sabato 20 settembre 2025

Duse

Pietro Marcello

Non andremo a cercare l’esattezza storica in Duse di Pietro Marcello, racconto degli ultimi anni di Eleonora Duse (che poi morì in tournée a Pittsbugh). Per quella, conviene rifarsi al recente ottimo documentario Duse – The Greatest di Sonia Bergamasco. Pietro Marcello fa un cinema estremo, nel senso della massima espressività; trasporta le sue storie in una dimensione immaginosa, con tratti quasi fantastici (vedi in Martin Eden l’incrocio fra il primo Novecento e la temperie degli anni Cinquanta e Sessanta) che creano il fascino della sua opera. Nella storia di Eleonora Duse (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi), gravemente malata, finanziariamente in rovina, in rotta con la figlia, Marcello si rifà agilmente alle forme del melodramma, con abbondanza di primissimi piani assai ravvicinati; ma il film parte dall’attrice per tracciare una sorta di “ritratto dell’artista nell’epoca” al di là (o almeno, ai limiti) della dimensione del biopic. Debitore alle sue origini documentaristiche, l’autore interlinea il racconto con documenti filmati, in primis il viaggio in treno verso Roma della bara contenente i resti del Milite Ignoto, ma non solo. C’è una dialettica controllata fra il documento e la messa in scena che raggiunge un interessante punto di tensione quando a un discorso di Gabriele D’Annunzio risponde il controcampo della tetra foto di una folla di squadristi con abbondanza di pugnali tra i denti.
Com’è noto, della recitazione della Duse abbiamo in pratica solo testimonianze indirette, e delle foto (più, ma fuori dal campo teatrale, il film Cenere del 1916). Si direbbe che anche il presente film tenda a mantenere questa assenza. Vi ha grande prevalenza la Duse fuori dal palcoscenico; in teatro solo una bella scena ha importanza, che la vede in veste di regista/insegnante con una giovane attrice.
In quello che abbiamo chiamato il cinema estremo (e molto personale) di Pietro Marcello accade che anche i difetti – come, fra i personaggi, un Memo Benassi troppo caricato o un D’Annunzio francamente deludente – vengano in qualche maniera “assorbiti” dall’insieme.

sabato 13 settembre 2025

Downton Abbey - Il gran finale

Simon Curtis

Nessuno fra noi appassionati di Downton Abbey potrà fare a meno di metter mano al fazzoletto in alcuni momenti dell’agile e bel film che conclude la lunga saga di Julian Fellowes, Downton Abbey – Il gran finale diretto da Simon Curtis, dopo sei stagioni tv e tre lungometraggi che spaziano dal 1912 al 1930. Ci si commuove in quest’addio: addio non ai personaggi in sé (non muore nessuno come Lady Violet nel secondo film; la dipartita della madre americana di Lady Cora è solo comunicata nel dialogo) ma al loro mondo. Senza fare eccessivi spoiler, Downton Abbey – Il gran finale è una serie di uscite di scena, pensionamenti e trasferimenti.
La saga televisivo-cinematografica tratteggia con precisione quasi marxista la decadenza economica dell’aristocrazia terriera inglese. Deliziosa nel presente film la scena in cui Lord Grantham (Hugh Bonneville), dovendo vendere il palazzo di Londra perché troppo costoso, va con la figlia Lady Mary a esaminare un appartamento londinese da acquistare in cambio, ma si stupisce all’idea di avere dei vicini al piano di sopra e a quello di sotto. “È una specie di torta millefoglie farcita di estranei”. Alle origini di Downton Abbey – passando per il lavoro di Fellowes con Robert Altman (Gosford Park) – ci sono due grandi esempi: Jean Renoir con La regola del gioco e il novel of manners inglese risalendo “per li rami” a Jane Austen. Sintomatico che Jean Renoir parli di separazioni, Jane Austen di unioni. In questa serie così attenta alla dialettica fra continuità e innovazione, è fondamentale la centralità della famiglia – legata alla grande casa che dà il titolo. Anzi, di una doppia famiglia, quella dei nobili e quella seconda famiglia subordinata che è la servitù. Che, com’è noto, può essere ancora più snob dell’originale: più di tutti il maggiordomo Carson (Jim Carter) che anche qui ha alcune delle sue classiche uscite.
Nel presente film, Lady Mary (la meravigliosa Michelle Dockery) si trova a essere ridotta a un’outcast nell’ambiente dell’aristocrazia a causa del suo divorzio da Henry Talbot (che già nel secondo film non appariva, con la scusa di un viaggio). Intanto la condizione economica va di male in peggio (scherza sua sorella Edith: “Metà del contante è già sfumato, e il tuo vestito ha fatto il resto”). A salvare se non altro la situazione sociale di Mary appare come deus ex machina nientemeno che Noël Coward (interpretato da Arty Froushan). Il film si apre sulla sua operetta Bitter Sweet, e durante la sua visita a Downton Abbey gli sentiamo descrivere il progetto di Cavalcade; per di più, graziosa novità di storia letteraria, è proprio a Downton Abbey che gli viene l’ispirazione e gli viene suggerito il titolo per la sua futura commedia Private Lives.
Deus ex machina: questo termine di origine teatrale casca assai bene nel contesto, perché Julian Fellowes approfitta dell’episodio finale per realizzare garbatamente il suo exegi monumentum mediante discreti tocchi metanarrativi. Il titolo del film appare sulla vasta inquadratura di una platea plaudente a fine spettacolo; quando la cuoca Mrs. Patmore dice a Daisy che “le nostre vite sono divise in capitoli… ogni volta che si chiude un capitolo se ne apre un altro”, in questa metafora di normale saggezza quotidiana è evidente il riferimento di Fellowes alla serialità televisiva; infine, a un certo punto Mr. Molesley dice – significativamente, guardando in macchina – che gli sceneggiatori come lui sono i veri autori dei film.
In verità Fellowes restituisce l’omaggio verso la fine, quando Molesley dice di aver imparato che gli sceneggiatori non vanno da nessuna parte senza gli attori. È proprio vero; a creare la calda attrattiva di Downton Abbey sono in egual modo la genialità inventiva di Fellowes (nelle caratterizzazioni prima ancora che nella peripezie) e la felicità delle interpretazioni di un cast formidabile. Grazie a questa combinazione – impreziosita da battute da grande commedia inglese (quella su Agatha Christie è fulminante) – tornare a vedere Downton Abbey in tv o al cinema è un autentico homecoming, un ritorno a casa.
Questi discorsi su sceneggiatura e interpretazione non intendono mettere in ombra l’abile lavoro del regista Simon Curtis. Bella quella luce commossa che avvolge Lord e Lady Grantham mentre vanno via! La narrazione è fluida, la messa in scena è capace: il ritratto di Lady Violet (Maggie Smith, cui il film è dedicato) nella grande sala ha una centralità da personaggio assente-ma-presente (anche comparendo in un caso a chiudere una scena in sintonia col commento musicale); ed è ottima l’inquadratura nel pre-finale in cui Lady Mary, l’erede, compare da sola col ritratto alle spalle, prima dell’entrata del montaggio di ricordi in flashback. Poi Mary esce di scena e la mdp mette simbolicamente il ritratto al centro; qui appare la dedica.
Così il film fa calare la tela su Downton Abbey, e vediamo – mentre scorrono i titoli di coda – la prosecuzione delle vita private dei protagonisti, provando quel sentimento agrodolce che si prova alla fine della lettura dei vecchi romanzi, quando l’autore o l’autrice ci racconta in poche righe il “dopo” delle vite che ha fatto vive. “Long live Downton Abbey!”, esclama Lady Mary alla fine salutando Edith che parte; al che Edith risponde “Amen to that”.