venerdì 18 gennaio 2008

Giorni e nuvole

Silvio Soldini

Nel cinema di Silvio Soldini, lo scrivevamo in questa rubrica anni fa parlando di “Pane e tulipani”, perdersi è sempre una buona occasione per ritrovarsi. E’ un tema ricorrente del regista milanese il gioco del caso, che scatta e fa deragliare i personaggi fuori dai binari della loro vita. Solo che questo deragliamento, pur disastroso, ha un che di necessario. Perché c’è un terrore oscuro, in Soldini, quasi un mito negativo, dell’esistenza che scorre fissa e incasellata, sempre uguale, sempre meno capace di intravedere dimensioni nuove.
Per questo hanno un ruolo così importante nel cinema di Soldini le case. Nella loro struttura rigida, rappresentano un “ubi consistam” che lentamente si è ossificato, la materializzazione tangibile di un’esistenza cristallizzata e costretta in un guscio di abitudine. Anche se si tratta di un bellissimo appartamento signorile di Genova, come quello di Elsa/Margherita Buy e Michele/Antonio Albanese in “Giorni e nuvole” (ambientato in una Genova che peraltro non è particolarmente rilevante nel racconto, a parte certe inquadrature graziose ma “obbligate”: il film avrebbe potuto benissimo svolgersi nella Milano di Soldini).
La prima cosa che si perde quando quest’esistenza va a pezzi è la casa. Succede ai due protagonisti, due coniugi benestanti con una figlia adulta; lui è un piccolo industriale, lei si è appena laureata e lavora al restauro di un affresco. La mattina dopo la sua festa di laurea, Elsa apprende da Michele che è rovinato, e da mesi glielo taceva perché potesse laurearsi senza questa preoccupazione (bellissimo il viso serio di Albanese durante la festa). Non solo Soldini, sempre ottimo direttore di attori, ottiene da entrambi un’interpretazione ammirevole ma col suo metodo di accumulo per accenni, a piccoli tocchi (quasi minimalista, per usare un aggettivo non meno abusato che brutto), rende perfettamente, con vera finezza psicologica, questa difficoltà di adattarsi dalla ricchezza al disastro. Il dover passare, per Margherita Buy, dal piacere intellettuale del restauro al doppio lavoro in un call center e come segretaria notturna; e per Albanese l’andare a pezzi dei nervi (già di carattere, Michele è un rompipalle maiuscolo) per cui sfoga la sua frustrazione litigando prima con la figlia, poi con la moglie e con se stesso.
E’ materia su cui la grande maggioranza dei cineasti italiani avrebbe costruito un melodramma secondo le linee alternative del tremendismo o del populismo pauperistico. Soldini invece, pur mostrandone tutta la drammaticità, lo gestisce con estrema accortezza. Non c’è nulla nel film che non abbia un’impronta di autenticità: dalla bella inquadratura di Elsa e Michele di schiena, mano nella mano, davanti alla barca che devono vendere all’avventura di Elsa col dirigente della ditta ai lavoretti che per tirare due lire Michele fa in giro con una coppia di amici (uno è Giuseppe Battiston, un “regular” soldiniano). Soldini non manca di inserirvi dei tocchi di non-humour: di situazioni che sarebbero divertenti ma, schiacciate dal peso del contesto, non suggeriscono che un sorriso amaro (le scene del trasloco).
I due inevitabilmente finiscono in una casa nuova e più povera; dove l’apertura di una finestra interna su una stanza consente a Soldini un bell’esempio di quel “framing” dell’inquadratura che ama tanto, assumendo altresì un vago sapore metaforico (più luce!). Parallelo al racconto, v’è il sub-plot narrativo, accennato per pochi tratti, del restauro dell’affresco. Anch’esso assume un valore simbolico-esistenziale; come se in qualche modo quell’affresco che rispunta dall’intonaco replicasse quella riscoperta del mondo che tocca per via aspra e dolorosa ai due protagonisti (Soldini non è alieno dal simbolismo nel suo cinema, in cui l’oggetto inanimato riveste grande importanza). Il loro sguardo in soggettiva sul dipinto segue un percorso di stelle – e questo sguardo alle stelle sembra annunciare una (possibile) risalita.

(Il Nuovo FVG)

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