martedì 25 agosto 2009

Exiled

Johnnie To

Il dettaglio di una mano che bussa alla porta apre “Exiled” di Johnnie To: è il destino che bussa. Ma questo è il grande tema di tutta l’opera del maestro hongkonghese: il destino come inevitabile determinazione dell’esistenza, da cui consegue per i suoi eroi la necessità di viverlo dignitosamente (così nel dramma gangsteristico come nel mélo: Andy Lau alla fine di “Yesterday Once More”). Due volte degli uomini dal viso duro vengono a cercare Wo (Nick Cheung), che ha lasciato la gang e si è rifugiato a Macao con moglie e figlio neonato per sfuggire al suo ex boss che lo vuole morto; due volte la moglie (Josie Ho) dice tremando che non c’è.
In tutto il suo cinema Johnnie To ama molto i giochi della simmetria e del raddoppiamento. In “Exiled” la situazione di partenza è pura geometria: due parti in causa alla ricerca di Wo, una per ucciderlo e una per proteggerlo, con due capi (Anthony Wong e Francis Ng) e due sidekicks (Lam Suet e Roy Cheung). La riflette anche la disposizione fisica delle figure. Sul piano simbolico, il film altresì intesse sottilmente un rapporto speculare fra le due figure di donna che vi compaiono, la moglie-madre Josie Ho e la prostituta Ellen Chan. La tenda verde che durante una sparatoria oscilla davanti alla moglie di Wo che prega (disegnando il fragile spazio del sentimento in mezzo alla fatalità balistica) viene rispecchiata dalla tenda verde dietro cui la prostituta si riveste nella clinica clandestina; ed è evidente il parallelismo nella conclusione, quando le due donne sono gli unici personaggi ad allontanarsi, salve, con l’oro.
Quando all’inizio Josie Ho gli chiede di risparmiare il marito, Anthony Wong risponde duramente che non ha scelta. Questo vale per tutti i personaggi: nessuno ha scelta, tutti sono costretti da una serie di obbligazioni - un destino. E’ magnifico come il film esprima questo concetto attraverso l’organizzazione dello spazio: in “Exiled” la costruzione spaziale riflette il racconto, come in Hitchcock o in Welles o in Ophuls. Il surcadrage ossessivo rompe l’inquadratura in partizioni che la frazionano: quindi i personaggi sono visivamente imprigionati in un pattern opprimente di linee, una serie di gabbie visuali - che siano materiali, come la porta in cui compare Josie Ho, o virtuali, come le linee angolate della casa di fronte, contro cui si stagliano i visitatori.
Questo spazio oppressivo si allarga “chirurgicamente” durante le sparatorie: vedi lo scontro a fuoco nella clinica clandestina, quando i teli di plastica che dividono la scena cadono giù volteggiando fra gli spari. La precisione balistica di queste sparatorie, dove le esplosioni nebulose di sangue sono come lampi di luce, il loro connettersi logicamente con la scenografia (la porta che rotea forata dai proiettili in casa di Wo!) richiama i momenti più alti di Anthony Mann. Johnnie To mostra in “Exiled” una vera passione per l’inquadratura dall’alto a piombo (legandola nel finale alla più stupefacente invenzione balistica del film, la lattina che vola verso l’alto – verso la mdp – durante la sparatoria nell’albergo). La plongée a novanta gradi trasmette un senso di oggettività, distanziando la mdp dai personaggi e privandola di empatia: non per cinismo, ma perché la dimensione epica emerge asciuttamente dai puri fatti.
L’ambientazione a Macao alla vigilia del passaggio alla Cina è anche l’occasione per un accenno politico/satirico (pure i gangster hongkonghesi progettano l’handover della malavita di Macao) che ricorda il micidiale coraggio satirico di “Election 2”. Johnnie To - insieme a Fruit Chan naturalmente - è il regista hongkonghese che ha trattato le implicazioni dell’handover nel modo più convincente e radicale. Ma fondamentalmente “Exiled” è un’alta riflessione sui temi dell’onore e dell’amicizia. Perché i cinque personaggi sono amici d’infanzia, ex compagni di banda e di combattimento (grande il timido saluto di Lam Suet alla parte avversa). Così - in un magico cambio di atmosfera - dal primo scontro a fuoco passano ad aiutare il trasloco, mangiano insieme, stabiliscono una tregua di un giorno impegnandosi ad aiutare Wo in un colpo che possa provvedere dei soldi per la sua famiglia. In una pagina straziante lui dà un bicchiere di whisky alla moglie e lei ne beve molto di più con muta desolazione. Poi porta delle coperte ai quattro e loro si addormentano in salotto (Johnnie To è grande nella fotografia del buio come solo Eastwood), non senza lasciare dei turni di guardia per la sorveglianza reciproca.
E’ quella concezione di onore nella fraternità che i cinesi chiamano yi - e che inevitabilmente li espone alla stessa condanna che pesa sull’amico. Il centro morale del film è dunque quello basilare del dramma gangsteristico hongkonghese e giapponese: il contrasto fra gli obblighi dei sentimenti e la fedeltà alla propria missione e al proprio capo. Epico nella geometria degli scontri, elegiaco nell’evocazione del passato affidata a pochi accenni indiretti e una foto ingiallita, “Exiled” riprende e porta al calor bianco di purezza le figure e le tematiche del cinema di To, segnatamente il sentimento elegiaco-eroico di “A Hero Never Dies” e il concetto di amicizia virile di “The Mission”. Anche per questo non c’entra col film - neppure sul piano stilistico - Sergio Leone, che pure è stato evocato. Piuttosto un riferimento occidentale può essere Sam Peckinpah. Il suono malinconico dell’armonica di Richie Jen quando i quattro partono dal molo (suono che passa da diegetico ad extradiegetico accompagnandoli all’albergo della resa dei conti) ha la stessa risonanza romantica e fatale del tranquillo “Let’s go” de “Il Mucchio Selvaggio”.
Sorretto da un complesso di magnifiche interpretazioni, il film trasmette ai personaggi un’abbagliante realtà umana. Non dimenticheremo mai la disperazione muta di Josie Ho, la gelida rabbia trattenuta di Anthony Wong, il delizioso accenno di buffoneria di Lam Suet (sublime la sua lunga tirata da fool shakespeariano: “Quanto è una tonnellata di sogni?”). Nei film di Johnnie To si ride molto, perché come nella vita il dramma ama interlinearsi con elementi di commedia - vedi ad esempio l’opportunismo del poliziotto che si tiene fuori dai guai aspettando mezzanotte, quando andrà in pensione (l’eccellente caratterista comico Hui Siu Hung).
Epopea di incroci e incontri inaspettati, “Exiled” è intessuto di elementi ritornanti (il bussare alla porta, la necessità di spingere l’auto in panne, la monetina, la domanda di Francis Ng “Verso dove?”, le foto ricordo) e tutti rimandano alla storia passata e all’ineluttabilità del presente. Più volte nel film i personaggi tirano la monetina, ed essa non fa che dirigerli secondo la strada prefissata dal gioco beffardo del destino - ovvero l’inevitabile sviluppo del plot. Non si sfugge al destino; quando Anthony Wong butta la moneta in acqua è il segno finale di accettazione. Di lì in poi è un’andata verso la morte - che loro celebrano bevendo: poiché è ricorrente nel cinema di To la considerazione dell’assoluta libertà di chi sa che deve morire, ed essa si esprime qui nell’allegria scombinata e infantile dei quattro subito prima dello showdown.
Alla fine la loro ultima fotografia si lega in montaggio con la prima, quella ingiallita di quando erano ragazzi. Tutti loro, non solo Wo, erano exiled, perché percorrendo i labirinti della vita tutti ci esiliamo dal passato, dalle amicizie e dagli amori, dalla felicità giovanile. Nella conclusione sanguinosa - la pace dopo il massacro - tutte le lontananze vengono sanate.

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