venerdì 18 gennaio 2008

Beowulf

Robert Zemeckis

“E questo diverrà un luogo di baldoria, gioia e fornicazione!”, urla re Hrothgar (Anthony Hopkins) nudo sotto un mantello dopo essersi dato al buon tempo con due ancelle, inaugurando la grande sala. Ma invece il mostro Grendel la trasformerà in luogo di lutto per i vichinghi. Comunque “baldoria” è una buona parola per intendere il notevole film che Robert Zemeckis ha tratto dalla saga di Beowulf, scritta prima dell’anno Mille, in cui l’eroe sconfigge Grendel, poi la sua demoniaca madre e infine un drago. “La leggenda di Beowulf”, sceneggiato da Neil Gaiman e Roger Avary, riscrive intelligentemente la saga integrandola con una buona trovata: il padre di Grendel e quello del drago sono rispettivamente Hrothgar e Beowulf, che in segreto hanno peccato con la donna-demone. Se tenete conto che nel film la madre di Grendel è Angelina Jolie nuda, tutto diventa comprensibile. Con la sua pelle d’oro, lei incarna un delirio mitico-metallico-feticista (i tacchi a spillo incorporati nel piede come talloni!), e ricorda quell’immagine archetipica della donna meccanica del cinema che è il robot di “Metropolis”. Ma è toccante la scena, tutta minimale, in cui seppellisce singhiozzando il mostruoso figlio morto.
Ci troviamo davanti a un film realizzato in “motion capture”: ovvero, il movimento degli attori reali - che hanno recitato con una tuta cosparsa di sensori - è rifatto in digitale e inserito su sfondi in computer graphics. Il risultato è una via di mezzo tra un disegno iperrealistico e un’immagine fotografica “smaltata di disegno” – qualcosa di più e insieme qualcosa di meno di quella realtà iconica su cui il cinema ha fondato la sua storia. Il racconto visivo così si trasforma in qualcosa di falso e di folle. Poiché, mentre i visi sono incredibilmente realistici (e infatti Ray Winstone, Anthony Hopkins, Brendan Gleeson eccetera sono listati a pieno diritto come interpreti), il movimento dei corpi umani ha qualcosa di finto e sospeso, vagamente surreale. Ciò che qui si accorda benissimo con questo pazzo racconto di guerrieri e di mostri.
Uno penserebbe che il vantaggio numero uno della “motion capture” integrale sia quello di sfruttare la carica di meraviglia degli sfondi e delle creature fantastiche. Tuttavia non è così, perché comunque li si potrebbe inserire in un film dal vero (pensiamo a Gollum e “Il Signore degli Anelli”); allora, perché tradurre in computer graphics tutto il film? Oltre che per una generica unità di tavolozza, s’intende. Vorrei suggerire che l’effetto primario di questo passaggio si possa concentrare nel termine “esaltazione”. Ossia che esso consenta ai realizzatori una libertà psicologica prima ancora che tecnica.
Vale sul piano del piano del linguaggio cinematografico. E’ usuale nei film d’oggi che la macchina da presa si getti in slanci folli; ma certi looping che troviamo qui sono assolutamente estremi. Non dico lo splendido volo all’indietro che dalla sala festante dei vichinghi ci conduce, con un progressivo spegnersi in lontananza dei canti, all’orrida tana di Grendel; ma a un certo punto la macchina da presa parte dal dettaglio dell’ugola nella bocca spalancata di una donna urlante per uscirne in un veloce allargamento del quadro. Una soluzione retorica che in un film dal vero apparirebbe ridicola e qui no: proprio perché l’immagine si colloca in un “terrain vague” tra cinema e cartoon, tra fotografia e disegno.
E vale – esattamente per lo stesso motivo - sul piano narrativo. In effetti oggi, con l’eccezione di pochissimi grandi come Tarantino, nel cinema d’avventura americano c’è il triplo di forza sanguigna, calore, fisicità, isteria nei film “a fumetti” (“Sin City”, “300”, “Beowulf”) rispetto a quelli “dal vero”. Questo film ha una violenza narrativa e un impatto visivo rari per l’attuale “allure” del cinema americano, impestato di “politically correct”. Un delirio di forza, lussuria e potere (Beowulf dixit) che riporta sullo schermo un barbaglio di un’Europa selvaggia e vitale, di cui oggi non restano che le ceneri.

(Il Nuovo FVG)

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