sabato 20 settembre 2025

Duse

Pietro Marcello

Non andremo a cercare l’esattezza storica in Duse di Pietro Marcello, racconto degli ultimi anni di Eleonora Duse (che poi morì in tournée a Pittsbugh). Per quella, conviene rifarsi al recente ottimo documentario Duse – The Greatest di Sonia Bergamasco. Pietro Marcello fa un cinema estremo, nel senso della massima espressività; trasporta le sue storie in una dimensione immaginosa, con tratti quasi fantastici (vedi in Martin Eden l’incrocio fra il primo Novecento e la temperie degli anni Cinquanta e Sessanta) che creano il fascino della sua opera. Nella storia di Eleonora Duse (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi), gravemente malata, finanziariamente in rovina, in rotta con la figlia, Marcello si rifà agilmente alle forme del melodramma, con abbondanza di primissimi piani assai ravvicinati; ma il film parte dall’attrice per tracciare una sorta di “ritratto dell’artista nell’epoca” al di là (o almeno, ai limiti) della dimensione del biopic. Debitore alle sue origini documentaristiche, l’autore interlinea il racconto con documenti filmati, in primis il viaggio in treno verso Roma della bara contenente i resti del Milite Ignoto, ma non solo. C’è una dialettica controllata fra il documento e la messa in scena che raggiunge un interessante punto di tensione quando a un discorso di Gabriele D’Annunzio risponde il controcampo della tetra foto di una folla di squadristi con abbondanza di pugnali tra i denti.
Com’è noto, della recitazione della Duse abbiamo in pratica solo testimonianze indirette, e delle foto (più, ma fuori dal campo teatrale, il film Cenere del 1916). Si direbbe che anche il presente film tenda a mantenere questa assenza. Vi ha grande prevalenza la Duse fuori dal palcoscenico; in teatro solo una bella scena ha importanza, che la vede in veste di regista/insegnante con una giovane attrice.
In quello che abbiamo chiamato il cinema estremo (e molto personale) di Pietro Marcello accade che anche i difetti – come, fra i personaggi, un Memo Benassi troppo caricato o un D’Annunzio francamente deludente – vengano in qualche maniera “assorbiti” dall’insieme.

sabato 13 settembre 2025

Downton Abbey - Il gran finale

Simon Curtis

Nessuno fra noi appassionati di Downton Abbey potrà fare a meno di metter mano al fazzoletto in alcuni momenti dell’agile e bel film che conclude la lunga saga di Julian Fellowes, Downton Abbey – Il gran finale diretto da Simon Curtis, dopo sei stagioni tv e tre lungometraggi che spaziano dal 1912 al 1930. Ci si commuove in quest’addio: addio non ai personaggi in sé (non muore nessuno come Lady Violet nel secondo film; la dipartita della madre americana di Lady Cora è solo comunicata nel dialogo) ma al loro mondo. Senza fare eccessivi spoiler, Downton Abbey – Il gran finale è una serie di uscite di scena, pensionamenti e trasferimenti.
La saga televisivo-cinematografica tratteggia con precisione quasi marxista la decadenza economica dell’aristocrazia terriera inglese. Deliziosa nel presente film la scena in cui Lord Grantham (Hugh Bonneville), dovendo vendere il palazzo di Londra perché troppo costoso, va con la figlia Lady Mary a esaminare un appartamento londinese da acquistare in cambio, ma si stupisce all’idea di avere dei vicini al piano di sopra e a quello di sotto. “È una specie di torta millefoglie farcita di estranei”. Alle origini di Downton Abbey – passando per il lavoro di Fellowes con Robert Altman (Gosford Park) – ci sono due grandi esempi: Jean Renoir con La regola del gioco e il novel of manners inglese risalendo “per li rami” a Jane Austen. Sintomatico che Jean Renoir parli di separazioni, Jane Austen di unioni. In questa serie così attenta alla dialettica fra continuità e innovazione, è fondamentale la centralità della famiglia – legata alla grande casa che dà il titolo. Anzi, di una doppia famiglia, quella dei nobili e quella seconda famiglia subordinata che è la servitù. Che, com’è noto, può essere ancora più snob dell’originale: più di tutti il maggiordomo Carson (Jim Carter) che anche qui ha alcune delle sue classiche uscite.
Nel presente film, Lady Mary (la meravigliosa Michelle Dockery) si trova a essere ridotta a un’outcast nell’ambiente dell’aristocrazia a causa del suo divorzio da Henry Talbot (che già nel secondo film non appariva, con la scusa di un viaggio). Intanto la condizione economica va di male in peggio (scherza sua sorella Edith: “Metà del contante è già sfumato, e il tuo vestito ha fatto il resto”). A salvare se non altro la situazione sociale di Mary appare come deus ex machina nientemeno che Noël Coward (interpretato da Arty Froushan). Il film si apre sulla sua operetta Bitter Sweet, e durante la sua visita a Downton Abbey gli sentiamo descrivere il progetto di Cavalcade; per di più, graziosa novità di storia letteraria, è proprio a Downton Abbey che gli viene l’ispirazione e gli viene suggerito il titolo per la sua futura commedia Private Lives.
Deus ex machina: questo termine di origine teatrale casca assai bene nel contesto, perché Julian Fellowes approfitta dell’episodio finale per realizzare garbatamente il suo exegi monumentum mediante discreti tocchi metanarrativi. Il titolo del film appare sulla vasta inquadratura di una platea plaudente a fine spettacolo; quando la cuoca Mrs. Patmore dice a Daisy che “le nostre vite sono divise in capitoli… ogni volta che si chiude un capitolo se ne apre un altro”, in questa metafora di normale saggezza quotidiana è evidente il riferimento di Fellowes alla serialità televisiva; infine, a un certo punto Mr. Molesley dice – significativamente, guardando in macchina – che gli sceneggiatori come lui sono i veri autori dei film.
In verità Fellowes restituisce l’omaggio verso la fine, quando Molesley dice di aver imparato che gli sceneggiatori non vanno da nessuna parte senza gli attori. È proprio vero; a creare la calda attrattiva di Downton Abbey sono in egual modo la genialità inventiva di Fellowes (nelle caratterizzazioni prima ancora che nella peripezie) e la felicità delle interpretazioni di un cast formidabile. Grazie a questa combinazione – impreziosita da battute da grande commedia inglese (quella su Agatha Christie è fulminante) – tornare a vedere Downton Abbey in tv o al cinema è un autentico homecoming, un ritorno a casa.
Questi discorsi su sceneggiatura e interpretazione non intendono mettere in ombra l’abile lavoro del regista Simon Curtis. Bella quella luce commossa che avvolge Lord e Lady Grantham mentre vanno via! La narrazione è fluida, la messa in scena è capace: il ritratto di Lady Violet (Maggie Smith, cui il film è dedicato) nella grande sala ha una centralità da personaggio assente-ma-presente (anche comparendo in un caso a chiudere una scena in sintonia col commento musicale); ed è ottima l’inquadratura nel pre-finale in cui Lady Mary, l’erede, compare da sola col ritratto alle spalle, prima dell’entrata del montaggio di ricordi in flashback. Poi Mary esce di scena e la mdp mette simbolicamente il ritratto al centro; qui appare la dedica.
Così il film fa calare la tela su Downton Abbey, e vediamo – mentre scorrono i titoli di coda – la prosecuzione delle vita private dei protagonisti, provando quel sentimento agrodolce che si prova alla fine della lettura dei vecchi romanzi, quando l’autore o l’autrice ci racconta in poche righe il “dopo” delle vite che ha fatto vive. “Long live Downton Abbey!”, esclama Lady Mary alla fine salutando Edith che parte; al che Edith risponde “Amen to that”.

martedì 8 luglio 2025

Jurassic World - La rinascita

Gareth Edwards

Inutile fare gli snob: Jurassic World – La rinascita è divertente, com’è naturale per un film di personaggi in viaggio in un territorio pieno di mostri intenzionati a mangiarli: un film di fughe, irruzioni e inseguimenti; basta che sia realizzato con un po’ di professionalità. Qui, il regista Gareth Edwards non è il primo arrivato; al suo fianco c’è Steven Spielberg come produttore esecutivo (però lo è stato anche nell’inguardabile Jurassic World – Il dominio di Colin Trevorrow, 2022); e il film è ben servito dall’abile montaggio di Jabez Olssen. Alla sceneggiatura ritorna David Koepp. Dopo il tentativo fallimentare di inserire i dinosauri nel mondo contemporaneo, si ritorna al concetto dell’isola selvaggia (con i classici echi de Il mondo perduto e King Kong).
Questo, a costo di rovistare il più possibile nei cassetti dell’immaginario “giurassico”; per esempio rifacendo ex novo, con una bestiaccia differente, la famosa scena spielberghiana del velociraptor nelle cucine con i ragazzi nascosti dietro i mobili. C’è nel presente film una capacità molto alla Spielberg di far apparire i dinosauri a sorpresa: ora emergono dalla nebbia, ora si intrufolano non visti sul fondo; in una delle scene migliori, vediamo un personaggio arrampicarsi freneticamente sulla parete mentre il quetzalcoatlus (uno pterosauro volante in confronto al quale lo pterodattilo sembra il canarino Titti) cerca di beccarlo; stacco al ciglio del burrone, dove lo aspettano i suoi amici, e vediamo emergere da sotto il quetzalcoatlus con l’uomo nel becco come un passero con un verme.
Divertimento immediato a parte, Jurassic World – La rinascita ha aspetti positivi e negativi. La cosa di gran lunga più interessante è il suo aspetto apertamente metanarrativo (ossia, di una narrazione che rimanda a se stessa). Il film si svolge in un mondo in cui: a) i dinosauri stanno morendo (tranne quelli nella zona equatoriale dove si recano illegalmente i protagonisti); b) comunque lo spettacolo dei dinosauri non interessa più a nessuno. Una volta c’era la fila, adesso vendiamo dodici biglietti in una settimana, dice a un dipresso il curatore del museo. Il punto a) ha un valore metaforico, il punto b) è un’invenzione diegetica, entrambi ci parlano dell’esaurimento della serie Jurassic. Dopo la sorpresa epocale del film di Spielberg del 1993, e dopo i primi sequel, il concetto aveva cominciato a mostrare la corda (non per niente il titolo del presente film è uno speranzoso Jurassic World Rebirth).
Un grave demerito di Jurassic World – La rinascita è la prevedibilità delle caratterizzazioni (per inciso, è lo stesso difetto che si ritrova quest’anno in F1 – Il film di Joseph Kosinski). Jurassic World – La rinascita si basa su un doppio gruppo protagonista. Il primo è un team che si reca clandestinamente nell’isola per estrarre il DNA di tre generi di dinosauri vivi (manco a dirlo, i più pericolosi) allo scopo di fabbricare un prodotto farmaceutico contro l’infarto – la solita Big Pharma, per intenderci. È un gruppo di characters prevedibili ai limiti dell’autoparodia: la bella mercenaria tough as nails (peraltro nel ruolo Scarlett Johansson è brava), lo studioso supercompetente ma impacciato che si rivela eroico, il capitano nero scafato, la carogna a prima vista che lavora per la ditta farmaceutica, più due tre personaggi che servono fondamentalmente come carne da dinosauro.
Nota in margine: perché questa prevedibilità non ci disturba, e anzi ci piace, nei film avventurosi di serie B in bianco e nero o nel lussuoso Technicolor degli anni Cinquanta – mentre ci dà un certo fastidio oggi? Ma perché il cinema d’oggi, per così dire, ha mangiato il frutto del bene e del male. Con la morte dei B movies ha rinunciato alla sua ingenuità.
Il secondo gruppo, che incrocia la strada del primo, è una famiglia di naufraghi (padre, due figlie e fidanzato della figlia maggiore), che serve a poco più che a scappare, piangere, correre e volersi bene, provvedendo una storia secondaria in montaggio parallelo con la prima. Andrebbe studiata nelle scuole di sceneggiatura, come esempio negativo, l’incredibile caratterizzazione iniziale del fidanzatino stronzetto, che poi tira fuori la sua umanità. È un tocco di sceneggiatura di una goffaggine imperdonabile, al punto che facciamo il tifo per i dinosauri che vogliono mangiarselo. Parimenti è imperdonabile l’orrida trovata disneyana del dinosaurino cute che si affeziona alla figlia minore. Questo secondo gruppo viene precipitato nella trama praticamente senza giustificazione: cosa ci fanno questi quattro sprovveduti californiani con la loro barchetta a vela nel tratto di mare più pericoloso della terra? Al tempo del cinema classico, che era molto logico (su un piano illusorio, ma lo era), lo sceneggiatore avrebbe dedicato dieci secondi di film a fornire una spiegazione: metti, sono incappati in una tempesta che ha messo fuori uso gli strumenti di bordo e sono finiti fuori rotta.
Un tratto spiacevole del film è che commette lo stesso errore degli scienziati sperimentatori del prologo. Questi scienziati (e qui, naturalmente, siamo ancora nel campo metanarrativo) cercavano di creare nuovi dinosauri transgenici perché, come sentiamo nel film, la gente era stufa dei soliti dinosauri. Poi è andata male e i dinosauri mutanti sono stati abbandonati sull’isola evacuata. Quindi i nostri eroi devono vedersela con dinosauri mutanti non esistiti nella storia del mondo – i quali entrano in scena in particolare nel gran finale.
In primo luogo, questo è deludente perché il concetto base dell’intera serie non è “uomini contro mostroni più o meno dinosaureschi” ma è “uomini contro dinosauri, punto”. Dritti dritti dal Giurassico, e col bollino di garanzia di una loro storicità (almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze). I realizzatori avrebbero dovuto imparare dai film di insetti giganti degli anni Cinquanta: la mantide gigante grande come un palazzo di sei piani è appunto una mantide. Vero è che Jurassic World (Trevorrow, 2015) già presentava un superdinosauro geneticamente modificato; ma fondamentalmente era un tirannosauro più grosso.
Punto secondo, e questo è il guaio peggiore, questo “nuovi” mostri saranno pure cattivissimi ma non hanno nessuna attrattiva visiva. I sauri col becco da passero e la pappagorgia che si comportano come velociraptor? Il gigante Distortus Rex che sembra un T-Rex con una gran bozza sulla fronte? Suonano finti, artificiosi, immaginari qual sono, e in ultima analisi un po’ ridicoli. Morale: la Natura aveva più stile dei realizzatori in CGI del film.

domenica 15 giugno 2025

Fredo Valla - Le parole del padre


Una volta i padri parlavano ai figli – trasmettevano nella memoria le loro parole. Forse ancora oggi, chi sa. Non tutti. Fredo Valla è un documentarista, sceneggiatore, regista (e varie altre cose, nel corso di una lunga vita: è del 1948). Con Le parole del padre. Scritti, geografie e memorie (Aragno 2025, pp. 294, Euro 25), non scrive né un’autobiografia né un manuale di istruzioni morali: niente di pomposo e “ciceroniano”. Raccoglie una serie di suoi scritti sparsi, alcuni pubblicati su giornali e piccole riviste, altri inediti; direttamente e con modestia parla di sé e della propria avventura di vita e d’intelletto. Fa emergere un quadro a piccoli tocchi discreti: anche se parla di sé non è mai invasivo: da buon documentarista, fa sì che l’“io” tende a inverarsi nello sguardo. Si sarebbe potuto usare l’aggettivo “umile”, prima che questa parola diventasse di moda in ore stultorum.
Leggo nella bella prefazione di Luca Margaria “Quanti e quali incontri ci hanno plasmati e attraverso di essi ci siamo formati e costruiti? (…) Voluti o subiti, desiderati, ricercati, o semplicemente successi”. Questo mi fa venire in mente una pagina molto saggia di Jean Renoir (da Ma vie et mes films): “È il nostro orgoglio che ci fa credere all’individuo-re. La verità è che questo individuo di cui siamo così fieri è composto di elementi come un piccolo amico conosciuto alla scuola materna o il protagonista del primo romanzo che abbiamo letto, o perfino il cane da caccia del cugino Eugenio. Noi non esistiamo di per sé ma per gli elementi da cui siamo stati circondati nella nostra formazione”. C’è un po’ di enfasi positivista (perché fermarsi alla prima formazione?), e del resto un genio come Renoir sapeva bene che anche quello che facciamo ci trasforma; homo faber; nondimeno, ha ragione da vendere. Contro ogni idealismo, noi veniamo formati da influenze esterne.
Le parole del padre è una raccolta di scritti dove si può ritrovare tutto quanto – persone, viaggi, progetti, delusioni – ha modellato Fredo Valla. Lui viene fuori tutt’intero da queste pagine, e il fatto di non nascondere il loro carattere occasionale (non sono state riscritte o rifuse) non fa che rinforzare l’effetto. Accanto ai temi che uno si attende – quali l’amata Occitania (e l’occitano), il padre e la famiglia, la montagna, i suoi autori, i suoi maestri, o il rapporto col sodale Giorgio Diritti (“Dedizione: è la parola chiave di Giorgio per ogni suo progetto di film. È ciò che lui chiede ai suoi collaboratori. Sceneggiare per e con lui, è un’esperienza totalizzante”), e quello, meno lineare, con Ermanno Olmi – troviamo sorprese come il taccuino di un viaggio in Amazzonia, pieno di osservazioni interessanti (occhi aperti e niente retorica) e particolari vividi: gli italiani d’Amazzonia; le giovani donne; il vescovo sboccato; i miti; la festa rituale del Boi Bumbà, una delle tante resurrezioni di animali benefici del mondo; il rito di passaggio della Tucandera (riflessione assolutamente in margine: nella realtà fisica noi non ci castreremmo a capriccio, “per allegria” – nella realtà culturale sì. Quanto male, ma quanto male, ci siamo fatti come popolo, insieme di generazioni, quando abbiamo abolito nel nostro mondo i riti di passaggio?).
È interessantissima la genesi nella vita reale della storia de Il vento fa il suo giro: il tentativo di far rivivere un paese alpino in decadenza che si infrange contro l’ostilità della gente locale – o almeno dei peggiori di loro (grande l’annotazione “È vero che le donne di Ostana sono di una perfidia spettacolare”), ma vincitori. Uno stesso carattere antiretorico si ritrova anche in Nadinot – Lettera a un amico, un soggetto non realizzato (“mai abbandonato veramente” dice Valla), o, altro progetto non realizzato, ne Il mezzo prete, un film tra documentario e finzione che dà dell’omosessuale (“due gay di montagna”) una visione diversa dal modello lacrimoso-arcadico di moda.
Naturalmente non manca nel libro il progetto per il film su Ligabue, poi realizzato (Volevo nascondermi) con la sceneggiatura di Valla e la regia di Giorgio Diritti. “Mi piace pensarlo come un fossile, un relitto dei giorni che furono all’inizio del genere umano (…) Come bestia Ligabue annusa l’aria. Come belva mostra i denti, gli artigli davanti alla tela, e l’azzanna. Ligabue si masturba. Toccarsi è godere. Impasta i colori con le mani…”. Sarebbe interessante (un bell’argomento per una tesi di laurea) fare uno studio sul rapporto tra questo primo abbozzo e il film.
C’è altresì un progetto su Hans Clemer, artista innovatore del secolo XVI, stabilitosi a Saluzzo, “grande artista ignoto per secoli”. Dovrebbe dipanarsi secondo due linee, una più classica con il narratore, una in cui “episodi e avvenimenti e opere della vita del pittore diventano visioni che si mostrano sullo schermo”. Chissà se riusciremo a vederlo?
Una sezione è dedicata a quello che, almeno oggi, è il film più noto di Fredo Valla, il bellissimo documentario di oltre tre ore (ma passano in un attimo!) sul catarismo Bogre – La grande eresia europea. Valla riflette sul film e ne rievoca l’origine, con la scoperta dei Bogomili in Bulgaria che, racconta, dalla conoscenza dei Catari in Occitania si dilatò a uno spazio vastissimo, sia geografico sia ideale.
Forse soprattutto – mi perdoni il lettore questo tuffo nella soggettività – ho amato di questo libro le Pagine sparse, che fanno l’effetto di fogli volanti portati dal vento. E allora, il bellissimo Soffiare sul fuoco che parla dei “cicli del tempo degli uomini” e si situa su quello scivoloso crinale tra passato e presente/futuro che Valla sente come una pressante sfida esistenziale. La sfida fra passatismo conservatore, inevitabilmente “antiquario”, e fiducia nella forza della tradizione vivente, della lingua e della cultura locale, in senso democratico. Valla esprime il suo esserci con la necessità di continuare a “soffiare” – che se non vado errato è parente stretta del “dire la propria messa ogni giorno” di un film che amo molto, il bergmaniano Luci d’inverno.
O il magico Storie del Po, che segue il fiume ed è, nelle sue quattro pagine, un documentario di Fredo Valla su carta. Dettagli memorabili come la lista dei toponimi di origine animale (uno vorrebbe vederli, la roca di ciat, la rocca dei gatti, la funtana dla vurp, la fontana della volpe, il pra da lu, il prato del lupo), oppure le storie fantastiche di gatti e di masche (la disavventura che toccò alla Masca del Po, che rubava i gatti morti). C’è sempre nel realismo di Valla un côté fantastico e notturno.
E poi, l’incontro di rito e storia, di festa pagana e sovrascrittura cristiana, nelle feste delle valli, le Baie, in Rito e storia. In Valla (“smarrito nella modernità”, dice di sé in un punto) prende una dimensione urgente la dimensione locale: la lingua, le abitudini, la memoria, in lotta contro la marcia del tempo che appiattisce.

giovedì 12 giugno 2025

Ballerina

Len Wiseman

All’uscita di Ballerina di Len Wiseman (spin-off della serie John Wick), bastava leggere la stroncatura in puro stile anni Settanta di Porro sul Corriere della sera per capire che si tratta di un bel film. E infatti Ballerina è senz’altro bello, anche se inferiore all’ultimo film (il quarto) della “serie madre”, film geniale nel ripercorrere la storia del cinema popolare attraverso la geografia dei viaggi di John Wick. Sul piano temporale il presente spin-off si situa tra il terzo e il quarto film della serie.
Un’inquadratura ci dice tutto sul programma del regista (e dei produttori, fra cui Keanu Reeves). Quando Eve (Ana de Armas) fa fuori un avversario spaccandogli la testa a colpi di telecomando, naturalmente a ogni colpo vediamo cambiare il film sul grande televisore della stanza, e l’ultimo è una citazione decisiva: è Io... e il ciclone (1928) di Buster Keaton, il re della geometria cinematografica, quando la facciata della casa gli crolla addosso ma lui si salva perché sta esattamente dove cade il riquadro vuoto di una finestra. Ballerina (e tutta la serie John Wick) si basa su un’idea del cinema d’azione come pura geometria, non semplice balistica. I suoi percorsi e movimenti sono così belli che per trovarne di simili bisogna riandare con la memoria al vecchio cinema di Hong Kong – non per nulla, una delle cinematografie cui rende omaggio John Wick 4. In Ballerina, basta pensare alla splendida scena delle bombe a mano: geometria cinetica pura, e per l’appunto un gioco di spazi e di movimenti degno di Jackie Chan. I film di John Wick sono un’accumulazione di geometrie, e non solo sul piano dei combattimenti: Ballerina si basa su un sistema di raddoppiamenti sia nella diegesi (due padri fuggitivi, due bambine portate via, due sorelle combattenti, due progetti del nemico) sia nella definizione dei personaggi (Eve è un doppio di John Wick, che appare nel finale a rendere più chiaro come le loro storie di individualismo ribelle si riflettano l’una nell’altra).
C’è una folle esagerazione, certamente, in questi scontri (comprendente perfino l’uso intensivo di un lanciafiamme). Tutta la serie John Wick – andando naturalmente in crescendo – è basata su un “barocchismo guerriero” in confronto al quale la serie concorrente Mission: Impossible è neorealismo. Chi non ricorda la scalinata di John Wick? La sfida della serie è di costruire un’illusione credibile attraverso il godimento della visione, nel che rientra l’abile costruzione di un immaginario para-mitologico: l’indimenticabile hotel Continental e le varie organizzazioni criminali, in primo luogo la Ruska Roma di Anjelica Huston, col suo carico di riti, simbologie e ferrei codici (ove i film materializzano un mito, quello dei “banditi d’onore”, antecedente al cinema stesso, presente nel feuilleton, e ancor prima).
I film di John Wick sostituiscono al fato (non a caso invocato solo dal villain Gabriel Byrne) la responsabilità, in un rigido sistema di rules e consequences. Nella sua relativa semplicità rispetto agli altri film, Ballerina indica bene come l’origine profonda del cinema di John Wick, con la sua ossessione degli spari, non stia tanto nel thriller/noir quanto nel western. Se il noir si basa su un’ambiguità morale generalizzata, in John Wick e in Ballerina lo spettatore esulta nel vedere i cattivi mordere la polvere en masse. Con la loro divisione netta fra l’“io” del(la) protagonista combattente e il “loro” dei nemici, senza alcuna negoziazione (quando il nemico crolla a terra ferito non bisogna trascurare l’ultimo colpo), questi film fanno propria la dura morale euclidea del western: la distanza più breve fra due punti è la linea retta di una pallottola.

domenica 8 giugno 2025

Scomode verità

Mike Leigh

Il mistero della malattia mentale. Da dove deriva? Da qualche misteriosa perturbazione nell’equilibrio biochimico del nostro corpo? Da una maledizione genetica? O da traumi vissuti che hanno lasciato il segno? O dobbiamo ricorrere al frusto “È colpa della società”?
Mike Leigh è un umanista e un realista (un realismo non retorico, nemmeno accompagnato da toni predicatori come a volte in Ken Loach). In Scomode verità, che parte in modo faticoso ma poi si eleva a un’autentica altezza drammatica, Leigh mostra la vita di due famiglie della piccola borghesia nera di origine giamaicana attraverso il personaggio di Pansy (moglie e madre nell’una, sorella e zia nell’altra) – che, come dice una nipote, “è fuori di testa”. Non è pericolosa ma è insopportabile. Accanto all’ossessione della pulizia della casa e a fobie varie, dagli insetti alle volpi, ha un’aggressività (verbale) costante: in casa, sono continue rampogne a marito e figlio; fuori di casa, sono litigi illogici, da black comedy, con tutti, dai medici alle commesse. La rabbia continua e irrazionale di Pansy, che risale a una triste infanzia, è ovviamente la proiezione su gli altri del suo stare male (“Sto male”: è il lamento classico del malato di mente: tutto deve girare intorno a lui e al suo vittimismo astioso). “Voglio che tutto si fermi”.
Leigh non ci dà né faticose spiegazioni didattiche all’italiana né forzati happy ending alla hollywoodiana. Il suo film racconta una scomoda verità: quando il “male di vivere” trionfa in una persona, non c’è molto da fare se non soffrire. A livello conscio, si soffre con lei; a livello inconscio, si soffre a causa di lei. Il film descrive magnificamente il dolore frustrato della sorella Chantelle, che cerca di stare vicina a Pansy, mentre il marito Curtley si chiude in un silenzio rassegnato (tanto che a un certo punto un gesto privato e solitario di rabbia ci colpisce come uno schiaffo) e il figlio grasso e depresso Moses si isola dal mondo (e viene bullizzato quando esce in strada). C’è un’agghiacciante veridicità nella scena della riunione di famiglia nel giorno della “festa della mamma”, con Pansy che siede cupamente muta in mezzo ai familiari, non estraniandosi, in realtà, ma facendo colare sugli altri il suo malessere ostile.
È una situazione bloccata, che trova un’illustrazione simbolica – attenzione, spoiler! – nel tragico finale. Curtley si è fatto male alla schiena sul lavoro, si è fatto portare a casa dal suo aiutante Virgil e ora è immobilizzato su una sedia in cucina. Ma Pansy è bloccata dai suoi fantasmi al piano di sopra e non vuole/non può scendere. Sulla guancia di Curtley scende una lacrima.
Scomode verità potrebbe essere il film più nero di Leigh, perché ci mette di fronte all’implacabilità del dolore senza rimedio – senza neppure quell’ottimismo implicito del “tirare avanti” su cui Leigh ha costruito tanta parte del suo cinema. La triste conclusione è solo leggermente illuminata da una tenue sottilissima speranza, affidata a una caramella – ma nella generazione seguente (Moses).
Mike Leigh è famoso per il suo paziente lavoro con gli attori, spesso suoi regulars; qui è magnifica Marianne Jean-Baptiste, già apparsa nel suo Segreti e bugie; ma vanno menzionati almeno Michele Austin come Chantelle, David Webber come Curtley e Tuwaine Barrett come Moses.
A un certo punto del film, per bocca di Virgil, sentiamo parlare di Haydn: il compositore della leggerezza e della precisione. Nessuno ci leva dalla testa che sia un omaggio segreto di Leigh a se stesso, ovvero al proprio programma di regista: perché le sue grandi doti sono le stesse. In scene potenti e autentiche, come la visita al cimitero e la riunione familiare già citata, Leigh tocca in maniera impressionante la realtà dei rapporti umani, senza infingimenti ma allo stesso tempo con una profonda pietas – che ci mostra anche nell’inavvicinabile Pansy una straziata umanità.

sabato 31 maggio 2025

La trama fenicia

Wes Anderson

C’è un metodo nella sua follia”: quando Shakespeare scrisse questa frase, di sicuro pensava profeticamente a Wes Anderson. Il pazzo e geniale regista americano ritorna, per far incazzare metà pubblico e farsi adorare dall’altra metà, con La trama fenicia. Nel film, un milionario senza scrupoli (dal nome doppiamente cinematografico di Zsa-zsa Korda) è comicamente soggetto a continui attentati (neanche in un thriller Benicio Del Toro sanguina tanto quanto in questo film!) che mirano a sabotare un suo piano edilizio/finanziario. Nomina sua futura erede la figlia Liesl (Mia Threapleton, sublime), abbandonata in convento a 5 anni, che sta per farsi suora. Assieme a lei si lancia nel tentativo di salvare il progetto, dal quale dipende la sua fortuna. Compare anche un bizzarro aldilà (un Paradiso dove Zsa-zsa viene processato, non a fine film) in bianco o nero.


Tutti i film di Wes Anderson presentano una banda di personaggi bizzarri, disfunzionali, sconclusionati. Sorretto dall’impassibilità “keatoniana” di molte di queste figure, il cinema di Anderson è un’antologia di storie impossibili, dove si apprezza in prima battuta l’umorismo eccentrico. Indimenticabile, qui, “Gradisce una bomba a mano?”, il tormentone delle granate educatamente offerte a ogni incontro.
Non cercate di decifrare il senso dell’operazione finanziaria del milionario (ovvero, non cercate di dipanare la “trama fenicia”). Il cinema di Anderson è popolato di piani assurdi e incomprensibili (che peraltro spesso funzionano – laddove il controllo ossessivo, pallino di molti personaggi fra cui Zsa-zsa, fallisce sempre). Il vero argomento di Anderson è un altro: la mancanza e il suo superamento. È un cinema di orfani, in senso proprio o figurato, come Liesl, che ha al centro una disgregazione, una ricorrente perdita della figura paterna per mancanza o allontanamento o incapacità, una frattura della famiglia (I Tenenbaum, cronaca di un divorzio come dolore da riassorbire, o Il treno per il Darjeeling, con la morte del padre e l’abbandono della madre, per non parlare del capolavoro Moonrise Kingdom, e così via). Il fare i conti con il dolore – e la ricerca della ricomposizione. Ricomposizione è (anche qui) la parola chiave di Wes Anderson. Specialmente ricomposizione familiare; e il pensiero corre alla misteriosa scatola sigillata lasciata in eredità dal nonno (ma, tipicamente per Anderson, non è il MacGuffin dell’intreccio), che quando viene aperta non contiene segreti ma ricordi di famiglia. Così, è centrale la necessità della ricomposizione con se stessi – e quindi la rinascita. Anche, naturalmente, nel finale del presente film.
La trama fenicia è particolarmente mosso. La scansione narrativa a tappe (le varie persone da convincere) è molto congeniale al cinema di Anderson, che ama la successione di “quadretti” in sequenza (il primo esempio che mi viene in mente: i vagoni del treno di Darjeeling); ma qui essa si piega e si distorce sotto l’impulso di una fantasia di avventura. La faticosa ricerca di Zsa-zsa culmina nella presentazione agli astanti (e a noi) di un grande modellino dell’opera; ed è normale strategia comunicativa nel mondo degli affari; tuttavia non riusciamo a sottrarci al pensiero irrazionale che lo scopo della “trama fenicia” sia lo stesso del cinema di Wes Anderson: produrre modellini.

La radice del suo cinema è grafica. Classificatore per eccellenza, Anderson riempie i suoi film di inventari, di accurati appunti e scritture, di quadri, di copertine di libri e di dischi. In questo film pieno di dipinti le quote dello “schema fenicio” sono esposte in forma di scatole da scarpe ordinatamente disposte su un tappeto (come ha scritto Ilaria Feole in una bellissima recensione, “c’è sempre più Greenaway, nel regista texano”). In tutti i suoi film ci sono questi accumuli di materiali – rigorosamente disposti in bella vista, ma spesso “bruciati” in pochi secondi di visione. Non a caso Anderson ama trarre libri illustrati dal suo lavoro cinematografico. Poeta e giocoliere, crea un cinema immediatamente riconoscibile sul piano visivo, per il quale è obbligatorio richiamare i concetti gemelli di illustrazione e di fumetto. Vedi per esempio l’inquadratura perpendicolare, “a piombo”, di Zsa-zsa nella vasca da bagno in una grande stanza, assistito dalle infermiere – un’inquadratura che è del tutto esterna alla logica della fotografia cinematografica: è fumettistica.
Quando parlo di fumetto non intendo il fumetto americano attuale, fratturato nelle vignette in modo piuttosto isterico, ma quello americano classico, con quadretti ben delineati – un nome che mi sento di fare, e che di sicuro Anderson conta fra le sue basi culturali, è quello “arcaico” di Winsor McCay. Però i film andersoniani ricordano anche, sia per la concezione grafica sia per quell’impressione di ordine e pulizia, la ligne claire francese-belga. E naturalmente molte classiche copertine di riviste alla New Yorker, Saul Steinberg in primo luogo. La cura delle composizioni, la tendenza all’inquadratura centrata, le sue figurette bizzarre e irreali, la particolarità dei colori: tutto ciò crea un’inconfondibile astrazione figurativa.
Non può stupire che mezza Hollywood sgomiti per fare un cameo nei suoi film (anche La trama fenicia è un Gotha di nomi hollywoodiani, ma elencarli implicherebbe troppo tempo – così, per ovvii motivi di reverenza, mi limito a menzionare Bill Murray nella parte di Dio). A parte il lustro intellettuale, che però varrebbe anche per altri registi, è l’astrazione che la vince: è come diventare personaggio di un fumetto senza l’incombenza di farsi disegnare. Entrare col proprio corpo fisico in un quadro fantastico. Wes Anderson costruisce le immagini con la stessa maniacalità di un diorama.