mercoledì 29 aprile 2015

L'altra Heimat - Cronaca di un sogno

Edgar Reitz

La saga Heimat di Edgar Reitz, gigantesco monumento cinematografico che coi primi tre lavori dura oltre due giorni, si è arricchita di un quarto episodio (uscito ahimè in Italia alla mordi e fuggi): L'altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht), un solenne prequel ambientato negli '40 dell'Ottocento. Esso amplia il grande affresco della famiglia Simon dello Hunsrück, regione natale di Reitz, con la descrizione del villaggio di Schabbach in un periodo di fame e disperazione che portò molti all'emigrazione oltreoceano.
La rivoluzione francese e l'invasione napoleonica sono eventi lontani; ma ne è rimasta traccia tanto nei conati di ribellione (“Chiamatemi Egalité!”) quanto nel costume (per esempio il nome intero di Jettchen, uno dei personaggi principali, è Henriette). Oppressi da miseria e balzelli, i contadini abbandonano la Heimat (la patria, chiamata nel film “infedele” e “infelice”, ma anche “amata” nella canzone di addio cantata da Florinchen). La scena di Jettchen da sola prima della partenza per l'emigrazione è paragonabile per intensità a quella analoga della madre in Furore di John Ford. I carri degli emigranti sono una presenza ossessiva nel film, ora in primo piano, ora nello sfondo, in forme la cui bellezza visuale non nasconde ma anzi esalta la connotazione di dolore.
Ad essi si contrappone in un capitolo del film – che fonda l'opposizione acqua vs. terra, speranza vs. sconfitta, ribellione vs. resa, patria vs. emigrazione - la zattera degli studenti rivoluzionari della Junge Deutschland che scende lungo il Reno con la bandiera tedesca e che i soldati prendono a fucilate.
L'altra Heimat è una “macchina del tempo” artistica, potente tanto nel sommesso fluire della vita quanto nei “picchi” alti e drammatici, tra i quali cito solo il funerale collettivo dei sette bambini morti in una sola notte del “catastrofico inverno '43”. E' una vita che oscilla tra rassegnazione e ribellione, nei riguardi dell'ordine sociale come della divinità, tra fede e rabbia. “Questo è l'inferno”, dice Gustav al pastore dopo il funerale dei bambini; all'opposto il padre (che temeva che lui e sua moglie si fossero suicidati): “Gott sei Dank. Dobbiamo continuare a vivere – è la volontà di Dio”.

Reitz gira il film in bianco e nero - nella splendida fotografia del regular Gernot Roll - con rare improvvise irruzioni del colore che colora alcuni rari oggetti nel quadro, sempre legati a un impatto psicologico. Il suo linguaggio è insieme moderno (certe inquadrature “impossibili”) e antico (un gesto come la mano sul cuore è ripreso dal cinema muto).
Il diario del protagonista Jakob Simon fornisce la voce narrante. C'è una continua solennità del parlato: quello di Reitz è grande realismo, ma rifugge dal naturalismo. Siamo immersi, con una forza evocativa che vorrei definire faustiana, nella vita e nell'universo dei contadini dell'epoca. Piace menzionare qui un aspetto di realismo puro e assoluto: proprio come la vita, dove spesso il potenziale tragico di un pericolo non si realizza, il film è costellato di tragedie mancate: la caduta di Jakob dall'albero, la malattia di Florinchen, l'esplosione della macchina a vapore, l'attacco che coglie la madre malata sotto il ciliegio. Prendiamo quest'ultimo caso: noi spettatori siamo subito convinti (non ultimo per il suo impressionante realismo) che assisteremo a una drammatica scena di morte, secondo le bronzee leggi della drammaturgia cinematografica – e invece no; viceversa, la sua morte fuori campo, quando arriva molto più tardi, va contro le attese drammaturgiche come può succedere solo in Bergman o Dreyer.

Jakob, figlio minore del fabbro del villaggio, è la spina nel piede del padre per il suo carattere sognatore e la sua passione per i libri. E' suo il sogno del sottotitolo: andarsene in Brasile, sul quale legge tutto ciò su cui può mettere le mani. Poliglotta, Jakob è diventato grande esperto dei linguaggi indiani (alla fine del film, a sogno ormai svanito, lo vedremo in corrispondenza addirittura con Alexander von Humboldt). Non per niente in paese lo chiamano “l'indiano”! Ma Jakob ha una particolarissima dignità nella (progettata) emigrazione: “Parlare di miseria non mi si addice”; conta di farsi strada nel nuovo mondo e vede nella cultura la via. Ma non riuscirà a partire, e il racconto si ramifica in una vastissima vicenda di amori, sfortune, nascite e morti, delusioni e rimpianti, finché alla fine Jakob troverà una forma di felicità nel villaggio. “Era piaciuto a Dio volgere in un paradosso tutto quello che facevo”.
Tutto il film si colloca dunque sotto il sogno dell'altrove: innanzitutto il progetto di andarsene in un Brasile sognato, ma anche la fantasia di avere le ali per volare. E anche le lingue indiane – a proposito delle quali Jakob ha un'intuizione chomskiana – sono il sogno di un altrove insieme autentico e fantastico: come vediamo quando sono usate come lingua dell'amore.

Attorno a Jakob ruotano, resi con evidenza abbagliante, i personaggi della famiglia e dell'ambiente: il padre, la madre, la nonna, il fratello maggiore Gustav (distruttore involontario del suo sogno), la sorella Lena, ripudiata dal padre per avere sposato un cattolico, i compaesani, le due amiche del cuore Jettchen e Florinchen (com'è dolce il suffisso diminutivo-/vezzeggiativo -chen che viene attribuito a tutti i nomi femminili!).
La nonna - che in tedesco e nelle lingue germaniche si dice “grande madre” (Großmutter) - rappresenta la continuità della famiglia, della stirpe, dell'essere nel mondo di questa popolazione contadina. E' il pilastro instancabile della famiglia (la vediamo lavorare infaticabilmente) ma soprattutto è la depositaria di una conoscenza profonda dei moti nascosti della vita. Il suo perpetuo detto “Ogni cosa a suo tempo” sboccia in un “Lo sapevo” quando ritorna Lena, la nipote perduta.
Ma pensiamo a una figura secondaria come la ragazzina zoppa emarginata, Margot dal piede equino, considerata “figlia di Satana” e protetta dalla nonna: non è solo un'illustrazione delle superstizioni contadine: è una figura herzoghiana. O le due figlie bambine dell'incisore Olm, che con la moglie vediamo sedute a una tavola affamata, terribilmente simili a spettri tristi; il concetto è certo che siano abbattute dalla fame ma l'insistenza con cui in varie scene le vediamo sempre lì le trasforma in un'altra figura di realismo magico alla Herzog. Idem per la penna lasciata cadere dal falco, oggetto destinato a riapparire più volte nel film: anche questo è misticismo romantico herzoghiano. Così, diventa più chiara la presenza alla fine del film di Werner Herzog come guest star.

Siamo evidentemente nell'ambito del romanzo: L'altra Heimat è la trasformazione del racconto cinematografico nella dimensione del romanzo con il suo carattere fluviale – trasformazione che è stata propiziata da quella fusione tra cinema e tv di cui Reitz (ma ricordiamo anche Fassbinder e Bergman) è stato un antesignano. Ciascuna delle sue figure ha una propria storia ed evoluzione; sebbene si distinguano, com'è naturale, tra principali e secondarie, quelle secondarie non servono agli accidenti che fanno proseguire il racconto delle principali ma, al contrario, appaiono ciascuna come una realtà in sé; per dirla con un paradosso, ogni personaggio secondario è protagonista. Proprio questo è cinema-romanzo, ed è l'esatto opposto della sceneggiatura cinematografica hollywoodiana. Infatti ben pochi esempi simili se ne trovano nel cinema classico (uno mi sembra essere L'orgoglio degli Amberson di Orson Welles).

Ma il realismo, come lo intendiamo oggi in modo piuttosto ristretto, non è la sola cifra del film, che è attraversato da un senso di magia. Pensiamo al rito magico di Jettchen e Florinchen: rotolarsi nude nell'erba dopo aver cantato un'invocazione per mandar via una malattia della pelle: il bello è che funziona (questa magia del rito agreste e pagano si rispecchia nella magia del racconto di Jakob sul Brasile, che lui enuncia a loro subito dopo). Oppure: sulla lettura di una pagina d'un libro di viaggi circa un uomo che gli indiani brasiliani accusano di “chiamare il vento”, ecco che si scatena un colpo di vento e i cavalli prendono la fuga.
Dire romanzo, dunque, non basta, perché bisogna stabilire di quale tipo. Qui siamo interamente nell'ambito del romanticismo tedesco – al quale mi sembra rimandare la stessa parola Sehnsucht. Sotto la sensazione di realtà della minuziosa descrizione della vita materiale dei contadini del 1842 serpeggia il sentimento cosmico, magico e panico, delle forze profonde della natura e dell'anima. E infatti vediamo ne L'altra Heimat una sconvolgente potenza “murnauiana” dell'immagine della natura, quale la troviamo ben poche volte nel cinema contemporaneo: per esempio il Godard di Je vous salue, Marie, il Malick de I giorni del cielo, lo Zhang Yimou di Sorgo rosso. Un sentimento romantico rispecchiato nel protagonista: non basta forse leggere le belle righe di Ladislao Mittner sull'uomo romantico (Storia della letteratura tedesca, II) per ritrovare Jakob fatto e finito?

Non stupisce quindi che alla base del diario di Jakob stia la concezione del ritorno di tutte le cose: la freccia che ritorna nella mano dell'arciere: “Così inseguo la freccia del tempo e il respiro di mia madre”. Altrove scrive: “Non si vive una volta sola”. Questo è consistente con quell'idea del tempo che ritorna su se stesso che a ben vedere è intrinseco a tutto il gigantesco progetto Heimat di Reitz.

mercoledì 22 aprile 2015

Mia madre

Nanni Moretti

Uno spettro si aggira per il cinema di Nanni Moretti: lo spettro dell'afasia!
Forse dopo questo incipit marxista converrà spiegarsi meglio. Il filo rosso che attraversa tutto il cinema morettiano è il concetto (e il terrore) dell'incapacità di esprimersi, che esplode concretizzandosi nel mutismo. L'incapacità di parlare come immagine propria (basta ricordare la chiusa di Sogni d'oro); o come allegoria (un Papa che invece di presentarsi al balcone più famoso del mondo emette grida inarticolate); o come metafora, di cui la preferita è sempre quella (cinema nel cinema) del film che il personaggio non riesce a iniziare o finire. Non è indifferente che Moretti spesso assuma nel suo cinema, o come propri avatar o per interposta persona, figure della comunicazione come i preti, gli insegnanti e gli psicoanalisti (non i detestati giornalisti, perché quelli, direbbe Moretti, non comunicano, chiusi come sono nel proprio solipsismo).
Il nuovo film di Moretti, Mia madre, non perfetto ma importante e convincente, si articola su due piani strettamente connessi. Il primo è quello dell'accettazione della realtà della morte: morte di un figlio - per disgrazia - ne La stanza del figlio, morte della madre - per l'immutabile orrore biologico delle cose - nel presente film (e qui, chiunque abbia vissuto quel passaggio vi si riconoscerà appieno). Il secondo è quello del film che non si riesce a fare.
Si congiungono nel personaggio della regista Margherita Buy, che anche nel film si chiama Margherita – il che riporta, in modo barocco, l'autobiografico Apicella dei protagonisti morettiani. Da un lato la malattia e morte della madre (Giulia Lazzarini) mentre lei gira un film (qui il tema per Moretti è francamente autobiografico); dall'altro questo film politico su una fabbrica occupata, - e quindi “comunicativo”, fin dal fiero titolo Noi siamo qui - che però si scontra con assistenti che male assistono e con un protagonista, una star americana (John Turturro), che non collabora. Il punto è che questi due momenti non si fondono soltanto perché li vive la stessa persona ma perché in entrambi l'elemento dell'impotenza (a comprendere, ad accettare, e quindi a parlare) è centrale.
Un tocco intelligente è la confessione di John Turturro quando si presenta a cena per riallacciare i rapporti dopo un litigio sul set: non riesce più a ricordare le battute – ecco di nuovo lo spettro dell'afasia. Inutile osservare che pure il mestiere dell'attore è una forma principe di comunicazione, visto che deve far entrare un personaggio d'invenzione nella coscienza degli spettatori (su questo Moretti sovrappone un po' inutilmente - ma è un film a volte disordinato - il discorso del cinema come non realtà, nella crisi isterica di Turturro nella scena della mensa).
Tornando all'argomento principale, dobbiamo soffermarci un attimo sul tema della morte. Come mostrava perfettamente La stanza del figlio, Moretti è un ateo conseguente: per lui la morte è la fine; gli manca quella speranza per metà opportunista e per metà pascaliana degli agnostici e degli atei tiepidi onde “non si sa mai”. Di conseguenza la morte nel suo cinema mantiene un nucleo di inaccettabilità, di incomprensibilità assoluta. E' illuminante il fatto che, nel film, Margherita Buy semplicemente non comprende le parole chiarissime della dottoressa che avverte i parenti della morte prossima della madre. Qui entra come personaggio Moretti stesso, ritagliandosi una parte di fratello maggiore più saggio che rappresenta un aggancio, pur dolente, alla realtà. In altri termini è come se un “passaggio” consegnasse le ansie, i tic, le incertezze esistenziali e la connessa aggressività al personaggio più giovane – ed è una novità importante nel cinema morettiano.
L'oggettiva bruttezza del film-nel-film che vediamo girare è anch'essa espressione dell'incapacità a comunicare. Essa in Moretti è sempre stata legata, non senza logica, all'egocentrismo e al narcisismo; e infatti di questo Margherita si sente accusare prima dall'ex amante (pure lui peraltro esempio da manuale di narcisismo contemporaneo: “Devo prendermi cura un po' di me; mi devo proteggere”) e poi in forma più pacata e oggettiva dal fratello. Non per nulla lei è incapace di spiegare le pompose formule cui si tiene abbrancata: sia circa la sua teoria dell'attore (un Brecht formato economico) sia – umoristicamente – quando cerca di spiegare l'importanza del latino alla figlia ribelle.
Elegantemente intessuto di racconto presente, flashback, fantasie e sogni, Mia madre è il film di una crisi radicale. Quell'elemento di speranza, o meglio, di ricostruzione psicologica e morale che concludeva La stanza del figlio non sparisce ma resta implicito. Il film si conclude su un flashback della madre ancora viva che, alla domanda "A che stai pensando?", dice “A domani” - di qui, uno zoom sul viso disperato di Margherita Buy. E' uno smarrimento, una crisi generale, che non si era ancora vista nel cinema di Moretti. Mia madre non sarà un film integralmente riuscito, ma di sicuro è un film completamente onesto.
Non integralmente riuscito, dico, perché il film parte in modo assai modesto. Si ha l'impressione che la sceneggiatura avrebbe potuto essere più curata; alcuni episodi si potevano anche omettere, come la scena dell'auto mandata a sbattere, o come un goffo omaggio a Fellini; si sente in alcuni momenti della prima parte quella sensazione di artificio che è la dannazione del cinema italiano; e su questo piano non aiuta una fotografia che a volte sembra riflettere la piatta oggettività della fiction televisiva (o anche peggio, in una scena di dialogo in cui l'alternanza della messa a fuoco, all'antica, sui primi piani di Margherita Buy e della madre è pesantissima e addirittura irritante). Molto buono invece il montaggio, lucido e netto come una lama di coltello, di Clelio Benevento.
Bisogna aggiungere che questi difetti scompaiono man mano che il film procede e il focus si sposta sul dramma privato e sull'itinerario alla morte. Più diventa centrale l''agonia della madre e quella dei figli, più il film acquista un aspetto, raggelante e poetico, di realtà.