Grant Heslov
Lei a lui: “Se mi vuoi non hai che da fare un fischio. Sai fischiare, no? Unisci le labbra - e soffia”.
Voglio cominciare con questa citazione da Howard Hawks (“Acque del sud”, Lauren Bacall e Humphrey Bogart) in omaggio a un'epoca del cinema in cui anche il più semplice dei concetti poteva essere espresso in maniera sfavillante. E adesso andiamo al suo contrario, nel presente, con “L'uomo che fissa le capre”, esordio nel lungometraggio dell'attore (e sceneggiatore, “Good Night, and Good Luck”, ma non qui) Grant Heslov, basato su una sceneggiatura dilettantesca di Peter Straughan. Il film - che ha per epigrafe “Questa storia è più vera di quanto possiate immaginare” - è tratto da un libro non-fiction di Ron Jonson su un argomento stupendo: l'esercito americano condusse in passato ricerche sui poteri paranormali nella speranza di creare una specie di “guerrieri psichici”.
Il protagonista è un giornalista che segue la traccia di questi “guerrieri Jedi” nell'Irak occupato. Non è chi non veda il potenziale satirico fulminante di questa situazione (la nozione che c'è molto di vero la rende ancora più succosa). Ma Peter Straughan sforna un pasticcio confuso, che il regista Heslov si limita a mettere in scena confidando nella simpatia e nel mestiere degli interpreti, George Clooney, Ewan McGregor, Jeff Bridges (c'è anche Kevin Spacey, ma è sottotono). A tal proposito bisogna menzionare un tocco di casting delizioso: il protagonista che ascolta incredulo George Clooney blaterare sui “guerrieri Jedi”, è Ewan McGregor: ossia Obi-wan Kenobi giovane nella trilogia di “Star Wars”, il cavaliere Jedi per eccellenza della storia del cinema.
Il film ha tre difetti mortali strettamente correlati. Il primo è che i dialoghi sono un interminabile “yakkity-yakkity-yakk” privo di mordente: un blablaismo esasperato che, non dico sfociare nella battuta fulminante, ma nemmeno arriva a una scansione dei tempi che funzioni. A essere onesti, una volta centra il bersaglio in pieno (non posso citare l'unica battuta veramente azzeccata del film, sarebbe come privare un bambino povero del suo unico giocattolo, quindi mi limiterò a dire che arriva a proposito del “tocco della morte”); due o tre volte, più due che tre, ci va vicino: data la ricchezza dell'argomento, è di gran lunga troppo poco.
Naturalmente, un film può risultare divertente anche se il dialogo non è brillantissimo. E' questione di invenzione comica, si dice - e si dice male, perché invece è questione di concretizzare l'invenzione comica in un ritmo minuziosamente costruito dal lavoro di sceneggiatura. Peter Straughan sembra convinto che immaginare una serie di “tipi” buffi e strambi sia l'essenza della commedia. Vedi il boss senza un braccio del protagonista, che gli porta via la moglie. Perché senza un braccio? Resta totalmente irrisolto. Straughan dovrebbe parlare col nostro Monicelli: imparerebbe che la commedia nasce dal creare fra i “tipi” bizzarri un'interazione, metterli in una situazione che le loro caratteristiche comiche fanno scattare e che con ciò le esalta. Se Straughan non può permettersi un biglietto aereo per l'Italia, vanno bene anche i fratelli Coen - o almeno potrebbe vedere sei volte di seguito “Burn After Reading”.
Dalla difficoltà “drammaturgica” di costruzione del film deriva un altro tratto negativo: è dai tempi dell'innominabile “Il mio West” di Giovanni Veronesi con Pieraccioni che non si assisteva a una simile ipertrofia della voce narrante. Quest'ultima naturalmente ha un ruolo fondamentale nel cinema. Basta ricordare la voce narrante dei noir classici, cupa garanzia dell'irrevocabilità di ciò che è mostrato, riflesso sonoro del destino e della disgrazia. Ma nel presente caso (come spesso avviene) la voce narrante è semplicemente indice della difficoltà dello sceneggiatore a concretizzare il suo soggetto in forma di scena: si ricorre al racconto over per sostituire l'elaborazione drammatica.
Si direbbe che risponda a un istinto difensivo dello sceneggiatore anche il peggior difetto del film: la costruzione narrativa limacciosa e tentennante. Il racconto non fa che tornare su se stesso, in una ridda di flashback, un avanti e indietro continuo, il cui effetto sullo spettatore si potrebbe paragonare a muoversi in una stanza buia urtando di continuo le ginocchia contro gli spigoli dei mobili. Un recensore simpatetico potrebbe probabilmente parlare di costruzione narrativa influenzata dalla cultura del computer, con la sua possibilità di aprire un numero infinito di finestre. Considerando il risultato, questo mi sembra piuttosto un tentativo “frankensteiniano” di vivificare artificialmente una narrazione morta, che non sa trovare una forma efficace di per sé.
Lo dimostra bene un episodio in cui un personaggio si lancia contro i nemici; a metà del balzo entra un ennesimo flashback che ci informa sulla tecnica di lotta; dopo di che l'episodio riprende e si conclude. Fatto sta che la scena che incornicia questo mini-flashback né è divertente in sé né lo diventa alla luce del flashback stesso. Inevitabile concludere che esso serve solo a intorbidare le acque: a inserire fra le due valve dell'episodio-cornice un momento di sospensione che ne attenui l'impressione di povertà distraendo epidermicamente lo spettatore. In una parola, un coitus interruptus narrativo, come molto di questo film.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento