giovedì 12 giugno 2008

Il Divo

Paolo Sorrentino

E’ come narratore di storie di caduta e di sconfitta che Paolo Sorrentino si è incontrato con “La spettacolare vita di Giulio Andreotti” - sottotitolo de “Il Divo”, che segue Andreotti dal vertice del potere, quando mira alla Presidenza della Repubblica, all’inizio del processo per mafia. E questo film su una caduta possiede una sorta di coro greco in Aldo Moro prigioniero delle BR; le sue parole e la sua immagine ritornano ossessive, ora come inserto oggettivo, ora nella soggettività di Andreotti, perfino come allucinazione.
Le interpretazioni si basano su uno straordinario lavoro di somiglianza; in particolare Toni Servillo nel ruolo di Andreotti attiene, anche come trucco, non al realismo ma all’iperrealismo (e quindi assolutizza il realismo per stravolgerlo). Bisogna inoltre menzionare, nel film, il grande commento musicale di Teho Teardo, la fotografia dai colori cupi di Luca Bigazzi, il magnifico montaggio di Cristiano Travaglioli. “Il Divo” è molto puntuale, con tutti i personaggi presentati in didascalia (anche in questa funzione enunciativa Sorrentino è vivace e originale). C’è tutto ciò che ci aspettiamo di trovare di Andreotti, il riferimento intimidatorio al suo archivio, i suoi curialismi, il cinismo, il suo humour implicitamente nero; Andreotti è sempre assai spiritoso, nel film, ma con una tristezza di fondo (a una festa: “Lei ha mai ballato, Presidente?” – “Tutta la vita, signora”) che lo accomuna ai vari protagonisti sorrentiniani.

Va detto che Sorrentino con “Il Divo” (nonostante il sottotitolo) non fa un biopic; o va al di là: oltre l’uomo Andreotti mette in scena il mito di Andreotti. Il famoso bacio con Totò Riina - che storicamente non c’è stato, era un’invenzione dei pentiti - Sorrentino lo presenta in una visualizzazione della testimonianza del pentito Di Maggio che è un capolavoro di ironia cinematografica: musica da canzonetta romantica, luce splendente, una serie di primissimi piani e dettagli (la bocca di Riina), è raccontato come un incontro d’amore - Totò Riina come Brooke Shields in “Laguna blu” (e Sorrentino introduce in questi dettagli anche una perfida comprensione per il disagio di Andreotti, uno così poco portato al contatto fisico da dare la mano con le sole dita, e ora deve baciare questo mostro).
I rapporti fra le due istanze, il dato storico e il mito, si intrecciano e si confondono in quella zona d’ombra e di ambiguità che costituisce il fascino del film, rendendolo una meditazione sugli arcana imperii - l’inevitabile inumanità del potere. Che esplode nell’irreale confessione di Andreotti rivolta alla macchina da presa: inizia come una poesia d’amore per la moglie, passa attraverso le formule cattoliche (“per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”) e rabbiosamente deflagra in una sorta di lamento biblico-politico (“Tutti a pensare che la verità sia una conquista e invece è la fine del mondo”), fino all’enunciazione definitiva: “commettere il male per perpetuare il bene”. Questo non è Dostoevskij, come ha detto qualcuno; semmai riporta le parole di Mefistofele in Goethe, e certamente la trattatistica politica classica post-machiavelliana. E’ in questa scena che Toni Servillo, prima andreottianamente impassibile, sepolto sotto l’aderenza alla figura non meno che sotto la pesantezza del trucco, per la prima volta denuda il suo personaggio nel segno di un’emozione totale.

Un tema centrale del film è la solitudine del potere, tanto maggiore per Andreotti, che paragona la propria corrente al letame. Nota la battuta della segretaria Enea (Piera Degli Esposti), quando il vento scompiglia i fogli e lei, alla finestra: “Presidente, sta arrivando una brutta corrente” - e arrivano come i Quattro dell’Ave Maria (la score di fischi sta fra il richiamo beffardo e i western di Morricone), gli uomini della corrente andreottiana, capitanati da Cirino Pomicino, con Sbardella che fa il segno di sparare in macchina - ma il controcampo ci mostra Enea, che fa un sorriso sprezzante. La mancanza di contatto umano fra Andreotti e i suoi (teorizzata in una scena con Evangelisti) non è solo per il carattere dell’uomo ma perchè chiaramente li disprezza - come la sua segretaria. In una scena, quando Andreotti reincontra la signora Enea dopo il ritiro di lei, Sorrentino insiste sulla notevolissima somiglianza fra i due; e qui ci rendiamo conto che Enea, condividendo quel disprezzo di Andreotti, è stata un suo doppio lungo il film. La segretaria e la moglie Livia (Anna Bonaiuto) – cioè l’elemento femminile – sono nel film il polo positivo del mondo andreottiano. C’è un elemento di vera umanità nella superba pagina di Andreotti e di sua moglie, in poltrona davanti alla tv, che dopo aver sentito attacchi e ironie circa la richiesta di autorizzazione a procedere si toccano la mano sulle note di “E la chiamano estate” di Renato Zero.

L’Andreotti di Sorrentino rientra nella sua galleria di figure di sconfitti, contorte o persino mostruose ma anche provviste di una loro dolorosa umanità – non perché siano al di là del bene o del male, come gli shakespeariani personaggi di Orson Welles, ma perché sono “al di qua” del bene e del male. L’emicrania di cui soffre Andreotti è un dato biografico, ma accomuna l’Andreotti di Sorrentino al protagonista de “L’amico di famiglia”, entrambi soggetti a questa ribellione della testa contro il cervello, entrambi resi grotteschi dalla cura (Andreotti con la “corona di spine” dell’agopuntura, l’altro con fettine di patate sulla fronte).
Sorrentino è regista istintivo e barocco; non è calcolatamente metaforico (in questo si stacca dalla tradizione del “cinema democratico” italiano più di quanto non pensi lui stesso), bensì poetico. “Il Divo” riporta lo stile sorrentiniano che conosciamo, un grottesco con elementi onirici (le formiche sulla mano sono quasi buñueliane) che sorge dal realismo. E’ puro Sorrentino l’inquadratura di Andreotti che passa gobbo, riflesso di profilo nello specchio della camera: le sue stanze tristi che riflettono, prima ancora che una personalità, uno stato esistenziale. Come è un’immagine molto sorrentiniana la sala di Montecitorio coperta di bicchieri di plastica vuoti; o il microfono in primissimo piano, inquietante e marziano, al processo. Parimenti ci torna familiare un bell’esempio di montaggio del sonoro per cui, dopo il party romano in cui fauna politica e splendide donne si scatenano al rullo selvaggio dei tamburi, quei tamburi continuano a rimbombare nello stacco sui vuoti corridoi del Kremlino.

Sorrentino è capace di mostrare in modo diverso da quello usuale (vale a dire, un Kafka dei poveri) i palazzi del Potere. C’è un’affascinante originalità nel suo Parlamento e nel suo Quirinale, dove Andreotti si trova la strada sbarrata da uno splendido gatto bianco dagli occhi bicolori, o dove sfreccia sul pavimento Cirino Pomicino in scivolata, oppure uno skateboard vuoto corre lungo la sala e - con bellissima soluzione di montaggio - si lega all’attentato Falcone.
Ciò consente una digressione. Sorrentino saprebbe molto bene realizzare un film in costume: “Il Divo” non è privo di analogie con “Marie Antoinette” di Sofia Coppola. Sul piano dei protagonisti i due registi svolgono il movimento opposto, Sofia Coppola partendo dall’astratto della leggenda per arrivare al concreto della persona, Sorrentino partendo dal concreto dei dati biografico-politici per arrivare all’astratto del mito; però entrambi mostrano lo stesso modo innovativo di mettere in scena l’ambiente, che sia il fasto regale di Versailles o quello più provinciale di Roma.

Sorrentino usa la contiguità delle immagini di Andreotti e dei morti ammazzati per esprimere una contiguità reale, la vischiosa ambiguità della Prima Repubblica (ma forse di tutta la storia italiana). Ne è un esempio chiarissimo il montaggio alternato di Andreotti che assiste a una corsa di cavalli e di Salvo Lima inseguito e ucciso dai sicari. Qui, peraltro, potrebbe celarsi l’unico difetto strutturale del film. Lo spettatore, vedendo immagini contigue, tende naturalmente al “post hoc, ergo propter hoc” - e questa lettura dell’immagine rischia di instaurare un determinismo che avvicina l’Andreotti de “Il Divo” all’Andreotti-gangster (non nominato) de “Il Padrino - Parte III”: ciò collide con l’ambiguità generale del film, impoverendolo.
Churchill ha detto della Russia che è un mistero avvolto in un enigma. Lo si potrebbe ripetere per Giulio Andreotti. Forse “Il Divo” non ci ha dato - forse non voleva neppure darci - la nuda verità definitiva sul politico Andreotti (e sicuramente non è quel “processo d’appello” mediatico contro le assoluzioni che qualcuno maliziosamente si aspettava). Ma certo è quello che voleva essere: un’alta meditazione barocca sul potere, una delle pagine destinate a rimanere di questo pallido cinema italiano.

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