Simon Curtis
Nessuno
fra noi appassionati di Downton Abbey potrà fare a meno di metter
mano al fazzoletto in alcuni momenti dell’agile e bel film che
conclude la lunga saga di Julian Fellowes, Downton Abbey – Il gran
finale diretto da Simon Curtis, dopo sei stagioni tv e tre
lungometraggi che spaziano dal 1912 al 1930. Ci si commuove in
quest’addio: addio non ai personaggi in sé (non muore nessuno come
Lady Violet nel secondo film; la dipartita della madre americana di
Lady Cora è solo comunicata nel dialogo) ma al loro mondo. Senza
fare eccessivi spoiler, Downton Abbey – Il gran finale è una serie
di uscite di scena, pensionamenti e trasferimenti.
La
saga televisivo-cinematografica tratteggia con precisione quasi
marxista la decadenza economica dell’aristocrazia terriera inglese.
Deliziosa nel presente film la scena in cui Lord Grantham (Hugh
Bonneville), dovendo vendere il palazzo di Londra perché troppo
costoso, va con la figlia Lady Mary a esaminare un appartamento
londinese da acquistare in cambio, ma si stupisce all’idea di avere
dei vicini al piano di sopra e a quello di sotto. “È una specie di
torta millefoglie farcita di estranei”. Alle origini di Downton
Abbey – passando per il lavoro di Fellowes con Robert Altman
(Gosford Park) – ci sono due grandi esempi: Jean Renoir con La
regola del gioco e il novel of manners inglese risalendo “per li
rami” a Jane Austen. Sintomatico che Jean Renoir parli di
separazioni, Jane Austen di unioni. In questa serie così attenta
alla dialettica fra continuità e innovazione, è fondamentale la
centralità della famiglia – legata alla grande casa che dà il
titolo. Anzi, di una doppia famiglia, quella dei nobili e quella
seconda famiglia subordinata che è la servitù. Che, com’è noto,
può essere ancora più snob dell’originale: più di tutti
il maggiordomo Carson (Jim Carter) che anche qui ha
alcune delle sue classiche uscite.
Nel
presente film, Lady Mary (la meravigliosa Michelle Dockery) si trova
a essere ridotta a un’outcast nell’ambiente dell’aristocrazia a
causa del suo divorzio da Henry Talbot (che già nel secondo film non
appariva, con la scusa di un viaggio). Intanto la condizione
economica va di male in peggio (scherza sua sorella Edith: “Metà
del contante è già sfumato, e il tuo vestito ha fatto il resto”).
A salvare se non altro la situazione sociale di Mary appare come deus
ex machina nientemeno che Noël Coward (interpretato da Arty
Froushan). Il film si apre sulla sua operetta Bitter Sweet, e durante
la sua visita a Downton Abbey gli sentiamo descrivere il progetto di
Cavalcade; per di più, graziosa novità di storia letteraria, è
proprio a Downton Abbey che gli viene l’ispirazione e gli viene
suggerito il titolo per la sua futura commedia Private Lives.
Deus
ex machina: questo termine di origine teatrale casca assai bene nel
contesto, perché Julian Fellowes approfitta dell’episodio finale
per realizzare garbatamente il suo exegi monumentum mediante discreti
tocchi metanarrativi. Il titolo del film appare sulla vasta
inquadratura di una platea plaudente a fine spettacolo;
quando la cuoca Mrs. Patmore dice a Daisy che “le nostre vite sono
divise in capitoli… ogni volta che si chiude un capitolo se ne apre
un altro”, in questa metafora di normale saggezza quotidiana è
evidente il riferimento di Fellowes alla serialità televisiva;
infine, a un certo punto Mr. Molesley dice – significativamente, guardando in macchina – che gli sceneggiatori come lui sono i veri autori dei film.
In
verità Fellowes restituisce l’omaggio verso la fine, quando
Molesley dice di aver imparato che gli sceneggiatori non vanno da
nessuna parte senza gli attori. È proprio vero; a creare la calda
attrattiva di Downton Abbey sono in egual modo la genialità
inventiva di Fellowes (nelle caratterizzazioni prima ancora che nella
peripezie) e la felicità delle interpretazioni di un cast
formidabile. Grazie a questa combinazione – impreziosita da battute
da grande commedia inglese (quella su Agatha Christie è fulminante)
– tornare a vedere Downton Abbey in tv o al cinema è un autentico
homecoming, un ritorno a casa.
Questi
discorsi su sceneggiatura e interpretazione non intendono mettere in
ombra l’abile lavoro del regista Simon Curtis. Bella quella luce
commossa che avvolge Lord e Lady Grantham mentre vanno via! La
narrazione è fluida, la messa in scena è capace: il ritratto di
Lady Violet (Maggie Smith, cui il film è dedicato) nella grande sala
ha una centralità da personaggio assente-ma-presente (anche
comparendo in un caso a chiudere una scena in sintonia col commento
musicale); ed è ottima l’inquadratura nel pre-finale in cui Lady
Mary, l’erede, compare da sola col ritratto alle spalle, prima
dell’entrata del montaggio di ricordi in flashback. Poi Mary esce
di scena e la mdp mette simbolicamente il ritratto al centro; qui appare la dedica.
Così
il film fa calare la tela su Downton Abbey, e vediamo – mentre
scorrono i titoli di coda – la prosecuzione delle vita private dei
protagonisti, provando quel sentimento agrodolce che si prova alla
fine della lettura dei vecchi romanzi, quando l’autore o l’autrice
ci racconta in poche righe il “dopo” delle vite che ha fatto
vive. “Long live Downton Abbey!”, esclama Lady Mary alla fine
salutando Edith che parte; al che Edith risponde “Amen to that”.