Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone restano sempre l'appuntamento numero uno per i veri amanti del cinema. Anche se l'edizione 2009 (3-10 ottobre) lascia l'idea che mancasse un punto focale, o meglio, quella costellazione di punti focali che altre volte avevano fornito un mirabile senso di completezza, un tout se tient da cui emergeva prepotentemente la meraviglia del muto come forma cinematografica.
Inutile dirlo, come ogni anno abbiamo visto film bellissimi. A differenza di altri anni, però, i punti alti della rassegna appartenevano quasi interamente a quel numero di classici che sono già noti almeno come nome a chi ha una media cultura cinematografica. Accanto ad alcuni eventi speciali nella stessa logica, come il folgorante “The Merry Widow” di Erich von Stroheim che ha aperto il festival, la rubrica delle cose memorabili dell'edizione 2009 è stata monopolizzata dalla sezione “Il canone rivisitato”. E sarebbe strano che no, visto che, riassunto in termini bruti, il concetto di questa sezione è: ripresentiamo una serie di capolavori riconosciuti e vediamo se sono ancora validi (risposta: sì) e come si inseriscono nell'attuale quadro di conoscenze. Così ecco il magnifico “Dom na trubnoi” di Boris Barnet, un maestro sovietico di puro genio - non da oggi, chi scrive spera di vederlo prima o poi celebrato integralmente a Udine/Pordenone in uno Sguardo dei Maestri che si meriterebbe assolutamente. Il commovente, purtroppo mutilo, “Gunnar Hedes saga” di Mauritz Stiller. “J'accuse” di Abel Gance, uno dei film in cui le condizioni produttive permisero al grande francese di soddisfare la sua aspirazione alla totalità. “Der Golem” di Paul Wegener, capolavoro dell'espressionismo “plastico” (ahimè punteggiato nella proiezione pordenonese da qualche risatina di quegli ignoranti e imbecilli che anche alle Giornate spuntano come funghi velenosi nel sottobosco). O quell'autentica lezione di cinema che è “Rotaie” di Mario Camerini. O “Du skal aere din hustru” di Carl Theodor Dreyer, con la sua magnifica costruzione dello spazio, seguito lo stesso giorno da un felice restauro di “Die Gezeichtenen”, sempre del sommo danese, che integra e riporta agli intendimenti originali la copia russa unica sopravvissuta.
Viene in taglio qui la menzione di un problema ricorrente delle Giornate: talvolta l'eccellenza delle scelte viene limitata o tarpata da una vaga bizzarria nelle scelte di “schedule”, ovvero di posizionamento dei film nel programma. Per esempio non si vede la logica di proiettare “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille (la versione muta del 1923, s'intende) di lunedì mattina; è vero che le Giornate sono pensate in primo luogo per un pubblico di accreditati che ha la possibilità di seguire tutto, ma d'altra parte quel pubblico è familiare con l'opera di De Mille, ed è anche al pubblico non specialistico del pomeriggio/sera che essa dovrebbe essere proposta.
La serata finale di sabato 10 è stata - spiace dirlo - la più unappealing che questo recensore ricordi da quando segue le Giornate, e sono un bel po' di anni. “Ukulelescope” è uno spettacolo della simpatica Ukulele Orchestra of Great Britain che accompagna coi propri chitarrini e qualche intervento vocale alcuni film muti scelti ad hoc. Niente contro l'ukulele, per carità, è un amabile strumento, ma non corrisponde esattamente ai fuochi d'artificio cinematografici che usualmente concludono le Giornate.
Fra i restauri, da segnalare una bellissima copia di “The Eagle” di Clarence Brown (sarebbe quell'Aquila Nera cosacca poi celebrata nel secondo dopoguerra dal nostro Riccardo Freda): un film d'avventura spiritosissimo, dove però la comedy non deborda mai nella parodia, interpretato con ironia da Rodolfo Valentino - ottima occasione per mostrare come Valentino possedesse una gamma interpretativa ben più vasta di quanto ancor oggi molti pensano (lo aiutano validamente le deliziose Vilma Banky, l'innamorata, e Louise Dresser, la zarina Caterina). Va citata poi la gustosissima commedia berlinese “Der Fürst von Pappenheim” di Richard Eichberg, col grande Curt Bois, ulteriormente impreziosita dall'essere presentata in una copia inglese con didascalie estremamente spiritose. Amabilmente risquée coi suoi accenni al libertinaggio e al travestitismo, avrebbe potuto assumersi la “Mission Impossible” di dialogare con “The Merry Widow” di Stroheim in apertura, assai meglio che la modesta commedia “Le bonheur conjugal!” vista in quell'occasione.
Quest'ultima è una produzione Albatros, una casa fondata in Francia da emigrati russi, che però dava alle sue produzioni un tono totalmente francese. Alla Albatros era dedicata un'altra delle sezioni del programma. Si tratta di film di buon livello, tra i quali il capolavoro è certamente la “Carmen” del 1926 di Jacques Feyder. Fra quelli visti, cito la piacevole commedia “Ce cochon de Morin” di Viatcheslav Touriansky, autore anche del bizzarro “La dame masquée”. Quest'ultimo è un dramma macchinoso e non troppo soddisfacente, con una netta frattura fra la prima parte sentimentale e la seconda “gialla” - talché nella voragine narrativa che si apre finiscono inghiottiti (fuor di metafora: spariscono) due dei personaggi principali. Il merito maggiore di questo film, e un punto di forza della Albatros in generale, sono le scenografie. “La dame masquée” è un magnifico catalogo di architettura e arredamento art déco, tanto che nel film mezza Parigi sembra opera dello stesso architetto: dalla grande casa della zia maligna a una chiesa (ma forse è una cappella privata della stessa casa, visto che dopo il matrimonio vi si brinda senza che il prete li cacci a scopate), a – perfino – un ristorante cinese!
Fra le altre sezioni spicca quella dedicata a Sherlock Holmes: un'ottima idea, anche se il materiale visto a volte è inferiore alle aspettative. La questione dei serial, presenti in questa sezione, è che dispiace vederne solo due o tre puntate. Quello su Fu-Manchu, per esempio, del 1923, meriterebbe una presentazione integrale; coi suoi occhi vivissimi e crudeli Harry Agar Jones non sfigura rispetto a Warner Oland, Boris Karloff e Christopher Lee, suoi successori (bianchi come lui) nel personaggio del supercriminale cinese. Il film di Sherlock Holmes più interessante è probabilmente “The Sign of the Four” di Maurice Elvey, che incrocia le investigazioni di Sherlock Holmes con l'iconografia dell'orientale malvagio che insidia la vergine bianca (Fu Manchu again!), concludendosi con una splendida sequenza di inseguimento sul Tamigi.
I dieci minuti del raffinatissimo “Monkey's Moon” (1929) di Kenneth Macpherson ci riportano a quell'avanguardia cinematografica e fotografica che sapeva vestire le immagini di rara bellezza, e che qui giustappone in montaggio una serie di ambienti e visioni su una non-trama relativa a un giorno d'estate prima del temporale e due scimmiette in fuga. La macchina da presa erratica e il montaggio libero servono anche, in modo sinestetico, a rendere la musica jazz cui allude il sax nella banda visuale. La sensazione prevalente è di ariosità estiva, di pigrizia, di rilassata disponibilità alla visione; eppure sembra sottilmente triste.
Come sempre le Giornate hanno offerto una ricca messe di brevi film del primo '900, alcuni notevolissimi, anche in alcuni casi per le meravigliose colorazioni a mano o au pochoir (“Le Fille aux oeufs d'or”, “Le Tour du monde d'un policier”, “Les Petits Pifferari”), caratterizzati da una sapienza narrativa ingenua e insieme raffinata, e talvolta da un piacevole tocco di erotismo naïf primo novecento. Una sorpresa particolarmente piacevole nella selezione è stato l'anonimo americano “Down on the Farm” del 1905. Fa da spunto un'idea semplicissima: alcune giovani donne di estrazione chiaramente medio-alto borghese saccheggiano un frutteto e vengono inseguite da un gruppo di contadini infuriati in un'autentica maratona campestre. Lotta di classe - e dei sessi - su strada, con la netta vittoria delle prime sui secondi. Ma l'aspetto narrativo si risolve in quello ginnico, l'inseguimento in gioco, e la corsa di queste belle e meno belle in ariosi abiti bianchi va oltre la situazione cinematografica per esprimere una joie de vivre che si vede nei loro visi ridenti rivolti alla macchina da presa.
Non si può chiudere, infine, senza menzionare una piccola gemma del 2008 presentata a latere (il suo rapporto col cinema muto essendo molto aleatorio). “Helsinki, ikuisesti” di Peter Von Bagh ripercorre un secolo di vita di Helsinki attraverso il cinema (e l'arte figurativa e la canzone), non solo con grande intensità e vivezza ma arricchendolo di osservazioni sull'immagine e sull'arte cinematografica che, ci sentiamo di dire, sono degne di Godard.
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