martedì 16 marzo 2010

Alice in Wonderland

Tim Burton

Proprio come “Vent'anni dopo” di Alexandre Dumas non è “I tre moschettieri” (gli eroi sono cambiati col tempo, lasciandosi alle spalle lo spensierato entusiasmo della giovinezza), così “Alice in Wonderland” di Tim Burton non è, a dispetto del titolo, “Alice nel Paese delle Meraviglie”. E' il “Tredici anni dopo” di Alice Kingsleigh (il vero cognome Liddell è stato cambiato per toglierla dalla dimensione storica reale) che, diciannovenne, torna nel Sottomondo (da bambina lo chiamava Paese delle Meraviglie), non più come intrusa ma come salvatrice profetizzata. E' un post-“Alice”: un'“Alice” razionalizzata. L'universo del film mantiene il carattere fantastico dell'universo di Lewis Carroll ma ne rifiuta completamente la caratteristica principale, il nonsense. Così, se volete ritrovare il nonsense carrolliano al cinema, dovete rivolgervi allo splendido cartoon Disney del 1951 (mi scuso di non conoscere il film live action di Norman McLeod del 1933), non certo qui.
E' un'operazione lecita? Al cinema, come in guerra e in amore, tutto è lecito; però, come in guerra e in amore, è sempre giusto chiedersi se ne valeva la pena. L'“Alice in Wonderland” di Burton, di produzione Disney, è sicuramente piacevole, in entrambe le versioni (la migliore è quella in 2D), ma il problema è un altro: è che non se ne esce con la precisa sensazione di avere visto un capolavoro o quanto meno un film memorabile, come accade per quasi tutte le opere di Tim Burton - come le ultime, “La sposa cadavere” e “Sweeney Todd”.
Si direbbe che la sceneggiatura dell'autrice disneyana Linda Woolverton (“Il re leone”) sia un palinsesto sul quale si leggono ancora le tracce di una scrittura precedente, ovvero l'interpretazione (tradizionale) del Sottomondo come “doppio” allucinatorio della realtà vittoriana in cui Alice malvolentieri vive. La futura suocera ha i tratti della Regina Rossa (l'episodio delle rose bianche, la crudeltà verso i conigli); le due gemelle rimandano a Tweedledum e Tweedledee (qui Panco Pinco e Pinco Panco). In questo senso è interessante notare come Alice abbia qualcosa di entrambe le regine, la buona e la cattiva: come campione della Regina Bianca partecipa dell'essenza di lei (quando appare in armatura alla fine, sembrano sorelle), ma cala la spada sul Jabberwock (qui il Ciciarampa) col classico grido della Regina Rossa: “Tagliamogli la testa!” In questa storia di crescita, non è casuale che la nave su cui Alice parte per la Cina alla fine si chiami Wonder.
Tuttavia sotto questa chiave di lettura, e alquanto in conflitto con essa, abbiamo un'interpretazione del Sottomondo come una sorta di altra dimensione (la scoperta di Alice nell'ultimo colloquio col Bruco: quello che credeva un sogno era un ricordo). Non dimentichiamo che in Burton, più che l'elemento allucinatorio, è centrale il concetto di trespassing da una dimensione all'altra (l'albero fra le cui radici si apre il buco in cui cade Alice ricorda immediatamente l'Albero dei Morti de “Il mistero di Sleepy Hollow”).
Solo che qui la scelta razionalizzante diventa riduzionistica. I personaggi perdono la loro aura chimerica e folle senza guadagnare granché in cambio. Guardate il Dodo, oppure il Ghiro spadaccino, banalissimo, che sembra uscito da un film della serie “Shrek”; pure Tweedledum e Tweedledee sono imprevedibilmente fiacchi. Probabilmente il maggior fallimento è la figura del Cappellaio Matto, che qui diventa una specie di capo della resistenza lealista con problemi psichici da trauma (lo shock dell'attacco della Regina Rossa col Jabberwock). L'impressione è che Johnny Depp - non aiutato da un makeup più vistoso che realmente interessante - fallisca nel tentativo di dare al personaggio quella qualità amara e fantastica che ricerca. I suoi improvvisi scoppi di rabbia e di pazzia sono solo una pallida ombra delle sue creature lunari burtoniane, da Edward Scissorhands a Sweeney Todd. E la mediocrità della “deliranza” (la sua danza di vittoria) sarà voluta? Il momento migliore di Depp nel film è quando recita con epica solennità l'immortale poesia “Jabberwocky” di Carroll - non completa, anche perché non si adatterebbe bene al contesto (a titolo di curiosità: nella poesia si dice chiaramente che l'uccisore del Jabberwock è maschio).
Molto più riuscita la Regina Rossa, visivamente ispirata a Bette Davis nel ruolo della Grande Elisabetta, con una testa enorme (“bulbosa”, vien detto nel film): Helena Bonham-Carter realizza con una raffinata interpretazione una figura in cui ferocia e fragilità si uniscono (quindi uno dei classici mostri crepuscolari burtoniani). Ottima anche la Regina Bianca, inquietante creatura di neve, splendidamente disegnata (al biancore di veste e capelli e pallore contrastano le unghie, sopracciglia e labbra nere) e ispirata probabilmente alle fate e regine fatate del cinema muto. La sua dolcezza quasi eccessiva nasconde un lato di bizzarria diabolica che balugina solo nella scena della preparazione del disgustoso filtro per Alice.
La computer graphics, eccezionalmente buona, conferisce al film un realismo assoluto. Il Coniglio Bianco è un personaggio altrettanto tangibile che Alice, e lo stesso vale per i tre mostri (tutti arruolati dalla poesia “Jabberwocky”). Ora, Tim Burton da un lato non è affatto un regista allusivo, indeterminato, misty (infatti nelle sue animazioni preferisce al cartoon la corporeità dei pupazzi); ama le raffigurazioni concrete (“Il mistero di Sleepy Hollow”); dall'altro, deve fuggire una tentazione che lo accompagna sempre, ed è l'eccesso di realismo, quello che rovinava “Planet of the Apes”. Questa sua “Alice” non avrà forse un realismo eccessivo per l'uomo che in “Mars Attacks!” aveva fatto muovere i marziani in una falsa stop motion realizzata al computer? Facciamo un semplice esercizio di fantasia: immaginiamoci questa “Alice”, con la sua sceneggiatura, realizzata con pupazzi animati come “La sposa cadavere”. Vedete che d'improvviso tutto va a posto?
Resta da dire qualcosa a proposito della versione tridimensionale. Il problema è il mezzo. Di solito si dice che il 3D dà la sensazione della profondità al cinema. In realtà il 3D dà la sensazione della profondità non entro la scena bensì fra i differenti strati di cui si compone la scena: fra il primo piano, sentito come illusoriamente vicino agli occhi, e il backdrop. Addirittura ne consegue una sensazione di appiattimento. Storicamente il passaggio dal muto al sonoro, mentre apriva una nuova dimensione al cinema, comportò agli inizi un impoverimento del linguaggio cinematografico. Per il 3D - ammesso che duri - tocca fare la stessa considerazione.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

dice bene, Maestro

" Facciamo un semplice esercizio di fantasia: immaginiamoci questa “Alice”, con la sua sceneggiatura, realizzata con pupazzi animati come “La sposa cadavere”. Vedete che d'improvviso tutto va a posto? "

Ed è come sempre una questione di Forma. Che qui Tim non coglie. Forse è troppo vicino al soggetto ( altri suoi film sembra abbiano mangiato e digerito la lezione estetica in motion che E' GIA il classico di Carroll.

Ci vuol altro, che ne so, un Tarantino in Acidi Pesanti, per scherzare. Il Simile fallisce, solo l'opposto crea...

E già che ci sono: Scorsese non è nè Hitchcock nè Quentin. E' Scorsese, un grande quando fa epica,
un disastro quando tenta di fare estetica.Certo sa Girare, ecimancherebbe. Ma Shutter fa venir voglia di sbattere non un isola soltanto, anche le porte della Sala Cinematografica.

PS si sarà capito che AMO Martin: solo un innamorato può insultare l'oggetto del suo desiderio.

Grazie per le sue prove, e per la pazienza a leggermi,

Valerio Fiandra

giorgioplac ha detto...

Caro amico,
come non essere d'accordo? E' proprio sempre Forma! E non potrei concordare maggiormente quanto al fatto che la disgrazia di Burton sta proprio nell'aver affrontato il soggetto della sua vita - perché "Alice" è (è sempre stata) carne della sua carne e piume delle sue piume. C'è qualcosa da imparare sull'amore qui (è come quando uno si porta a letto tranquillamente tutte le donne che incontra, beato lui, poi un giorno va a letto con l'amore della sua vita e quella volta fa cilecca).

Ahimé, invece non posso proprio essere d'accordo su "Shutter Island" (meglio, sennò uno che ci legge pensa che stiamo qui a scambiarci complimenti). Sto preparando un pezzo in proposito per questo blog, lo avrò finito intorno al 2013, così potremo scannarcici avidamente sopra.
Un abbraccio
Giorgio