sabato 23 febbraio 2008

Caos calmo

Antonello Grimaldi

Ho visto “Caos calmo”, il film di Antonello Grimaldi tratto dal romanzo di Sandro Veronesi; e adesso dovrò leggere il romanzo di Veronesi per capire cosa succede nel film. Perché fanno sesso Nanni Moretti e Isabella Ferrari, nella famosa scena che non piace ai vescovi? (a proposito, Nanni Moretti, mentre sodomizza rumorosamente la Ferrari in salotto, non ha paura di svegliare la figlia che dorme in camera e ritrovarsela lì? Per mantenere l’erezione in un contesto simile bisogna essere meglio di Rocco Siffredi). Naturalmente l’ambiguità, l’ellissi, la reticenza sono risorse preziose dell’arte; ma nel caso di “Caos calmo” si ha piuttosto l’impressione che il film vada per conto suo, privo di un “ubi consistam”.
Però non vale scherzare troppo su Moretti perché è la sua interpretazione a tenere in piedi “Caos calmo “, dilatandosi in una presenza (anche come sceneggiatore) che lo rende una sorta di nume tutelare del film. Già l’inizio con il protagonista e suo fratello che giocano a una specie di pingpong sulla spiaggia è un’autocitazione morettiana; ed è in Moretti – o meglio, nella figura cinematografica di Moretti – che si risolve integralmente il personaggio di Pietro. Sono “total Moretti” i suoi elenchi, le sue osservazioni puntute, il suo scandalizzarsi per il fratello che fuma oppio, il suo bordeggiare analizzandosi con malinconico umorismo sull’orlo della nevrosi, il modo introverso in cui affronta episodi anche tratti dal romanzo, come quello dello svenimento, che gli si attagliano perfettamente, che attrae nella propria dinamica. E nella sua rabbia contro i deliri della cognata demente sembra di sentire un’eco delle sfuriate di “Palombella rossa”: ma come parla questa?
Va da sé, non è casuale in un’opera sul processo di elaborazione del lutto (quello di Pietro dopo la morte accidentale della moglie) la presenza dell’autore de “La stanza del figlio”. Grazie a lui “Caos calmo” disegna bene quel momento di sospensione ambivalente tra andare e crollare; come già ne “La stanza del figlio”, Moretti supera la sua naturale antipatia nel convivere con la tragedia, non per il semplice fatto di esserne vittima ma per quella silenziosa umanità dolente con cui la regge. Uno dei punti nodali di tutto il cinema di Moretti è il silenzio, il “non dire”: drammatizzato/parodiato nella forma dell’afasia, nobilitato nella forma del rifiuto del discorso inutile, fotografato nella forma della difficoltà di arrivare a esprimere quello che non si lascia esprimere - e questa è appunto la condizione del lutto.
A Moretti fa da ottimo contraltare la bambina Blu Yoshimi Di Martino nel ruolo della figlia Claudia, che attraversa tutto il film con una presenza forte senza il minimo accenno di leziosaggine. A queste figure che reggono il film (vi aggiungiamo un sobrio Alessandro Gassman) si oppone purtroppo un bel po’ d’inutilità e vecchiume. Per metà “Caos calmo” raggiunge una dimensione di quieta verità; per metà appartiene al peggio del cinema italiano, quel mare oleoso di fintume romano “arty” di cui veramente non se ne può più - che s’incarna in primo luogo nella detestabile figura della cognata psicolabile interpretata da Valeria Golino. Non se ne può più di flippati e flippate isteriche che girano per i film sparando scemenze gratuite (il personaggio della Golino è replicato da quello della compagna dell’amico francese, che ha una specie di sindrome di Tourette), e suonano falsi, sub-letterari, para-romantici, quasi che il regista si credesse un Petrus Borel redivivo. Appena meglio la sezione alquanto stereotipata delle lotte di potere interne alla società a maggioranza francese cui appartiene Pietro, che si sviluppa in una dimensione inutile (l’orrido flashback a Venezia) o compiaciuta (il cameo di Silvio Orlando). E’ indicativo che la fotografia un po’ “casual” negli esterni sia più raffinata negli interni; è indice di un cinema del salotto. In realtà i personaggi del film risultano tanto più interessanti in quanto non parlano - come Roman Polanski nel cameo finale.

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