domenica 20 giugno 2010

Vendicami

Johnnie To

E' pur vero che il bellissimo “Vengeance” (“Vendicami” - ma conviene vederlo nella versione originale multilingue) non raggiunge il livello dei capolavori assoluti di Johnnie To, come i recenti “Election” o “Exiled”, ma non c'è da preoccuparsi: anche un film di To che non sia fra i suoi capolavori assoluti è comunque tre spanne sopra la media.
Il cinema di To è il cinema della scelta. I piani falliscono, il destino gioca le sue carte per scompigliare i progetti umani (o ironicamente per soccorrere: “PTU”); di fronte ai crudeli meccanismi del caso gli uomini hanno la sola scelta se restare fedeli o no alla proprie obbligazioni, prima fra tutte la solidarietà di gruppo (“The Mission”). L'onore in Johnnie To è importante come in John Woo, sebbene declinato in forme meno mistiche, molto più matter-of-fact.
Scritto dal fido collaboratore Wai Ka-fai, “Vengeance” (che si svolge tra Hong Kong e Macao) è l'omaggio di To a Jean-Pierre Melville. Una famiglia cinese viene massacrata da un gruppo di sicari; morti il marito e i due bambini, sopravvive gravemente ferita la moglie, che è francese. Suo padre, un ex gangster divenuto ristoratore, arriva da Parigi per vendicarla. Il suo nome è Frank Costello, e infatti in origine il film doveva essere interpretato da Alain Delon. Non è che Johnny Hallyday (chiuso nell'impermeabile, il volto scarno dagli occhi azzurri brucianti, il cappello abbassato) non realizzi una figura iconica; ma Delon avrebbe fornito la continuità visiva e mitologica - e possiamo solo immaginare quanto sarebbe stato grande nella parte, col suo volto gelato e i suoi occhi di tempesta. Delon (racconta To) dopo un primo parere favorevole si è tirato indietro. Peggio per lui: avrebbe aggiunto una perla alla sua collana di grandi film.
Straniero in terra straniera, Costello per di più sta per perdere completamente la memoria a causa di una vecchia pallottola nel cervello (“Che senso ha la vendetta quando hai dimenticato tutto?”, sentiamo chiedere nel film). Incappato per caso in un gruppo di gangster (come sempre Anthony Wong è magistrale, come sempre Lam Suet è adorabile, col suo consueto tocco umoristico) mentre svolgono un lavoretto come killer per un boss mafioso, li assume offrendo loro in cambio la proprietà del suo ristorante a Parigi.
Con uno di quegli scherzi del destino che tanto piacciono a Johnnie To, poeta della coincidenza, solo a vendetta iniziata gli uomini di Costello scoprono che il mandante della strage di quella famiglia era il loro stesso boss, Mr. Fung. Ma ormai sono legati a Costello; nota che il nome del ristorante di Costello a Parigi, svelato solo tardi nel film allo scopo di solennizzarlo, è Les Frères. E tutto esploderà in una potente sequenza di sparatoria al riparo di dietro enormi balle di carta straccia, punteggiata dallo svolazzare di pezzi di carta nel grande spiazzo ventoso – seguita da un folle prolungamento personale della vendetta, quasi fantastico e onirico.
Ritroviamo in “Vengeance” una sfilata di temi e motivi classici di Johnnie To. Dopo la cupa scena della ricostruzione dei fatti nella casa devastata, c'è una splendida sequenza in cui Costello, il gangster divenuto chef, prepara la pastasciutta e tutti mangiano insieme; una di quelle tipiche scene di To (se ne trova un esempio mirabile in “Exiled”) di sospensione festiva su cui però si proietta l'ombra della morte.
Come nel capitale “Expect the Unexpected” (che è un film di Patrick Yau, ma To l'ha prodotto e racconta di avervi molto messo mano), c'è una silenziosa pietà per quasi tutti: è il caso, più che un astratto male interiore, a muovere gli uomini come pedine; la malvagità cosciente e compiaciuta esiste (qui la incarna Mr. Fung, un demoniaco Simon Yam) ma è più rara che non si creda. Non che questo abbia importanza, al fondo delle cose: anche se c' un'umanità sepolta, bisogna comunque uccidere e morire. In una pagina sorprendente, il gruppetto dei vendicatori va a uccidere gli assassini – e li trova occupati a fare un picnic al parco insieme a mogli e figli, che ignorano l'occupazione dei mariti e padri. Allora i vendicatori si fermano e aspettano (“Non davanti a loro”, dice Anthony Wong) e i killer, che hanno capito, mandano una bambina a offrire da mangiare al gruppo... John Ford non avrebbe fatto di meglio.
Come sempre in To, questo momenti di reciproca comprensione non annulleranno il destino. Andati via mogli e figli, c'è l'inevitabile showdown, alla luce della luna che va e viene per la nuvolaglia: un alternarsi di momenti di gelo e di frenesia, il buio dove si trattiene il respiro spezzato dai lampi di luce delle pistole - e la nebbia di sangue che sprizza dai corpi colpiti, un'immagine frequente nell'ultimo To.
E ancora: una bicicletta che corre da sola sospinta dai proiettili, in una scena a Macao, si prolunga a Hong Kong in un frisbee che pare dotato di vita propria. Vien voglia di concludere che ormai nel cinema di To gli oggetti si muovono da soli; questo non deriva solo dalla balistica (pensiamo alla lattina di Red Bull in “Exiled”) ma è anche il perfezionamento di quel senso di sospensione e astrazione, da lui continuamente ricercato, di cui era incarnazione il misterioso bambino in bicicletta di “PTU”.
Al di là della sua caratteristica di device narrativo, l'amnesia incombente di Costello ci ricorda un tema assai importante nel cinema di To, esplorato ad esempio in “Running Out of Time” e nello splendido e sottovalutato “Yesterday Once More”: la malattia in fase terminale (ovvero qui la perdita dell'auto-identità, che è come una quieta morte) rende invulnerabili: poiché recide i legami della vita. E quindi lascia l'uomo libero e nudo di fronte alla sua mission, disegnata dai giochi del caso e dai sentimenti nobili dell'onore, dell'amicizia, della vendetta. E infine come qui, libero, dopo che la vendetta si è compiuta, di abbracciare - senza più memoria né dolore: innocente fra gli innocenti - una nuova famiglia di bambini.

Nessun commento: