comunque, se questo film servirà a rinnovare la fama di Howard, tanto di guadagnato.

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