sabato 7 marzo 2009

Revolutionary Road

Sam Mendes

“A Mosca! A Mosca!” esclamano (implorano) le Tre Sorelle di Cechov. “A Parigi! A Parigi!” paiono dire - ed è l’identico mix di desiderio velleitario, sogno inane, autoillusione e sconfitta - April e Frank Wheeler nel notevole film di Sam Mendes “Revolutionary Road”, tratto dal romanzo di Richard Yates tramite un’attenta sceneggiatura di Justin Haythe.
Se con “Road to Perdition” (“Era mio padre”) Sam Mendes ci aveva mostrato la strada della perdizione nel mondo della mafia irlandese, con “Revolutionary Road” anatomizza l’illusorio progetto di due giovani sposi, negli anni ’50, di mantenere il loro sogno di originalità esistenziale vivendo una normale vita americana in quei “suburbs” che dovevano rappresentare l’espressione fisica della classe media sul territorio ma che la letteratura e il cinema americani (compreso “American Beauty” di Mendes) ci hanno descritto come una sorta di inferno ghiacciato.
Frank e April Wheeler (Leonardo Di Caprio e Kate Winslet) sono “bloccati in mezzo”. Non sono capaci o disposti a vivere ai margini, come la “beat generation” di cui proprio in quegli anni Jack Kerouac canterà l’epopea in “Sulla strada” e “I sotterranei”, ma neppure a accontentarsi delle modeste gioie dell’“american way of life” eisenhoweriano come i loro vicini, i Campbell. Il senso della sconfitta è già posto all’inizio, con la rappresentazione teatrale, dove il fallimento dei sogni di attrice (cioè dell’autoaffermazione intellettuale) di April è sancito dal calare del sipario, definitivo come una ghigliottina. E il senso della sconfitta, richiamato dal tema ricorrente del ricordo, attraversa il film: la percezione del tempo che passa, i sogni della gioventù che si allontanano, la sensazione di essersi costruiti intorno una gabbia giorno per giorno (nota che di questa gabbia sono una componente i bambini, cosa sommamente anti-hollywoodiana).
Andare a vivere a Parigi è, sentiamo, “la nostra unica occasione”. Ma questo film non è la cronaca di un’occasione perduta: è il quadro dell’incapacità di trovare un “ubi consistam” indipendente dal “dove”. A metà strada fra il grigiore della realtà e quello agrodolce dei sogni, April, coi suoi progetti velleitari, e Frank, con la sua paura di mollare tutto, tendono verso strade opposte. C’è una grande pagina di cinema, quieta e terribile, che riassume tutta l’incertezza e il dolore: Frank nell’ufficio di notte registra al dittafono un memorandum per la ditta circa l’importanza di sapere cosa tenere e cosa lasciare: “questo è il controllo delle giacenze” - e questo assurge a una grande metafora della sua situazione e di tutte le situazioni simili, a un’enunciazione filosofica sulla vita.
Con ottimi attori, una regia perfettamente calibrata (indimenticabili le lunghe giornate di April nella casa) e un magnifico regime del sonoro, Mendes mette in scena gli anni ’50 con vivezza iperrealistica, ipnotica. Molti recensori hanno giustamente segnalato l’analogia di questo film con “Lontano dal Paradiso” di Todd Haynes, similmente ambientato in quel periodo con una ricostruzione d’epoca e una riproduzione stilistica quasi maniacali. Il film di Haynes però è fiammeggiante, “sirkiano”, mentre quello di Mendes è asciugato, severo, quasi lugubre. I suoi ambienti – come la casa dei Wheeler, gli uffici dove lavora Frank, la casa dei Campbell (coi figli immersi nella televisione che non prestano orecchio al padre) – sembrano tombe. E questo, la presenza costante e silenziosa della morte dietro l’angolo, c’era anche in “American Beauty” (per non dire di “Era mio padre” e “Jarhead”). Così il film sfocia nel rito funebre di April, un autentico rito sacrificale degli anni ’50, l’ordine e la pulizia (lavare i piatti piangendo) prima che la sua vita finisca in una pozza di sangue.
Questi personaggi sono immobilizzati nei loro destini allo stesso modo di quelli - congelati in una luce fissa come insetti imprigionati nella resina trasparente - dei dipinti di Edward Hopper. E’ tutto un universo di sconfitti, a partire dal pazzo John Giddings, che scambia l’amara libertà di esprimere abrasivamente le sue intuizioni (ad esempio sul carattere rinunciatario dei Wheeler) con il disgusto generale e la vergogna dei suoi genitori (nonché, “last but not least”, 37 elettroshock). L’ultima immagine del film è il vecchio Mr. Giddings, il padre di John, che al “babbling” incessante della moglie oppone il gesto nascosto di spegnersi l’apparecchio acustico. Il mondo sfuma in un silenzio che è non udire, non vedere, quasi non essere - perdersi nel proprio dolore segreto.

(Il Nuovo FVG)

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