giovedì 15 ottobre 2009

Vincere

Marco Bellocchio

Non ha importanza, per intendere il capolavoro di Marco Bellocchio “Vincere”, il nudo fatto storico, se davvero Ida Dalser ebbe un figlio, Benito Albino, dal giovane Mussolini, se davvero vi fu un matrimonio, e via dicendo. Per usare la frase più citata del cinema di Bellocchio, l’immaginazione è superiore alla realtà (“Buongiorno, notte”). Quel che importa di “Vincere” è la sua lacerante discesa dentro l’assenza: il lutto di un’anima, la nevrosi di un paese.
Tracciando la cronaca del rapporto di Ida (Giovanna Mezzogiorno) con Benito Mussolini (Filippo Timi), il film interlinea il 1907 a Trento e il 1914 nella Milano del futurismo e dell’interventismo - vasto affresco visionario, nella magnifica foto di Daniele Ciprì, di una città onirica e spettrale, ardente della febbre della guerra che viene. La loro relazione porta alla nascita del figlio e a un matrimonio di guerra; poi Ida viene abbandonata, e di lì in poi perseguita Mussolini come un impotente spettro di Banquo; ma il regime fascista le toglie il bambino e chiude in manicomio sia lei che, una volta cresciuto, lui.
Il film, parole del regista, “affonda le sue radici nel melodramma”. Non solo a livello tematico e simbolico (il particolare del sangue che resta sulla mano di Ida dopo il primo incontro con Mussolini) ma anche discorsivo (pensiamo alla tenzone di inni opposti al cinema, o al coro sull’incendio della tipografia); ciò nella seconda parte è meno presente ma non si perde (lo richiama, ad esempio, la compagnia elegante che visita cantando il manicomio).
Un tratto per cui il contratto di credibilità del film (croyance) sembra incrinarsi è l’evidente dissomiglianza tra Filippo Timi e il Mussolini autentico, che è pure un personaggio di “Vincere” poiché vi appare in vari filmati di repertorio. Tuttavia, la scelta di far incarnare Mussolini in due corpi diversi è decisiva, perché radicalizza nel film la scissione tra il Mussolini conosciuto da Ida, vivente, accessibile, tangibile, carnale (il sesso, gli occhi, specchio dell’anima, la voce) e il Mussolini della separazione, lontano, inaccessibile, fantasmatico, non carnale (le sue apparizioni sono affidate alla riproduzione filmica, al b/n stinto e graffiato della pellicola). Questa trasformazione è un trasferimento sul piano fantasmatico, quindi una de-umanizzazione. E infatti culmina nella reificazione (il divenire cosa) di Mussolini come capoccione di pietra campeggiante nell’orfanotrofio, che il piccolo Benito Albino contempla e poi rovescerà.
La stessa qualità cinematografica leggermente sgranata accomuna i filmati di Mussolini e gli altri frammenti di film che Bellocchio splendidamente intesse in “Vincere” (fra cui “Maciste alpino”, “Saturnino Farandola”, “Christus”). Questi non sono mera ricostruzione “scenografica” bensì proiezioni dell’inconscio: come vediamo dalla scena della crocifissione del “Christus” di Giulio Antamoro proiettata, gigantesca, sul soffitto della chiesa-ospedale dove Mussolini giace ferito, che implica un’evidente fantasia di identificazione. O autentici rispecchiamenti della vicenda esistenziale, come “Il monello” di Chaplin proiettato al manicomio, mise en abyme della perdita (e del sogno di risarcimento) di Ida.
Che vuole Ida? Essere riconosciuta, cioè vista: quel riconoscimento impossibile nella ricerca del quale si bruciano i protagonisti bellocchiani; poi, sul sogno del riconoscimento lei elabora, fino alla fantasia di entrare a Villa Torlonia come moglie legittima al posto dell’usurpatrice Rachele. L’oggetto del desiderio è un fantasma. Il movimento del film di Bellocchio quindi si sposta dalla concretezza dei corpi all’inafferrabilità dei fantasmi. Dunque, un movimento malato: potremmo dire, rovesciando Freud, “dove c’era l’Io ci sarà l’Es”.
Quello che Ida, con tutto il suo caparbio coraggio, non accetta di ammettere è che lei non potrà mai essere una presenza per Mussolini, perché questo egomane (un imbonitore: non a caso il film si apre col più famoso dei suoi numeri di prestidigitazione dialettica, quello dell’orologio) non riconosce presenze attorno a sé: solo figure che accettano di confondersi nella sua ombra, come una Rachele quasi caricaturale, quasi macchietta romagnola, o come il suo sodale negli anni, che non a caso si chiama Fedele. Il mediocre piccolo borghese Mussolini sente oscuramente in Ida qualcosa di irriducibile alla propria misura (del resto è lei che ha scelto lui e non viceversa). “Vincere” è il motto di Mussolini ma, prima che un programma, esprime quella pulsione elementare che Gilles Deleuze individua all’origine del naturalismo: una oscura/oscena volontà profonda di prevalere, priva di un oggetto preciso (essere più di Napoleone, confessa lui a Ida). Nella prima parte del film, a una postura già “mussoliniana” del giovane Mussolini risponde un filmato di repertorio della futura folla osannante sotto il balcone di Palazzo Venezia - lo stesso che rivedremo alla fine come controcampo reale.
Il dramma della madre si rispecchia in quello del figlio. Tutto il cinema di Bellocchio è attraversato dal doloroso discorso dell’omicidio/dell’assenza/della ricerca del padre. Il figlio-non figlio di Mussolini, Benito Albino, lo uccide più volte in forme simboliche, prima attraverso il rovesciamento della statua, poi attraverso l’identificazione perversa di una parodia che diventerà via via più isterica e sfasciata. Perché il padre è un Père Ubu, un sanguinoso clown (lo vediamo istrioneggiare nel discorso su Roma antica e il Mediterraneo - tema di una sua celebre conferenza su cui si sdilinquirono gli adulatori) che incanta gli italiani. Ancora un punto nodale del cinema di Bellocchio è la rappresentazione; ed ecco il fascismo come grande rappresentazione, insieme buffonesca e tragica, basata su forti sottintesi erotici (vedi la suora eccitata sessualmente da Mussolini che rimprovera Ida al manicomio). Una nevrosi della persona ma anche una nevrosi dell’intera nazione: la fascinazione sessuale per Mussolini che attraversa il film non può non richiamare uno dei libri più profondi scritti sul fascismo, “Eros e Priapo” di Carlo Emilio Gadda.
In tutta la parte iniziale l’elemento centrale è l’energia demoniaca, fisica, del giovane Mussolini, che risucchia e vampirizza il film; Ida è solo un occhio che osserva ammaliato, un corpo che si offre; certo, anche un patrimonio che si prosciuga, ma pure questo sacrificio ha qualcosa di carnale (i soldi sulla scrivania, lei nuda sul letto, con un viso ferino). Si direbbe che Ida cominci a mostrare una personalità quando annuncia all’amante di essere incinta; e assume ai nostri occhi una propria psicologia dolente e indomabile quando è separata da Mussolini. Cioè la sua personalità si crea a partire da un’assenza, e per questo è una personalità scissa e infelice, interamente proiettata sul desiderio. Ma nondimeno - basta la sequenza del colloquio al manicomio, in cui lei soverchia i dottori - più viva e vitale di coloro che la circondano.
Prendiamo la notevole scena dell’incontro (dopo l’abbandono) all’esposizione futurista, dove Ida si solleva la gonna ed esibisce il pube nudo a Mussolini in visita. Sul piano diegetico è un segnale aggressivo (che trasferisce sul piano dei rapporti interpersonali lo zimm bamm bum dei futuristi) ma a livello più profondo è l’irruzione nel film di quella figura di donna dionisiaca, irriducibile alla coscienza maschile, che è figura ritornante nel cinema di Bellocchio (in questo senso il gesto di Ida è l’equivalente della torta in faccia tirata al magistrato in un film importante ma meno riuscito, “La condanna”). Per questo le pazze che berciano e corrono nella camerata dell’ospedale psichiatrico, all’arrivo di Ida, contrariamente alla plausibilità storica sono completamente nude. Attraverso il dramma di Ida “Vincere” recupera quell’alterità all’ordine, quell’irruzione dell’inconscio, che esplodeva nella follia e nella stregoneria de “La visione del sabba” - qui esplicitamente ricordato nell’inquadratura di Ida appesa alla grata del manicomio. Ida non può ricondursi alla saggezza di autoconservazione suggerita dallo psichiatra benintenzionato (“Questo è il tempo di tacere, il tempo di essere attori”) perché la sua ricerca ossessiva, il suo lutto, è irriducibile alle norme dell’“istituzione totale” - che non è il manicomio ma l’intero paese. Al fondo di questa ricerca c’è la morte.

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