giovedì 11 settembre 2008

Apocalypto

Mel Gibson

La foresta vergine si stende in una pace ingannevole come un umido scenario verde da inizio del mondo. Ma prima che questa quiete venga infranta, c’è un dettaglio premonitore. Svolazza una farfalla: sentiamo il battito delle sue ali, innaturalmente amplificato. Questa enfasi sensoriale ci annuncia che in “Apocalypto” saremo sottoposti a una esasperazione dell’esperienza - che del resto estremizza quella che sta alla base del cinema contemporaneo: dove bisogna tutto vedere, tutto udire.
Poi il sipario della foresta viene squarciato dalla frenesia del tapiro in fuga inseguito dai cacciatori: questo film si apre e si chiude con due cacce (la seconda follemente dilatata) forsennate e feroci. La miglior dote di Mel Gibson come regista è proprio il suo estremismo. La sua concezione è darwiniana: lotta per la vita e adattamento all’ambiente: inseguito dai guerrieri Maya, il protagonista Zampa di Giaguaro diventa da preda cacciatore quando ritorna nella foresta, e rivolge contro i suoi nemici le armi del suo ambiente (la stessa trappola che ha ucciso il tapiro); anzi, la foresta sembra cooperare con lui (l’episodio del giaguaro, esemplare proprio per il suo carattere di casualità).
"La Dea del Patibolo non ha pietà per i deboli”: non lo dicono i guerrieri che hanno distrutto il villaggio di Zampa di Giaguaro, lo dicono i prigionieri come amara constatazione. Su tutto il film si stende l’ombra della fine, che verrà da un’invasione - quella europea - destinata a rivelarsi non meno distruttiva che le spedizioni dell’impero Maya. Lo preconizza in un passaggio efficace la bambina demoniaca (che può ben ricordare il Satana femminile de “La Passione di Cristo”). Mel Gibson - che indubbiamente ha sempre sentito una fascinazione per la violenza - deriva dal suo pessimismo una sorta di paura della civiltà come fonte di nuove sopraffazioni. Di qui la spinta alla fuga in una “dimensione originaria”, che sia extrastorica (il villaggio nella foresta di “Apocalypto”) o ai margini della storia (il populismo contadino di “Braveheart”) o post-storica, cioè postatomica: è interessante come i guerrieri Maya, saccheggiatori e schiavisti, ricordino anche fisicamente i punk stupratori e assassini di “Mad Max” (a tal punto quella trilogia si adatta al pensiero di Gibson da autorizzare solo due ipotesi: che vi fosse stata già allora un’influenza dell’interprete Gibson sul regista George Miller o al contrario che quei film abbiano esercitato un influsso permanente sull’attore). Non per nulla le parole che concludono il film sono: “Dovremmo andare nella foresta a cercare un nuovo inizio”.
Questa del nuovo inizio è la tensione fondatrice di Gibson. E ciò è americanissimo: al fondo dell’animo americano giacciono, in contraddittoria coesistenza, il sogno di un nuovo patto sociale (e religioso, un “covenant”) nel territorio vergine e la consapevolezza dolorosa del male che si annida nel cuore selvaggio della foresta. E’ americano anche il darwinismo morale di Gibson, la sua enfasi sulla lotta per la vita: la sua concezione deriva più da Jack London che da Nietzsche.
Il bel film di Mel Gibson non è privo di difetti. Lo sviluppo realizza una drammatizzazione un po’ effettistica, vale a dire, di genere; si vede specialmente nell’inseguimento del protagonista, già ferito in partenza eppure invincibile (peraltro è una pagina di cinema terribilmente emozionante), e ancor più nelle disgrazie di sua moglie, costretta a partorire sott’acqua tenendosi in equilibrio su un sasso nella fossa allagata. Ma tutto ciò appare secondario nel quadro complessivo. Gibson possiede una capacità visionaria forse elementare ma autentica: che qui si esprime al suo meglio nella splendida e farneticante sequenza della metropoli Maya (esplorata dallo sguardo di scoperta dei prigionieri) con la sua popolazione decadente e impazzita, e dei sacrifici umani sulla cima del “teocalli”. Una pagina prodigiosa di delirio e violenza che Gibson consegna a un’antologia ideale del cinema estremo.

(Il Nuovo FVG)

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