venerdì 2 gennaio 2009

Come Dio comanda

Gabriele Salvatores

Non ha davvero reso un buon servizio a Niccolò Ammaniti (a differenza di “Io non ho paura”) l’assai mediocre “Come Dio comanda” di Gabriele Salvatores.
Cristiano è un ragazzino cupo senza madre che vive col padre Rino, un fascistone rabbioso che dà la colpa della disoccupazione a “negri e slavi”. Padre e figlio si amano, ma Rino rischia di perdere l’affidamento se scontenta l’assistente sociale. Il loro amico di famiglia è un matto soprannominato “Quattro Formaggi”; quest’ultimo è innamorato dell’attrice porno che in una videocassetta interpreta Cappuccetto Rosso a culo nudo. Quando il pazzo incontra una ragazzina giovanissima con un cappuccetto rosso, crede di avere incontrato il suo idolo e, di notte nel bosco sotto la pioggia, le salta addosso, la violenta e la ammazza. Poi chiama piangendo Rino, il quale vedendo lo sfracello ha la tentazione (giustissima) di sparargli lì per lì; invece poi si dispera e per lo shock gli viene un coccolone. Il matto se la fila. Cristiano trova Rino esanime accanto al cadavere, crede che sia stato lui, nasconde il corpo e architetta tutto un ambaradan per coprire il padre in coma.
Rubando il termine agli spagnoli, chiameremo “tremendismo” il naturalismo compiaciuto nel mettere in scena catastrofi del “milieu” sociale e disastri esistenziali terribilissimi. Il tremendismo è la cifra di “Come Dio comanda” - ma un tremendismo povero povero, perché le ambizioni del film periscono nello scontro fra l’indubbia capacità registica di Salvatores e la sciatteria irredimibile della sceneggiatura. I personaggi sono “programmatici” nel senso pieno del termine: figure elementari e prevedibili, sagome piatte (il Matto, il Fascio) dalla definizione telegrafata - con quel passaggio dal realismo all’esagerazione simbolica per cui un tatuaggio con la croce celtica non sembra abbastanza, ci vuole la svastica king size dipinta in camera. Solo il ragazzino protagonista, Cristiano, ha una sua verità non banale, una complessità.
Ecco perché il suo interprete (Alvaro Caleca) risulta quello che recita meglio nel film: non per qualche mistica superiore bravura ma perché il suo personaggio è l’unico a tre dimensioni - talché resiste anche a qualche battuta imperfetta (“Non puoi farmi questo!” quando crede che il padre gli sia morto fra le braccia). Quanto agli altri, Filippo Timi (Rino) si affida valorosamente agli occhi per cercar di cavare un po’ di sangue dalla rapa del suo personaggio; Elio Germano (“Quattro Formaggi”) nel luogo comune ci sguazza, perdendosi voluttuosamente nella leziosità di una recitazione manierata. Meglio calare un velo su Fabio Di Luigi nel ruolo monocorde dell’assistente sociale, un creaturo peloso sempre incazzato (strano che un attore non di primo pelo - “no pun intended” - si trovi così a mal partito nel dare un minimo di caratterizzazione a un personaggio secondario).
“Quattro Formaggi” è un demente (“Sono scemo”, dice lui stesso) che però diventa tutt’a un tratto più intelligente quando conviene agli scopi della sceneggiatura: un esempio di incoerenza nella costruzione del personaggio (il quale fra l’altro ha denti perfetti, per essere un barbone, ma se andiamo a caccia di buchi logici finiamo a occuparci del problema di una pistola senza rinculo, di una polizia e un padre incazzato che non sospettano mai del matto locale, e insomma è meglio lasciar perdere).
Ha un ruolo importante il simbolismo del paesaggio (il film, girato in Friuli, si ambienta in un Nord indeterminato): fumi industriali, foschia, pioggia continua; un paesaggio indubbiamente efficace come sfondo, anche se non esce dall’ambito di generico “colore locale” come “Sud”. Nessuno può salvarsi in questo paesaggio: naturalmente anche la ragazzina vittima dell’omicidio è un’ochetta che fa la seduttrice coi ragazzi, fuma spinelli con un’amica, e insomma incarna il consumismo materialista (e il telefonino e il lettore mp3 con cui si diletta non saranno i tradizionali Simboli del Male del cinema italiano?).
Tecnicamente Gabriele Salvatores è bravo, su questo non c’è dubbio, ed è ben servito dalla fotografia di Italo Petriccione e dal montaggio di Massimo Fiocchi. Prendiamo la scena madre in cui Rino trova nel bosco, sotto il diluvio, il pazzo con la sua vittima: se astraiamo dalla sceneggiatura, dal dialogo e dalla recitazione, la sequenza è assai buona, tutta buio, luci riflesse e pioggia; e l’immagine del fanalino dello scooter dell’assassino che scompare nella cappa bluastra della notte meriterebbe di appartenere a un altro film. Le scene in cui Cristiano cerca di nascondere il delitto (creduto) del padre sono le migliori, anche perché strettamente narrative. Il buio del vano del furgone, dove c’è il corpo, fa pensare immediatamente alla fossa di “Io non ho paura”. Da notare che, quando scoppia la tragedia, giustamente il sublime “Twin Peaks” di David Lynch suggerisce alcune inquadrature.
Purtroppo questi valori fanno risaltare ancor più i limiti della sceneggiatura, che a volte si allarga in scene imbarazzanti come la sciocchezza penosa di Rino che finge di essere ancora in coma per “fare una sorpresa” al figlio, ed è indice della caratteristica peggiore del film: la ricerca dell’effettazzo a costo di sfiorare il ridicolo. Nella filmografia di Salvatores “Come Dio comanda” rimarrà come un fallimento totale, qualcosa di appena superiore come livello a “Malèna” di Tornatore (dove però almeno c’era Monica Bellucci nuda). Guardate “La ragazza del lago” di Molaioli, piuttosto, per vedere come tematiche tutto sommato non dissimili possono venir declinate con tutt’altra finezza.

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