domenica 15 maggio 2016

Far East Film Festival 2016


I fuochi sono spenti, Godzilla è tornato a dormire, ospiti e accreditati sono andati via, e insomma il FEFF 2016, il diciottesimo, è finito. Al Centro Espressioni Cinematografiche cominciano già a circolare le magiche parole “FEFF 19”. Ma intanto, qualche nota sui film dell'edizione appena conclusa… quelli che ho visto, ovviamente, perché la lineup ogni anno è più ricca, e non si può vedere tutto.

Hong Kong - la culla del FEFF. Il festival ha avuto due clou cogli ospiti: uno col grande regista giapponese Obayashi Nobuhiko e uno quando è salito sul palco nientemeno che Sammo Hung. Il suo ritorno alla regia The Bodyguard è un film sulla vecchiaia come stanchezza del corpo - il protagonista (Sammo, ça va sans dire) è un anziano combattente in ritiro, ancora imbattibile ma che soffre di senilità e dimentica tutto - ma anche come elegia del cinema hongkonghese di kung fu, che forse appartiene al passato, forse è una stagione irripetibile sul viale del tramonto – non a caso compaiono in cameo vecchi grandi volti del cinema hongkonghese. Ma il kung fu di Sammo è sempre grande, anche se deve affidarsi molto al montaggio.
E' orientato al passato, trattandosi di un biopic, anche Ip Man 3, il terzo capitolo della mega-biografia di Ip Man diretta da Wilson Yip e interpretata da Donnie Yen. Un film piacevole, non il migliore della serie; non sono molto amalgamate le due storie, prima con Donnie Yen e Zhang Jin contro una banda di criminali, poi in rivalità fra loro per il titolo di Grandmaster dello stile wing chun. Ma affascina un combattimento di Ip Man con un sicario thailandese, prima dentro un ascensore e poi per le scale. E poi, Mike Tyson è un grande e vedere i suoi pugni contro il kung fu di Donnie Yen vale da solo il prezzo del biglietto.
Non ho ancora visto Trivisa, prodotto da Johnnie To montando insieme tre storie di tre giovani registi differenti. Ma il film hongkonghese più importante è stato il coraggioso e polemico Ten Years (vedi scheda sotto).
Coraggioso è anche The Mobfathers, uno dei film migliori di Herman Yau, regista molto prolifico (anche troppo: la sua produzione è molto disuguale, come sa chi ha visto il recentissimo Nessun Dorma). Racconta del piccolo boss delle triadi Chapman To in lotta per l'elezione a Dragon Head solo che il diabolico super-padrino (un memorabile Anthony Wong coi capelli lunghi e il bastone col pomo a teschio) trama in segreto. Nella descrizione delle elezioni manovrate da chi comanda, non è chi non veda un riferimento che van ben oltre la politica interna delle triadi!

Cina continentale una sezione che ho seguito poco. Davvero modesto Mojin: The Lost Legend di Wuershan; film tratto da un romanzo di Tianxia Bachang piuttosto sfortunato, visto contemporaneamente ne è stato tratto un altro film bruttino e fortemente derivativo, Chronicles of the Ghostly Tribe di un irriconoscibile Lu Chuan, che non è stato selezionato per il festival - ma tra i due non si saprebbe quale scegliere.
Ci si può consolare con Chonqing Hot Pot di Yang Qing: non un capolavoro, ma di livello ben superiore. Tre sfigati padroni un ristorante in perdita scavano una galleria per allargarlo e finiscono nel caveau di una banca. C'è un sacco di soldi, ma non vogliono prenderli e sparire perché dovrebbero abbandonare le famiglie. Ma arriva la rapina alla stessa banca di un gruppo di banditi mascherati… Sarà per alcuni un pregio, per altri un difetto (paradossalmente, è un po' l'uno e un po' l'altro) la caratteristica principale del film: ovvero il tentativo di “avviluppare” la storia in una confezione più o meno artistica, con ellissi e ritorni temporali (come un Kubrick, The Killing, annacquato). Ma ci si diverte, e la fotografia presenta belle inquadrature di Chongqing (non solo “turistiche”: notevole una visione di appartamenti-formicaio).
Saving Mr. Wu di Ding Sheng è un discreto thriller, interessante specialmente per il suo aspetto metacinematografico (Andy Lau nella parte di se stesso, a parte il nome, rapito da cattivissimi criminali locali!). Molto migliore The Dead End di Cao Baoping, la vicenda di tre uomini che hanno commesso un crimine sette anni prima, e cercano di espiare. Il nuovo capo della polizia, pur provando dei sentimenti verso uno dei tre che è diventato un bravo poliziotto, arriva alla verità e alla punizione. Il concetto – espresso all'inizio da una voce fuori campo scandita con i tipici toni solenni che ci sono familiari dai film storici cinesi – è che non si sfugge alla colpa.
Taiwan della “terza Cina”, ho visto solo un buon horror intelligente, The Tag-Along di Vic Cheng Wei-hao, su uno spirito della foresta (un mosien, un incrocio fra una scimmia e una bambina) che possiede una dietro l'altra varie persone a Taipei. Forse è un po' lento a mettersi in moto, ma poi trova i suoi punti di forza, e il climax nella foresta è senz'altro buono. Il messaggio sottinteso – l'importanza dei legami familiari e di crearne di nuovi – non è invasivo.

Giappone che resta sempre la miglior cinematografia del cinema asiatico. Okita Shuichi, una vecchia conoscenza del festival, non smentisce le sue capacità con The Mohican Comes Home, che si è piazzato al terzo posto nel premio del pubblico, ma forse avrebbe meritato il primo (vedi scheda sotto).
Di altissimo livello è l'amaro Three Stories of Love di Hashiguchi Ryosuke. Il film costruisce la sua narrazione come a mosaico, dove bisogna pensare a quei mosaici fotografici fatti di migliaia di piccoli frammenti di foto che insieme compongono una figura. Qui tre, corrispondenti ai tre amori del titoli (il terzo viene rivelato nel finale). L’analogia va chiarita nel senso che qui sono piccoli frammenti di vita, “lampi di esistenza”, assemblati in un modo che è all’inizio volutamente enigmatico (vedi l’apertura che pare un’intervista, sembra cinéma-vérité) – ma poi a poco a poco collegandosi compongono un quadro chiaro e commovente. Condizione della forma narrativa scelta, cioè la frammentazione, sono il carattere breve dei frammenti e la bruschezza della conclusione di essi, che è improvvisa, imperativa, spesso ellittica. Questa forma di racconto crea una continuità di tipo ipnotico: si crea un’“affezione” ai personaggi, quella richiesta da qualunque film, in modo originale e, in qualche modo, potenziato. Inoltre il procedimento consente al regista e sceneggiatore Hashiguchi di accumulare “lampi” (riprendo il termine usato sopra) di una visione generale una visione viva, e fondamentalmente pessimistica, del Giappone.
Ancora tra i film migliori si segnala l'horror Creepy, prima partecipazione al FEFF di Kurosawa Kiyoshi (vedi scheda sotto).
Molto buono è Hime-Anole di Yoshida Keisuke. Un po' come Jonathan Demme in Qualcosa di travolgente (Something Wild), Yoshida parte in chiave di commedia e poi la rovescia in dramma thriller (peraltro le uccisioni del serial killer Morita, pur assai grisly e realistiche, mantengono un sottofondo di feroce buffoneria alla Kitano Takeshi). Così, un gioco degli equivoci in chiave comica (il protagonista Hamada Gaku, come si vede almeno da una scena, ha studiato l'arte interpretativa di Stan Laurel) si ribalta completamente in chiave nerissima.
Da citare anche Lowlife Love di Yoshida Keisuke, bel film con toni di commedia sul filmmaking come passione vitale ("Fare cinema è come innamorarsi di una puttana da strapazzo... Però non possiamo mica lasciarla sola, quella puttana, giusto?"), centrato su un regista indipendente disoccupato, che è libertino e prepotente nella vita quanto sfortunato, per il suo caratteraccio, nel lavoro. Attorno a lui una vivace descrizione dei suoi collaboratori, delle sue attrici (pronte a scopare in cambio di una parte) e di tutto un mondo cinematografico cialtronesco e assatanato. Un'inquadratura a un certo punto ricorda Imamura - e fa riflettere che, in fondo, tutto il film ha un sapore un po' alla Imamura, anche se naturalmente non raggiunge la sua altezza.
Nakamura Yoshihiro (l' autore dell'ottimo Fish Story) ci offre il notevole horror The Inerasable. Il suo forte impatto non deriva solo dall'ottima regia di Nakamura, che mantiene la narrazione più sul suggerito che sul mostruoso; deriva dalla costruzione stessa della storia, sceneggiata dal regista da un romanzo di Ono Fuyumi. Se all'origine delle storie di fantasmi c'è un torto sepolto, almeno in Occidente siamo abituati a trovarlo in un singolo fatto da scoprire e riparare. Qui l'investigazione, condotta attraverso interviste, testimonianze, ricerche d'archivio, è un andare a ritroso nel tempo da un male all'altro: è un viaggio nel dolore, una catena di orrori in cui ogni anello rimanda a uno precedente, e sembra infinito.
Invece The Kodai Family di Hijikata Masato, tratto da un manga, è un film sentimentale, di spirito leggero. Parte come una commedia di ufficio, con l'impiegata Kie che ama sognare a occhi aperti e che si trova improvvisamente corteggiata da un vero e proprio principe azzurro: bello, ricco, gentile, e sembra leggerle nel pensiero. Ma è la verità: Kodai è telepatico, come pure i suoi fratelli. Le cose si complicano, prima perché la madre si oppone, poi quando è Kie ad avere dei dubbi... Il difetto del film è un uso oscillante della CGI: è straripante prima, quando dà corpo ai sogni a occhi aperti di Kie, poi praticamente sparisce, per tornare nel finale. Ma alcuni dettagli sono gustosissimi: cito un surreale sogno a occhi aperti sull'America, con le poche parole d'inglese che Kie conosce, pronunciate con accento giapponese; o un altro sogno in ambientazione da film in costume, alla Mizoguchi, con colori faded da pellicola di una volta.
Infine si può citare en passant un film agile, e divertente per l'ambientazione nel mondo degli autori di manga, quale Bakuman di One Hitoshi.

Coreail suo cinema non sarà più quello strepitoso tsunami artistico che ci aveva colpiti e commossi anni fa, ma si situa sempre a un livello assai buono. Non per nulla il festival è stato aperto e chiuso da due film coreani. Il primo è il notevole The Tiger di Park Hoon-jung, che ha destato qualche perplessità fra i critici coreani ma è un ottimo film; direi che è anche più bello di Revenant, al quale fa pensare per alcuni aspetti. Siamo nel 1925 e i giapponesi stanno sterminando tutte le tigri coreane; è rimasto un solo superstite, un maschio enorme e dall'intelligenza prodigiosa. Attorno a lui si intrecciano la vicenda del protagonista (Choi Min-sik) e di suo figlio, quella di un gruppo di cacciatori coreani e quella dei militari giapponesi intenzionati a uccidere la tigre. Non è un film di caccia, anche se ne ha l'emozione; insiste invece sull'analogia fra la tigre e il protagonista (entrambi hanno perso la famiglia in questa guerra fra uomini e belve), e sul rapporto complesso fra di loro che data da anni e si svela nel corso del racconto. Sebbene il film sia realistico, mantiene un sottofondo mistico in quanto la tigre rappresenta l'inaccessibile montagna coreana e per estensione la resistenza della Corea all'occupazione. Questa tigre non è un kami, è solo un animale molto forte e intelligente, ma lo è a livello simbolico; rischiava di diventare un'allegoria retorica ma invece è gestita con molta accortezza.
Il film di chiusura del festival è l'eccellente Sori: Voice from the Heart di Lee Ho-jae (vedi scheda sotto). Per pochi voti Sori non ha soffiato il primo posto nel premio del pubblico al compatriota A Melody to Remember di Lee Han, un'opera molto commovente sulla storia di due fratellini orfani, maschio e femmina, sperduti nella guerra di Corea e di un coro di bambini orfani messo su da un tenente musicista dell'esercito; ma con la formazione del coro non finiscono le traversie. Il film segue il principio di Charles Dickens di accumulare sventure (qui c'è perfino un losco affarista pedofilo che concepisce la bambina) finché non si risolvono in una conclusione positiva – qui, positiva ma dolente per i morti della guerra. Se il cinema coreano è già spietato in sé, figurarsi quando un dramma del genere viene messo in scena in modo duro come qui. Quando il cattivo/buono del film, chiamato Hook perché ha un uncino al posto della mano, approva la proposta di formare il coro e dice scherzando “Sarà uno strappalacrime”, questo è un momento (l'unico) di umorismo metanarrativo sul film. E' un po' anodina l'interpretazione dell'idol Yim Siwan (il tenente), mentre è già meglio Lee Hee-jun nel ruolo (però facile) di Hook. Ma in un film come questo le star sono i bambini, e naturalmente tutti colpiscono al cuore; in particolare la piccola Lee Re (la sorellina) è eccezionalmente convincente.
Sempre sul piano della commozione ma spostato sul versante comedy è il grazioso Making Family di Cho Jim-mo, in cui un genietto di nove anni, nato con l'inseminazione artificiale, vorrebbe avere una famiglia completa. Scopre chi è il suo padre biologico hackerando i computer della clinica e vola da solo dalla Corea alla Cina per trovarlo; il padre non vuole saperne di lui ma il bambino riesce a conquistare il suo affetto e metterlo insieme alla madre (che si è precipitata a cercarlo). E' una commedia vivace, piena di umorismo, dolce senza essere zuccherosa. Il piccolo attore Mason Moon ha una carica di spontaneità e simpatia estrema; l'inizio, dove serissimo mostra conoscenze da adulto sull'inseminazione artificiale parlando con un dottore sconvolto, è da antologia.
In Corea l'antipatia diffusa verso i politici prepotenti e corrotti (diamine, sembra l'Italia!) ha provocato un enorme successo di pubblico per lo splendido Inside Men di Woo Min-ho. Questo political thriller su un patto di corruzione intrecciato col gangsterismo, apparentemente invincibile, ha la compiutezza di esecuzione dei film migliori: grandi interpretazioni (Lee Byung-hun come gangster, Cho Seung-woo come prosecutor e Baek Yun-shik come mellifluo giornalista corrotto); una sceneggiatura molto efficace, con colpi di scena e rovesciamenti mai artificiosi; un dialogo vivace (grande la battuta ritornante sui Mojito e le Maldive!); una bellissima fotografia – basta vedere l'inizio nel panorama ultra-urbano con la presenza del mega-schermo fra i grattacieli – e che dire della moltiplicazione dei video nella scena culminante? Non è solo bella fotografia: Woo Min-ho ha una capacità rilevante di messa in scena che crea in ogni momento l'immagine giusta.
Meno incisivo ma pur sempre assai interessante The Exclusive: Beat the Devil's Tattoo di Roh Deok (lo strano sottotitolo, chi se lo chiedesse, è una citazione da una canzone heavy metal), un thriller che è al contempo una parodia passabilmente dark del sistema dell'informazione.
Mi spiace di aver perso The Silenced di Lee Hae-young, ma l'horror coreano è comunque ben rappresentato da The Priests di Jang Jae-hyon (vedi scheda sotto). Cito infine Assassination, di Choi Dong-hoon, un'epica avventurosa sulla resistenza coreana alla colonizzazione giapponese negli anni '30; Choi non è qui allo stesso livello del suo bellissimo The Thieves, ma provvede un piacevolissimo spettacolo. Solo passabile Wonderful Nightmare di Kang Hyo-jin, la cui cosa migliore è il grande caratterista Kim Sang-ho (presente anche in The Tiger) nel ruolo del direttore di un burocratico oltretomba.

Filippine di cui pochi film sono riusciti a superare l'affollata selezione di quest'anno, ma è uno dei migliori film filippini che io abbia avuto modo di vedere di recente Apocalypse Child di Mario Cornejo. E' un po' più spostato sul versante arthouse che su quello popular tipico del festival, ma non in modo marcato. E' girato a Baler, dove fu girata la scena del surf di Apocalypse Now (di qui il titolo), e tanto il surf quanto il ricordo del tournage del film di Coppola hanno un ruolo centrale. E' un film di atmosfera e di psicologie, fondato su una serie di “verità nascoste” (non per nulla si apre con l'evocazione dei miti e leggende di Baler, “assolutamente veri al 50%”) che girano intorno a cinque personaggi principali davvero ben scolpiti. La domanda principale è chi sia il vero padre del surfista Ford, un tipo che dire carefree è dir poco, come scoprono a loro spese le sue donne. Beninteso, Apocalypse Child non è una commedia, ma neppure un film tragico: si potrebbe definire, forse, un “dramma nascosto” nella sua costruzione da thriller dei sentimenti – quell'elemento misterioso che avvolge il film e che il finale dissipa solo in parte. Lo stile è elegante e sono affascinanti certi momenti di asincronia fra il dialogo e l'immagine (va segnalato il montaggio di Laurence S. Ang).

Thailandia – un cinema che offre sempre qualche buona sorpresa. Lascia il segno l'ottimo The Forest di Paul Spurrier (il regista è un inglese trapiantato in Thailandia e il film è interamente thai per ambiente, attori e troupe). Per questo film raffinato, girato a bassissimo budget, credo che il riferimento migliore possa essere Truffaut, non tanto per il concetto di “ragazzo selvaggio” quanto, più in generale, per lo sguardo amichevole e non privo di una compassione dolorosa sul mondo infantile. E' la storia di una bambina che non parla, soggetta a bullismo a scuola, che nella foresta fa la conoscenza di un ragazzino misterioso che vive e pare cresciuto lì. Ma niente di bucolico: il ragazzino uccide (e mangia) coloro che si avventurano nella foresta (nonché una delle “bulle” per fare un piacere non richiesto alla sua amica). La storia è interlineata con quella – sfumata, secondaria - di un insegnante ex monaco e di una insegnante sfiduciata che lo desidera (c'è un delicato parallelismo fra le storie di queste due coppie). La conclusione sfuma, ma con delicatezza, nel mistico. E' un film complesso come contenuto (affronta questioni fondamentali, la realtà, la fantasia, la morale ecc.) ma semplice e vorrei dire addirittura piacevole nello svolgimento. In qualche cosa mi ha ricordato (ma senza fantasy) Beasts of the Southern Wind.
Heart Attack di Nawapool Thamrongrattanarit, un film che sprizza intelligenza, attraversato da una vena di triste umorismo nella sua satira della personalità workaholic, si potrebbe descrivere in modo dispettosamente sviante come una storia sentimentale in tempo di guerra. Ove la guerra è quella del corpo contro il suo possessore. Un giovane graphic designer freelance, maniaco del lavoro (non si riposa né dorme mai), deve fare i conti con la ribellione del corpo, che inizia con un'eruzione sulla pelle del collo e progredisce in modo inarrestabile. Una giovane dottoressa che lo ha in cura (la brava Davika Hoorne di Pee Mak) cerca di spingerlo a darsi un po' di tregua per guarire. Tra i due si instaura un rapporto sfumato, basato sul non detto, raccontato con bella delicatezza.
Da salutare il ritorno di Wisit Sasanatieng con Senior (non bello però come il suo The Unseeable). Questo importante regista non fa film puliti e rifiniti all'americana: fa esplodere le emozioni, non ha paura dell'effetto marcato, lascia libero spazio al sentimentalismo, intreccia le linee narrative seguendole come se ciascuna fosse quella principale, oscilla senza paura fra assoluta serietà ed esplosioni di umorismo. Senior non è un horror ma piuttosto un thriller soprannaturale con un sottofondo mélo (fra una ragazza sensitiva e un fantasma). Il regista spinge le varie linee verso una conclusione in cui tutti i pezzi vanno a posto (nel modo selvaggio e appassionato cui accennavo prima – che poi è molto thailandese, del resto). La sua passione cinefila è dichiarata dall'aprire il film con una citazione da The Ring e chiuderlo con una citazione sfacciata di Hitchcock, Vertigo, nella sequenza finale.

Vietnam per chiudere. Diretto da Ham Tran, Bitcoin Heist ha punti forti (prevalenti) e punti deboli. E' visibilmente ispirato a Mission: Impossible, e come tale non si preoccupa del realismo, anzi, in confronto James Bond sembra Le Carré; però è divertente e si fa vedere senza noia. Le scene di azione e di sparatoria sono buone, la fotografia è competente (bella in particolare, anche se fotograficamente poco coerente col resto, la sparatoria finale fra barche in mare nel buio). Il difetto è che a volte il film annega in un mare di techno-babble – ma chi si intende di computer un po' più di chi scrive potrebbe accettarlo meglio. Un difetto peggiore è uno iato fra la storia della caccia al primo cattivo e quella, che segue, della caccia al secondo.

Fantascienza giapponese Non si può chiudere questo articolo senza ricordare questa piccola ma bella rassegna, accompagnata da un volume a cura di Mark Schilling, che ha fatto rivedere alcuni film del maestro Honda Ishiro, ma soprattutto ha avuto il merito di far conoscere un genio quale Obayashi Nobuhiko (presente al festival!), noto fra gli appassionati solo per House (bellissimo, ma allora che dire di un capolavoro quale Exchange Students?). Obayashi è uno di quei talenti naturali di cui si dice: fa film come respira. Il suo approccio surreale e irridentemente libero si è espresso prima nei cortometraggi sperimentali, poi negli spot pubblicitari, poi in lungometraggi di allegra originalità. Siccome ogni tanto salta fuori qualcuno, vestito di nero e coi crisantemi in mano, a protestare che il cinema è morto, basterebbe fargli vedere Obayashi (quasi ottantenne e ancora in attività) per dimostrargli che il cinema è – come si dice oltreoceano – still alive and kicking. 
 

Ten Years


Nel 1997, il triste anno dell'Handover, la Gran Bretagna ha ceduto Hong Kong alla Cina comunista – che aveva promesso di riconoscere alla ex colonia una speciale autonomia per cinquant'anni, ma com'era prevedibile la sta erodendo lentamente. Ten Years è un film indipendente antologico a micro-budget che raccoglie cinque cortometraggi cupamente satirici di giovani (e molto coraggiosi, bisogna aggiungere) registi hongkonghesi su come sarà Hong Kong fra dieci anni (il progetto è stato avviato da Ng Ka-leung). E tutta Hong Kong è andata a vederlo.
Il primo episodio, Extras (“Comparse”) di Kwok Zune, presenta due buffi piccoli criminali che preparano un attentato, ma è una provocazione dei capi della città per far approvare una legge repressiva sulla sicurezza (si allude qui ai rapporti fra il regime e le triadi). La cosa migliore del corto è l'ottima descrizione di questi due sfigati, specie di Vladimiro ed Estragone delle triadi. In un bel b/n, l'episodio scandisce la preparazione e il prevedibile (non per i due!) sviluppo finale.
Il secondo episodio, Season of the End di Yong Fei-pang, allude alla distruzione dell'identità culturale di Hong Kong e ha un inizio stupendo: residui frantumati di oggetti d'uso comune che vengono presi con le pinzette da piatti di terra applicando precisamente le regole dell'archeologia. Ma poi il corto si sposta troppo sul terreno arthouse per il suo stesso bene, talché la bellezza dell'idea iniziale viene sviluppata in una direzione che finisce per indebolirla.
Satireggia l'attacco all'identità culturale hongkonghese anche il terzo capitolo, Dialect di Jevons Au, in cui un tassista si trova nei guai perché non parla mandarino, sotto l'ombra impietosa di un progetto governativo per sostituirlo al cantonese. Un episodio senz'altro buono, compatto, veloce, nel suo tono di commedia con un sapore molto vecchio cinema hongkonghese.
Il quarto episodio, Self-Immolator di Chow Kwun-wai, è il più violento politicamente, del tutto condivisibile, ma anche il meno bello se prescindiamo dalla simpatia politica che ridesta. Da ricordare comunque l'immagine, di forte pregnanza simbolica, di Hong Kong in campo lunghissimo invasa dalla nebbia, immagine che lo punteggia e lo conclude.
Il quinto episodio, forse il migliore, è Local Egg di Ng Ka-leung. Mette in scena con spirito swiftiano (naturalmente c'è anche Orwell fra i riferimenti) una crociata dei governanti di Hong Kong contro le uova di produzione locale (la stessa parola “locale” viene considerata contro le regole), incrociata con una campagna contro le librerie – contro le quali vengono lanciate uova da una Youth Guard di bambini in una divisa paramilitare che ricorda le Guardie Rosse.
All'inizio del film compare la classica didascalia “Ogni somiglianza con persone o fatti reali è assolutamente casuale”. C'è mai stata un'ironia più amara?

The Mohican Comes Home

Okita Shuichi

Okita Shuichi è una vecchia conoscenza del Far East Film, al quale ha presentato un capolavoro quale The Story of Yonosuke e un paio di gran bei film come The Woosdman and the Rain ed Ecotherapy Getaway Holiday; non si smentisce con The Mohican Comes Home, in cui il “mohicano” del titolo è un giovane musicista più o meno fallito, con cresta punk, che assieme alla sua ragazza incinta, torna in visita a casa, su un'isola vicino a Hiroshima. La descrizione delle due coppie – quella giovane e quella anziana, col padre maniaco del cantante pop dei suoi tempi Yazawa Eikichi e la madre tifosa di baseball – è deliziosa.
Okita ha solo 39 anni ma tutto il suo cinema sembra far apparire che è più vicino, come capacità narrativa, al mondo dei vecchi (o all'interazione tra giovani e vecchi, ossia la famiglia) che a quello dei giovani. Se l'inizio è un po' debole, il film prende ala subito quando compare il padre (grande interpretazione di Emoto Akira), che ben presto si scopre essere gravemente malato. Benché tanto il protagonista quanto suo padre siano dei musicisti (l'uno in attività, l'altro dilettante), The Mohican non è un film sulla musica ma sulla morte: sull'accettazione della morte dei genitori da parte dei figli – ovvero sulla crescita. Okita non appartiene alla classe degli Ozu, e nemmeno a quella degli Hiroki Ryuichi, ma realizza un film davvero umano e sensibile.
Questo regista ha la capacità di partire dal bozzettismo per arrivare a qualcosa di più. Mostra sempre una magnifica attenzione ai particolari (vedi qui, nel primo incontro delle due coppie in casa, il gioco sulla posizione seduta formale e non formale) e sa raggiungere veri tocchi di realtà psicologica: penso alla grande scena della madre (Motai Masako) che guarda il baseball in tv ed esulta e piange insieme. Quel forte senso di umanità che attraversa il film, come pure gli altri di Okita, gli permette di ottenere senza sforzo un mix di commedia e dramma molto libero e naturale: penso alla superba sequenza del matrimonio in ospedale (dov'è ricoverato il padre morente) con la lampada da sala operatoria usata come riflettore e la celebrante con la giacca del tailleur sui calzoni del pigiama. C'è una dolcezza della storia - ma c'è anche una fisicità molto realistica del declino del corpo e della malattia mortale (anche più che in Departures di Takita Yojiro); e la conclusione raccoglie tutto in una percezione quasi solenne del passare delle stagioni dell'esistenza. Com'è la migliore qualità di Okita, alla fine abbiamo l'impressione di conoscere i suoi personaggi, nella personalità, nei tic, nei minimi particolari, come se fossero nostri amici della realtà.

Creepy

Kurosawa Kiyoshi

Ci sono due punti di svolta nella costruzione di Creepy. Il primo è naturalmente quando i due coniugi – un ex poliziotto e sua moglie, appena trasferitisi - portano ai vicini il tradizionale regalo dei nuovi arrivati, come da tradizione giapponese - e questi regali vengono respinti con un misto di indifferenza e ostilità. Ci colpisce come un allontanamento dalla tradizione giapponese; e abbiamo un bel metterla sul piano dell'allentamento dei rapporti sociali nel mondo contemporaneo, ma il modo bizzarro e inquietante (creepy) in cui ciò si svolge introduce nel film un elemento di allarme: paradossalmente sarebbe stata più comprensibile una ripulsa maleducata. Con questa strana ambiguità di comportamento, che lascia supporre misteri nascosti (e infatti sentiamo parlare della madre malata di una vicina, della moglie dell'altro, ma non le vediamo) siamo già in area Hitchcock – e Creepy è un film fortemente hitchcockiano. Lo diventa ancora di più – perché tocca il tema hitchcockiano dell'indecifrabilità degli esseri umani, specie quelli che credi di conoscere di più – quando si arriva al secondo punto di svolta, che è un mutamento di prospettiva morale.
In principio infatti l'asse morale del film sembra semplice: “buoni” (i due coniugi) vs. “cattivi” (i vicini coi loro segreti). Questo è solo rafforzato dagli accenni di rivelazione della figlia del vicino Nishino. Costui si caratterizza subito come il perno del segreto, e quando la moglie del protagonista comincia a frequentarlo crediamo di vedere la classica situazione della “bella-ma-sciocca” che si mette nei guai. Ma quando il comportamento di lei cambia, implicando un rapporto di complicità con Nishino, ecco che l'asse morale del film viene spostato (e qui ci rendiamo contro della somiglianza di comportamento con la famiglia scomparsa del cold case su cui l'ex poliziotto indaga).
Ed è un mutamento non solo di asse morale ma di genere: perché cominciamo a sospettare che una trasformazione simile non possa verificarsi nel quadro realistico del thriller ma implichi qualche tipo di spiegazione più affine al fantastico. Nonostante ciò, siamo sempre in territorio hitchcockiano, ribadito da una citazione patente: quando il vecchio poliziotto si introduce in casa di Nishino, è Psycho, con il sarcastico rovesciamento finale che la sua demise invece che dall'alto viene dal basso (la botola nascosta).
L'elemento fantastico della droga che annulla parzialmente la personalità, del resto, è introdotto molto bene mediante un'analogia con le droghe del mondo reale (la vittima che sembra in crisi di astinenza). Quando poi tutto il quadro si è rivelato, l'inarrestabilità di questa droga ci fa pensare al concetto di epidemia (tutt'altro che ignoto a Kurosawa Kiyoshi) - ma in un certo senso anche agli zombi: se posso dirlo, una zombizzazione della personalità anziché della carne - e in questo senso anche più inquietante.
 

Sori: Voice from the Heart

Lee Ho-jae

Un robot/satellite intelligente diviene obiettore di coscienza quando scopre di essere usato in guerra per dirigere i droni, “fugge” in Corea e viene ricercato dai servizi di sicurezza americani e coreani. Un uomo disperato per la sparizione della figlia, avvenuta anni prima dopo un litigio, stringe con lui una bizzarra alleanza alla ricerca della ragazza - che secondo tutti è morta in un incendio nella metropolitana, ma lui non ci crede.
Sebbene il “disegno” del robot/satellite venga da Star Wars (con un miglioramento della testa, sul quale si basa la sua stupefacente espressività), il film di Lee Ho-jae è assolutamente spielberghiano: per la situazione e la visuale del personaggio (E.T.), per la concezione morale generale, per molte inquadrature. Per esempio si può osservare che, quando il protagonista e Sori sono bloccati al porto, quelle luci di riflettori sparate su di loro sono, sì, naturali nella situazione ma sono nondimeno le classiche “luci in macchina” di Spielberg; e infatti qui il film sembra richiamare visivamente un'altra sua opera, Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Ma la preoccupazione, legittima, che si tratti di un film-fotocopia non ha luogo: perché l'eccellente Sori: Voice from the Heart non si esaurisce sull'impronta spielberghiana con l'amicizia col robot. Sori porta avanti con intelligenza tanto il tema collaterale della fine della privacy quanto e soprattutto quello del rapporto fra il padre e la figlia, che finisce per diventare la vera ossatura del film, il suo strato più interno. Questo rapporto padre-figlia colpisce anche grazie alla costruzione a flashback sovrapposti, che svelano la backstory a poco a poco (l'interpretazione di Lee Sung-min nel ruolo di Kim, il padre, è magistrale, non solo in sé ma anche per l'abilità di incarnare tre diverse facce per età e condizione); così la storia risulta molto più commovente che se fosse stata esposta in un momento solo. Ed è un tocco di coraggio geniale, impensabile in un film hollywoodiano, che si scopra alla fine che la figlia è effettivamente morta).
Il film ha una sceneggiatura logica e robusta, con ottimi dialoghi (dice il robot dopo la promessa di Kim di aiutarlo: “Gli umani non sono capaci di mantenere il 73.4% delle promesse”). Ma si fa notare anche la raffinatezza stilistica, all'interno di un film apertamente popolare; lascia colpiti, per esempio, l'inizio con i salti di tempo nell'inquadratura della gelateria assai elegantemente “nascosti” dal passaggio di veicoli o persone. E la pagina del viaggio di Sori da solo per le strade coreane, in un freddo mattino presto, è veramente da antologia.

The Priests

Jang Jae-hyun

Quello degli esorcisti è un sottogenere del film horror (il cui vertice naturalmente si deve a William Friedkin) che contiene due aspetti di particolare fascino. Il primo è l'aspetto esoterico del rituale; il secondo è che ci consente di assistere alla comunicazione col demonio. Non un mostro qualunque o uno svagato vampiro, ma l'essere antichissimo ch'è considerato all'origine del male! Realtà o superstizione che si consideri, questo nero fascino non fa stupire che i demoni sottoposti ad esorcismo siano assai loquaci – non solo nei film e nei romanzi ma anche nei resoconti storici. A Loudun nel 1634, per esempio, parlarono moltissimo (ovviamente è solo una coincidenza che le loro dichiarazioni servissero perfettamente agli interessi politici degli inquisitori).
Due preti cattolici coreani devono praticare un esorcismo su una ragazza posseduta in The Priests dell'esordiente Jang Jae-hyun, un horror logico e deciso (e non privo di qualche bel tocco di umorismo collaterale), che entrerà nella lista dei film migliori del sottogenere. Lo è per la vivace descrizione del rituale – anche se a rigore, da un punto di vista cattolico come quello postulato dal racconto, esso è indubbiamente discutibile; però le sue bizzarrie aggiungono un elemento di interesse.
Lo è per i discorsi del demone attraverso la ragazza posseduta, dove la sceneggiatura dello stesso regista è così brillante che quasi vien voglia di considerarli migliori di quelli de L'esorcista (film superiore a questo, non occorre dirlo). Il diavolo di The Priests non solo spara insulti ma enuncia tutto il suo disprezzo per l'homo sapiens (“Voi siete solo scimmie”) e la sua “fissa” dei numeri esatti gli apporta un soddisfacente elemento di alienità. Questa indemoniata ghignante (l'ottima Park So-dam) resterà nella nostra memoria più di tanti suoi omologhi cinematografici.
Le innovazioni del film rispetto al rituale romano si inseriscono comunque in un quadro realistico (da notare le parti di dialogo in italiano), con una descrizione vivace della Chiesa, delle sue politiche (l'esorcismo è autorizzato di malavoglia su ordine di Roma, ma ufficialmente la chiesa non ne sa niente) e delle sue dinamiche interne: il prete che deve praticarlo è disprezzato dalle gerarchie e al diacono suo assistente è chiesto di spiarlo in segreto. Le buone interpretazioni (l'esorcista e il dicono sono rispettivamente Kim Yung-seok e Kang Wong-don) danno forza al film. 
 

sabato 7 maggio 2016

Sole alto

Dalibor Matanić

Il vicino di casa che incontri sul pianerottolo, il negoziante da cui vai a comprare il pane, la maestra di tuo figlio – questa nube di persone che costituiscono il “noi” di un popolo, e sono quelle che diventano improvvisamente il nemico (e vengono chiamati “quelli”) quando scoppia una guerra civile. Ne è il fattore più tragico (e in qualche maniera è oscuramente connesso alla sua ferocia). Detto per inciso, è la capacità di rappresentazione di quest'aspetto che è mancata in genere al cinema italiano nella sua rappresentazione delle due grandi guerre civili della penisola, il cosiddetto Risorgimento e quella del 1943-45 (con alcune notevoli eccezioni, di cui la principale è Il Gattopardo).
Non manca, invece, al bellissimo film di Dalibor Matanić, anche sceneggiatore, Sole alto (Zvidzan), distribuito dalla coraggiosa Tucker Film di Udine-Pordenone (purtroppo in versione doppiata, ma a questo in Italia non c'è rimedio). Un film già interessante per l'origine: è una coproduzione tra Slovenia, Croazia e Serbia, paesi ancora profondamente divisi. Analisi morale della guerra e del dopoguerra sotto il segno dello strazio umano, strazio della violenza e strazio della memoria, il film scava nel solco della guerra civile jugoslava raggiungendo un vertice di dolorosa intensità attraverso tre storie d'amore impossibile (star-crossed lovers, direbbe il Bardo) fra un giovane croato e una ragazza serba, sulle sponde di un lago la cui dolcezza (i tuffi nell'acqua, la festa popolare nel primo episodio) diventa, si vorrebbe dire, sprecata.
Pur se scandito in episodi narrativamente indipendenti, il film gioca su una serie di elementi ritornanti, di cui il primo e più evidente è l'uso degli stessi (ottimi) attori, Tihana Lazović e Goran Marković, nei ruoli delle tre diverse coppie protagoniste degli episodi (e ciò è rispecchiato in diversi analoghi ritorni di attori in più parti): questa scelta di casting sta alla base del film, che è pensato per essa, e lo indirizza - un ottimo modo per esprimere il senso di tragedia collettiva che lo attraversa.
Sole alto è diviso in tre capitoli a distanza di dieci anni: 1991, l'inizio della guerra civile, 2001, i suoi effetti immediati, 2011, gli effetti a lungo termine. Li dividono due sequenze mute con musica di cui la prima è una delle pagine più impressionanti del film: consta di una serie di immagini documentarie, esterni ed interni, di case distrutte – dove la cosa che mi ha colpito di più è stata vedere delle antenne satellitari abbandonate e pendenti: a ricordarci che la guerra civile non si è combattuta in qualche buco barbaro del terzo mondo ma nel cuore dell'Europa. Il secondo interludio è un camera-car che mostra la ricostruzione.
Il film ha un realismo psicologico che in un certo senso si fonde con l'ottima fotografia diretta, “fisica”, luminosa di Marko Brdar. Molto giocato sul non detto, sull'implicito che si rivela a poco a poco, Sole alto è un grande lamento su un dolore irreparabile - ma che tuttavia va riparato. La conclusione aperta del terzo episodio (o meglio, più che aperta, ellittica, perché si intuisce bene il prosieguo), che viene dopo una grande pagina di recitazione muta a due, apporta alla conclusione un fragile filo di speranza nell'universo cupo del film.
La caratteristica del film di Matanić è la sua imponente intessitura di rimandi, “figure” che ritornano e si richiamano, come fili rossi visuali, in collegamento con il ritornare dei volti nel grande, quasi maestoso tema narrativo. Sono luoghi: il lago attorno al quale si svolgono le tre storie, il chiosco, i cimiteri. Sono azioni: il rimestare nervosamente nel piatto, che ritorna in tutti e tre gli episodi, l'inseguire correndo un'auto, e in primo luogo il bagno nel lago, ripreso in inquadrature subacquee in tutti gli episodi, che fa da vero trait d'union. Sono anche battute di dialogo: “Mi mancherà tutto questo” dice Jelena nel primo episodio in riva al lago, “Mi è mancato questo” dice Nataša ritornata al lago nel secondo. E sono, con un'evidenza nascosta e potente, animali. A volte essi hanno un valore narrativo: una delle immagini più potenti del film si ha quando risuona il primo sparo e vediamo un gregge di pecore che voltano la testa in quella direzione e restano immobili, come raggelate. Ricordo anche, nel secondo episodio - sulla ricostruzione materiale di una casa che non riesce a divenire ricostruzione morale dopo la distruzione - l'apparizione di alcune galline, segno di abitazione, dove all'inizio c'era solo un gatto che correva via. Però in genere l'apparizione di questi animali ha una pregnanza autonoma, degna del cinema nordico: come il ragno in due episodi, oppure quel cane con le orecchie dritte che appare nel secondo e nel terzo come un testimone, o quasi (nel terzo) uno spirito guida. Vale anche per la musica intradiegetica (per esempio un brutto rock jugoslavo degli anni '80 che risuona alla radio dell'auto nel primo episodio in un contesto profondamente drammatico viene sentito nuovamente alla radio dell'auto all'inizio del terzo) e i suoni in generale; se Sole alto fosse un film americano, vincerebbe facilmente l'Oscar per il magistrale montaggio del suono.
Questa intessitura dà al film un'unità profonda e contestualmente un alto valore estetico: è un principio estetico che non è fine a se stesso ma informa la complessità del film – evitando con ciò il ricorso alla “sola drammaturgia” del cinema “impegnato”, elevandolo per valore del linguaggio e (val la pena di usare quest'aggettivo impegnativo) profondità spirituale.