sabato 17 maggio 2014

Far East Film Festival 2014

Happy, ecco l'aggettivo che mi sembra più adatto per parlare del Far East Film Festival di Udine, edizione 1914 (la sedicesima, ragazzi...). Perché, c'era più che mai una sensazione di serenità diffusa, il Teatro era pieno zeppo, il livello medio dei film era molto soddisfacente, il sequel di Thermae Romae che ha chiuso il festival era una delizia, il premio del pubblico l'ha vinto un ottimo film, le Filippine hanno finalmente trionfato, il restauro di Ozu ha fatto innamorare chi non conosceva il gran genio giapponese, e insomma in giro si vedevano solo sorrisi.

Per parlare dei film (premesso che non sono riuscito a vedere tutto), conviene partire col Giappone. La pattuglia più nutrita del festival, con undici titoli, lo riconferma come la miglior cinematografia asiatica. I film più notevoli sono il capolavoro Be My Baby di One Hitoshi (vedi scheda sotto), il caldo e amabilissimo Fuku-chan of Fukufuku Flats di Fujita Yosuke e il film vincitore (a sorpresa! Era stato programmato al mattino) del premio del pubblico, The Eternal Zero di Yamazaki Takashi.
Quest'ultimo è un autore amato dal pubblico di Udine, che già aveva molto apprezzato i due episodi di Always: Sunset on Third Street (ne esiste un terzo ma purtroppo non è mai passato al festival). The Eternal Zero si sviluppa in flashback prendendo le mosse dalla ricerca di un giovane d'oggi sul nonno morto in guerra come kamikaze. Le scene di battaglia aerea sono eccellenti ma fondamentalmente a Yamazaki importa, come in Always, la costruzione di un mondo: un'empatia di gruppo pervasa di una nostalgia agrodolce del passato, nonostante tutte le sue ristrettezze.
Fuku-chan of Fukufuku Flats è una di quelle commedie di personaggi bizzarri alla Miki Satoshi, ma possiede un senso di umanità che può ricordare Rent-a-Cat di Ogigami Naoko. Il punto di bravura di Fujita, regista e sceneggiatore, è la capacità di fondere magistralmente le due linee, il grottesco e il sentimentale: di solito ci si aspetta che a metà film la prima si stemperi nella seconda, mentre qui sono mantenute parallele con un'estrema logicità. Di conseguenza è un film divertentissimo, perché è attraversato da una specie di follia tranquilla che si arresta sempre ai limiti dell'assurdo, ma allo stesso tempo ottiene un forte effetto di adesione e partecipazione. Questo amalgama Miki Satoshi non l'ha sempre raggiunto.
Quanto alle interpretazioni, è il famoso gruppo di attori in stato di grazia, protagonisti e figure secondarie insieme. Chiaro che su tutte svetta quella monumentale (è il caso di dirlo) del ciccio Fuku-chan, interpretato in vesti maschili dalla bravissima Oshima Miyuki.
Fra gli altri film vorrei segnalare in particolare Bilocation di Mari Asato: un horror metafisico bello e molto triste, profondamente influenzato da Kurosawa Kiyoshi (e in secondo luogo, sul piano scenografico, direi anche un po' da David Lynch), che introduce una nuova variazione nella ricchissima mitologia filmica del “doppio”. Girl's Blood di Sakamoto Koichi è un film di exploitation interessante per la messa in scena (queste ragazze che si picchiano ferocemente in una specie di wrestling) ma il suo tono sadico-mélo - con un insopportabile cattivo sopra le righe – non è molto convincente. The Devil's Path, di Shoraishi Kayuza, fondamentalmente non è un film ma due; il secondo, la descrizione grottesca di una serie di crudeli delitti, è molto più interessante del primo, la storia del giornalista che li indaga. Hello! Junichi, firmato da Ishii Katsuito con due suoi allievi, è un film di bambini, quindi attraente per definizione, deboluccio ma simpatico. Thermae Romae II di Takeuchi Hideki riprende il gustosissimo Thermae Romae visto l'anno scorso (e che uscirà in edizione italiana a giugno); miracolo, sfugge alla legge quasi ferrea per cui un sequel dev'essere inferiore all'originale. Anzi, è quasi meglio: è più compatto, e può sviluppare liberamente il suo umorismo, poiché l'universo diegetico è già stato stabilito nel primo. Da notare che è quasi spudorato nell'aprire la strada a un terzo episodio, quindi stay tuned.

E ora passiamo alle Filippine. O perché proprio le Filippine? Perché da lì sono venute le grandi sorprese del festival. Non parlo soltanto di Barber's Tales di Jun Robles Lana (vedi scheda sotto), vincitore del terzo premio, ma anche dell'eccellente Anita's Last Cha-cha, esordio di Sigrid Andrea P. Bernardo. In un villaggio filippino, l'adolescente Anita scopre la propria omosessualità rimirando affascinata una bellissima donna, Pilar, ritornata nel villaggio dopo una lunga assenza; la corteggia prima cercando la sua amicizia, poi dichiarandole il suo amore, al che resta delusa perché Pilar è innamorata (invano) di suo cugino. La storia è raccontata in flashback.
A parte l'interesse intrinseco di questa variante omo del coming of age sessuale, il film è molto originale. Contiene molti tocchi di autentica bizzarria (in primis un folle prologo, con Anita adulta, che sembrerebbe poter introdurre solo una commedia – il che non è). Le fantasie di Anita, che sogna di vedere Pilar dappertutto, e anche nel suo letto, sono rese visivamente sullo stesso piano della realtà. La solenne conclusione folkloristica con la festa di Santa Clara nel pre-finale entra come un vero finale sinfonico, mentre la fine vera e propria ha una dolcezza elegiaca. La descrizione della gente del villaggio è viva quasi quanto quella di Barber's Tales, anche se un filo più stereotipata; in compenso, i due bambini amici di Anita portano un tocco fresco (e non meno bizzarro che il resto). Questo strano piccolo film è, per argomento e svolgimento, veramente della serie “expect the unexpected”.
Chito S. Roño partecipa al festival con due film opposti, mostrando la strana capacità “camaleontica” di certi autori filippini (ce l'ha anche Erik Matti). Dynamite Fishing è la secca descrizione semididattica di un broglio elettorale: è la cronaca, abilmente drammatizzata attraverso il personaggio protagonista, di una vigilia di elezioni su un'isola delle Filippine, con i trucchi sporchi, e anche violenti, delle due parti (noi italiani però abbiamo Napoli e la Sicilia: il film non può insegnarci niente). Una lunga notte scandita dalle affannose corse in motocicletta del protagonista che segnano allo stesso modo il suo compromettersi nel gioco (sostituisce il padre malato, capo-galoppino del partito) e la sua perdita dell'innocenza. Ma Roño presentava anche Shoot to Kill: Boy Golden che è assolutamente diverso. In sintesi: Roño vuol fare il Tarantino e ci riesce perfettamente. Tutto – le luci e i colori acidi alla Twin Peaks, l'ambientazione mock-Fifties con tanto di omaggio a Elvis, il dialogo “epico” (appunto, tarantiniano), l'umorismo feroce (idem), la rassegna di visi/caratterizzazioni memorabili (idem) – tutto, dico, colpisce perfettamente il bersaglio. La regia è molto competente, e basta guardare la scena della banda dei “buoni” vestiti di bianco che saltano sui tetti mentre la polizia e i cattivi li cercano nelle strade - oppure momenti di divertita solennità “operistica” come l'arrivo dei malfattori sotto la pioggi per la riunione a casa del villain. Il film è un po' lungo, 2 ore e 10', ma (a parte che passano molto velocemente) è perché Roño - ancora tarantineggiando – ha voluto dividerlo in due parti, più un epilogo, in trasparente omaggio a Kill Bill.

Un misto di buono e cattivo arriva dalle tre Cine. Ma quest'anno non sono riuscito a seguire la Cina continentale, eccezion fatta per l'ottimo Black Coal, Thin Ice di Diao Yinan, già vincitore a Berlino: un affascinante noir realistico come impostazione narrativa (sembra il mondo di Jia Zhangke) ma immerso in una luce surreale e malata, fatta di neon colorati che “bagnano” i visi dei personaggi. Ne emerge un universo che è allo stesso tempo realistico e innaturale, astratto e concretamente disperato.
Hong Kong attualmente realizza molte coproduzioni (autocensurate) dirette al ricco mercato della Cina continentale, ma non per questo è decisa a vendersi l'anima. The Midnight After del geniale Fruit Chan, uno dei film capitali del festival, è una memorabile trascrizione in senso fantastico del disorientamento hongkonghese dopo lo sciagurato Handover (il passaggio alla Cina). Non stupisce che Fruit Chan - l'autore che in passato ha reso meglio di tutti questo sentimento - si riconosca nella canzone di David Bowie citata nel film, Space Oddity, che parla di un astronauta che fluttua impotente sopra la Terra. La sua tin can qui si trasforma in uno scassato autobus col quale alcuni viaggiatori vanno a Tai Po, e si ritrovano sbalestrati in un'altra dimensione, una Tai Po irreale e deserta - o forse è un viaggio nel tempo? In forma fantastico-grottesca, c'è tuttavia sempre quella capacità propria di Fruit Chan di fondere il dramma collettivo e il dolore personale in una stessa unità patetica.
Uno spirito molto hongkonghese si ritrova anche in Aberdeen (è un quartiere di HK) di Pang Ho-cheung, storia gradevole e sottilmente appassionata di una grande famiglia alquanto disfunzionale; e - non tanto paradossalmente - nei due film sessualmente più audaci presenti al festival: Golden Chickensss (vedi scheda sotto) di Matt Chow e 3D Naked Ambition di Lee Kung-lok. Quest'ultimo è inferiore a Golden Chickensss (l'inizio poi è assai faticoso) ma è dannatamente divertente, con la sua storia dell'hongkonghese Chapman To che diventa un improbabile divo dei video AV (pornosoft) giapponesi. Le parodie di questi video che compaiono nel film sono esilaranti – per non dire che il film è popolato di bellezze giapponesi nude, tutte interpreti di AV nella parte di se stesse.
Sul versante avventuroso, resta impresso nella memoria l'estremistico Firestorm di Alan Yuen, ben interpretato da Andy Lau nella parte di un poliziotto ossessionato, mentre è un fallimento il pompieristico (in tutti i sensi) As the Light Goes Out di Derek Kwok. Peraltro il film più inutile del festival è From Vegas to Macau, mediocre prodotto di un Wong Jing fuori vena (però a HK ha incassato tantissimo!).
La terza Cina è Taiwan. Assai notevole è Soul di Chung Mong-hong, una specie di thriller trascendentale. Un uomo (Joseph Chang) ha un mancamento e diventa semi-catatonico. Portato a casa, uccide sua sorella e dichiara di non essere lui (“Ho trovato questo corpo vuoto e mi ci sono trasferito”). Potrebbe essere una possessione, o lui potrebbe essere psicopatico. Il padre (Jimmy Wong) lo porta in una capanna isolata e lo protegge, arrivando fino al delitto.
Detto così sembra uno psycho-horror, ma Chung, che è un regista d'avanguardia, lo trasforma in una riflessione poetica sui rapporti familiari e sulla morte. Si sente una forte influenza di Kim Ki-duk (l'inizio), e certamente quella di David Lynch (gli alberi inquadrati dal basso e il sogno in cui ricompaiono i morti). Il film ha molto fascino, anche se a volte sfiora l'autocompiacimento. La fotografia di Nakashima Nagao è stupenda, i delitti costeggiano lo splatter, le interpretazioni lasciano il segno.
Meno importante ma comunque interessante la commedia Sweet Alibis di Lien Yi-chi, che impiega le raffinatezze stilistiche proprie del cinema di Taiwan per incrociare il thriller e la comicità in un'unità a volte precaria ma nell'insieme assai godibile. Delude invece Campus Confidential di Lai Chun-yu. L'idea sarà divertente, ma lo svolgimento nella prima parte è quasi soporifero; poi migliora, ma infine introduce un mega-twist narrativo che sposta tutto il film sul piano dell'implausibilità assoluta. Un minimo di credibilità occorre anche in una commedia fantasy!

Il cinema della Corea non è più quello di un tempo, si sa, però dalla penisola continuano ad arrivare opere belle e solide. Broken di Lee Jung-ho - tratto da un giallo giapponese di 10 anni fa già portato sullo schermo in Giappone - è un crime drama coreano nerissimo, che parla (proprio come Confessions di Nakashima Tetsuya) della vendetta privata in una società impazzita dove gli adolescenti criminali hanno la garanzia della quasi impunità.
Un vedovo (Jung Jae-young, spesso visto al Far East Film) ha la figlia adolescente rapita, violentata e uccisa da una coppia di giovinastri che registrano i loro stupri sui dvd. Per caso riesce a rintracciarne uno e - molto giustamente, a mio parere - lo uccide massacrandolo con una mazza da baseball; poi si mette alla ricerca dell'altro. Un detective della polizia e il suo vice cercano di arrestare sia l'uomo sia la sua futura vittima - pur con tutti i loro dubbi, sapendo che la legge non punirebbe seriamente il ragazzo. Il film ha un andamento molto teso e matter-of-fact, rende con vigore l'argomento e non si perde in divagazioni (non c'è neanche la solita storia d'amore). Le interpretazioni sono sobrie e credibili. Nel finale, se lo interpreto bene (ovvero se non è wishful thinking), c'è una reminiscenza a sorpresa de Il giustiziere della notte.
The Terror LIVE di Kim Byung-woo racconta di un terrorista che con le sue bombe fa tremare Seoul attraverso una trasmissione tv (e pure il conduttore, l'ottimo Ha Jung-woo, che ha una bomba nell'auricolare). Strizzando l'occhio con intelligenza al sentimento antipolitico diffuso nel mondo, il film è una riflessione implicita sui mass media, non dico con la genialità di un Johnnie To in Breaking News, ma comunque non banale. La pagina in cui un canale tv “intervista” un altro è fantastica!
In un film che si svolge quasi tutto in interni ristretti (vivificati con il montaggio e i movimenti di macchina), le esplosioni realizzano una convincente pagina di disaster movie, tanto più che - in coerenza coll'argomento mediatico - sono realizzate in un efficace dialogo fra le inquadrature “oggettive” e quelle sui monitor della stazione tv. La conclusione comprende una scena un po' appiccicata di lotta corpo a corpo che rimanda a thriller più convenzionali, ma poi rientra nel discorso generale con un finale “politico” shocking.
Cold Eyes di Kim Byung-seo, remake di un famoso film hongkonghese, è tutto giocato su due tipi di sguardo, integrati e quasi fusi: quello individuale dei poliziotti di un team di “pedinatori” dotati di memoria fotografica e quello sociale delle telecamere di sorveglianza che coprono la città. Ma c'è anche lo sguardo dei rapinatori, il cui capo sorveglia dall'alto di un grattacielo le loro azioni. In più il film introduce un interessante elemento di riflessione sul ruolo del caso – né pecca mai di astrazione, anzi si sviluppa in un gioco psicologico fascinoso e divertente fra la giovane protagonista e il leader del team.
Sul versante delle commedie, da segnalare Miss Granny di Hwang Dong-hyuk. Nove volte su dieci le commedie coreane sono piuttosto macchinose; invece Miss Granny fila perfettamente liscio. Una settantenne inacidita ritorna ventenne per magia, e deve fare i conti sia con la sua famiglia sia con le proprie aspirazioni deluse dalla vita precedente. E' un'idea efficace realizzata in modo molto agile, che produce momenti estremamente divertenti senza mai spostarsi sul terreno della farsa.
Elemento portante è l'interpretazione della protagonista Shim Eun-kyung (la ventenne), credibilissima nella trasformazione: ciò perché lei mantiene (nel racconto), e cioè elabora a livello attoriale, lo stesso modo di parlare aggressivo di una vecchia autoritaria, non solo come mimica ma anche come emissione di voce. Inoltre il film si avvale di un grande gioco di squadra interpretativo, di quelli che meriterebbero un premio apposito per l'intero cast: estrema bravura nel ruolo non solo dei supporting actors (come il vedovo innamorato della settantenne) ma anche degli attori di particine, come la nemica della protagonista, la signora Ok-ja (l'attrice cinquantacinquenne, ma qui appare più vecchia, Park Hye-jin).
Venus Talk di Kwon Chil-in, interpretato da tre attrici eccellenti, ma con caratterizzazioni divertenti e plausibili anche dei personaggi maschili, parte come una specie di Sex and the City coreano ma amplia in modo soddisfacente il suo raggio narrativo, e anche più tardi, quando vira al sentimentale e perfino al drammatico, mantiene e anzi accresce la sua credibilità.
Ottimo il solo film della Thailandia, Pee Mak (vedi scheda sotto) di Banjong Pisanthanakun. L'Indonesia ci dà una commediola gradevole con Brontosaurus Love, di Fajar Nugros, reso simpatico in particolare dalla parodia dell'horror indonesiano che contiene; però non ho ancora visto l'apprezzato The Raid 2, piatto forte della coppia indonesiana al festival.

Restano da menzionare, sperando che vengano mantenute in futuro, due innovazioni “strutturali” del festival. La prima è una vera e propria sezione di classici restaurati. E' ovvia l'importanza di rivedere in una buona versione e sul grande schermo grandi film quali Ohayo (Buon giorno) di Ozu Yasujiro e Manila in the Claws of Light di Lino Brocka. Ma la grande scoperta, pressoché sconosciuta in occidente, è l'eccezionale Flame in the Valley di Kim Soo-yong, un altro esempio di quegli anni '60 coreani, già esplorati in altra occasione dal festival, che si stanno rivelando sempre più un'autentica miniera d'oro. E' una potente, tragica storia di passioni sullo sfondo della guerra di Corea che ha portato via tutti i maschi di un villaggio, lasciandolo popolato di sole donne disperate. I fusti di bambù del bosco forniscono un framing affascinante all'immagine, che diventa il motivo visuale principe del film: esso è ispirato al cinema giapponese ma a un occhio occidentale potrebbe ricordare molte inquadrature di Max Ophuls. La genialità di certi passaggi (come quando all'inizio le due donne in litigio parlano in macchina rivolgendosi a un controcampo non enunciato) lascia sbalorditi.

E poi c'è stata l'entrata in forze dei documentari, fra i quali vorrei menzionare il commovente Hello?! Orchestra di Lee Cheol-ha. Lo strano titolo è il nome dell'orchestra di cui parla il film: un gruppo di bambini che il musicista coreano-americano Richard Yongjae O'Neil raduna per perfezionarli come gruppo orchestrale (con Bach, Beethoven, Mozart, Čajkovskij), fino all'esibizione pubblica. C'è spesso in loro una grande quantità di dolore (molti vengono da famiglie disfunzionali o mono-genitoriali, o sono figli di matrimoni con stranieri, e quindi isolati nella società) e la musica è una sorta di terapia. Siccome i bambini hanno una grazia naturale, la loro presenza schermica è assolutamente emozionante.
The Search for Weng Weng, diretto dall'australiano Andrew Leavold, è una ricerca e un omaggio simpatetico al più strano degli attori: Weng Weng era un attore nano filippino che ottenne un'effimera fama come variante locale in miniatura di James Bond. Sfruttato e poi abbandonato dai suoi produttori, morì in miseria. Ci restano alcuni dei suoi film, che al carattere di per sé delirante dei B-movies filippini aggiungono una particolarissima sfumatura di bizzarria.

Come succede con tutti i festival, chiuso il sipario sulle sedicesima edizione il gruppo organizzatore sta già lavorando per la successiva. Un'annata così riuscita è anche un'iniezione di energia – non che ce ne fosse bisogno! Arrivederci al 2015, e restate sicuri che l'horror è sempre nei nostri cuori. Chi scrive ha avuto modo di leggere una simpatica e-mail indirizzata al CEC da un'amica del festival, che implorava “Rivogliamo l'Horror Day!” Posso assicurare tutti che quest'anno solo il caso ha voluto che il cinema del terrore fosse poco rappresentato (era anche balenata la possibilità di dare il bel film hongkonghese di vampiri Rigor Mortis di Juno Mak, ma purtroppo è sfumata). Speriamo davvero, l'anno prossimo, di essere inondati di spettri, stregoni, zombi, vampiri, demoni, volpi, aswang, pocong, krasue e chi più ne ha più ne metta.

Barber's Tales

Jun Robles Lana

Barber's Tales si apre sulla voce narrante di una testimone che parla del passato: ovvero consegna alla dimensione irrevocabile del passato e della memoria tutta la storia di Marilou. Questo conferisce all'intero film un senso fatale.
Tuttavia il suo carattere tragico non gli impedisce di essere estremamente piacevole, e anche spiritoso. Questa non è incertezza di tono ma al contrario capacità di abbracciare la pienezza della vita. Il film si articola su due linee narrative abilmente bilanciate che si oppongono, si rincorrono, sfumano l'una nell'altra, fino a fondersi perfettamente. Da un lato il dramma politico, presente in sottofondo fin dall'inizio del film (vediamo su un giornale che il presidente Marcos ha dichiarato lo stato di emergenza) e destinato via via a emergere; dall'altro lato, il racconto di vita popolare sulla (breve) carriera della protagonista come barbiere.
Infatti, dopo la morte improvvisa del marito di Marilou, il piccolo villaggio è rimasto senza barbero. Lei, che ha imparato l'arte dal marito, decide di prendere il suo posto, scandalizzando tutti: il primo barbiere donna a memoria d'uomo! Si crea, a partire dalle amiche Tessie e Susan, un'alleanza femminile a suo sostegno; anche le prostitute del bordello locale mandano da Marilou i propri clienti – minacciando in caso contrario di rivelare alle loro mogli dove passano le serate.
Sono quadretti di vita locale assai vivi, con schizzi di figure ben delineate, come il saggio prete del paese (delizioso il momento in cui in chiesa prima di far la predica fa pubblicità a Marilou) o Susan che soffre per il marito maniaco del sesso: impagabile il suo viso gelido quando racconta a Marilou la propria buffa (ma non per il marito) vendetta, impagabile l'espressione dell'altra a sentire.
Ma questa non è una commedia paesana. Mentre il villaggio vive la sua vita sonnolenta i giovani combattono contro la dittatura di Marcos, i militari perquisiscono e arrestano, di notte risuonano spari in lontananza. Anche attraverso un'imprevedibile amicizia, Marilou si trova spinta verso la ribellione. E qui si riforma quell'alleanza femminile che avevamo visto prima in forma quasi da commedia per supportare il negozio di barbiere; si riforma come solidarietà alla ribelle (esplodendo nella scena solenne della processione).
Barber's Tales sarebbe inconcepibile senza l'interpretazione davvero monumentale di Eugene Domingo. Gli spettatori di Udine già la conoscono come grande attrice, sia sul versante comico che su quello drammatico – ed anche capace di impartirci, sul côté brillante della sua produzione, una superba lezione autoironica sulla recitazione in The Woman in the Septic Tank. Tuttavia anche chi la conosce resterà stupefatto di fronte alla controllata potenza della sua recitazione in Barber's Tales, che raggiunge un'altezza non vista finora - tutta giocata sul sottotono, sull'efficacia degli sguardi, dell'espressività del viso. Il suo quadro di donna abituata alla sofferenza (tanto nelle situazioni cupe di cui abbonda il film quanto in quelle grottesche, come i tragicomici isterismi della grassa sorella del morto) non richiede più che un primissimo piano silenzioso, attraverso il quale Eugene Domingo fa passare una carica memorabile di intensità umana. Per questa vibrazione umana che si trasmette direttamente allo spettatore, si potrebbe spendere addirittura il nome di Anna Magnani.

(Catalogo)

Pee Mak

Banjong Pisanthanakun

Il thailandese Pee Mak, di Banjong Pisanthanakun, è una sfacciata parodia di Nang Nak di Nonzee Nimibutr - o per meglio dire: senza escludere la parodia diretta (la scena nel tempio), è piuttosto una versione comica della leggenda popolare del fantasma Nak. Questa storia (una donna morta di parto rimane come spettro ad attendere il marito; costui tornando dalla guerra la ritrova e vive con lei ignorando che è un ghost) è stata portata molte volte sul palcoscenico e sullo schermo, tra le quali lo splendido film sopra citato. Del resto ritroviamo un racconto simile in Giappone in un episodio del classico I racconti della luna pallida d'agosto di Mizoguchi Kenji.
Come in tutte le grandi parodie (come Per favore non mordermi sul collo), il supo puntiglio è di fingere di prendere sul serio l'elemento terrorizzante: così l'accompagnamento musicale è tenuto straight, e lo stile filmico è quello dell'horror - l'eccellente interprete della donna-spettro, Davika Hoorne, lancia certe occhiate alla Barbara Steele che non sfigurerebbero in alcun horror serio, mentre l'elemento comico è tutto lasciato alla recitazione dei cinque imbecilli che le fanno da contraltare maschile (il marito e i suoi quattro amici). I loro dialoghi introducono elementi di gustoso anacronismo (la battuta su Spiderman è oltraggiosa, e mi ha rovinato per sempre: non potrò fare a meno di ricordarmela ogni volta che vedrò uno spettro orientale pendere a testa in giù!). Il film com'è ovvio gioca molto sull'aspetto metacinematografico: vedi - per fare solo un esempio fra tanti - la scena del discorso patriottico all'inizio, in cui l'accompagnamento musicale “serio” (in questo caso, eroico-romantico) si spegne improvvisamente, col classico effetto nastro, su una battuta che fa da anticlimax.
Quella dello spettro Nak è una storia di fantasmi e d'amore - e il presente film non ci rinuncia. E' assai bello come in mezzo ai momenti di buffoneria assoluta riesca a infilare degli squarci romantici: penso a una stupenda sequenza in cui Nak e il marito vanno in giro per il parco divertimenti (per inciso, in questa scena lei porta una maschera di cartone da ghost sul viso, con bel tocco metanarrativo) - oltre che, naturalmente, all'obbligatorio confronto finale. Solo dopo questa pagina commovente (che è un altro bell'esempio di mix fra romanticismo e buffoneria), con la risoluzione qui positiva della vicenda il film può permettersi di rendere comici direttamente i poteri spettrali di Nak - con alcune scenette/barzelletta sui credits che sono belle quanto in un film di Mel Brooks.

Be My Baby

One Hitoshi

Fra i due o tre film che rappresentano il vertice artistico del Far East Film 2014, e quindi capintesta della selezione giapponese, sta Be My Baby di One Hitoshi - l'esatto equivalente come importanza e rilievo, potremmo dire, di A Story of Yonosuke (Okita Shuichi) dell'anno scorso. E' una sarabanda di incontri/scontri/indifferenze amorose all'interno di un gruppo di giovani in perenne collegamento al cellulare.
Il primo problema che si pone quando si comincia a riflettere su questo film è: come mai un'opera tutta fatta di dialoghi in una serie di interni strettissimi non trasmette affatto un’impressione di soffocamento? Il fatto è che lo splendido montaggio di Ozaki Yasuyuki l'allarga, creando in sintonia colla sceneggiatura un’impressione quasi tangibile di ampiezza spaziale virtuale attraverso il passaggio da un interno all’altro. Questo si articola attraverso analogie: a) di dialogo, b) di posizione fisica o di movimento dei personaggi, c) di pura somiglianza emotiva. Così i passaggi da un appartamento all’altro, giocati sul piano sonoro, su quello visuale e su quello semplicemente narrativo, producono un effetto di allargamento (qui gioca un suo ruolo anche la forma fortemente enunciativa delle didascalie di tempo) che supera la ristrettezza degli ambienti.
Per noi spettatori, intendo, non per i personaggi: per loro questa ristrettezza disordinata (anche se naturalmente i giapponesi hanno una concezione prossemica meno esigente degli occidentali) è il tratto fondamentale. A tal proposito, mi sembra che la conclusione, che postula (ma postula soltanto!) una necessità di crescita, sia in qualche modo in relazione con i loro appartamenti mignon: la ristrettezza dell’appartamento come indice di giovinezza - ovvero di rifiuto a crescere, se pensiamo che uno dei personaggi principali dichiara di avere 27 anni.
Attraverso una connessione filmica (il montaggio) e una connessione narrativa (il fatto che sono continuamente attaccati ai cellulari), i personaggi vivono in una dimensione collettiva che è quasi di eterna compresenza. Ciò aggiunge una vena di drammaticità alle loro (miserabili) storie: sono tutti insieme ma ignorano quasi tutto l’uno dell’altro; sono tutti insieme ma vivono una solitudine che deriva dall’incapacità a rapportarsi. Il tema del film è naturalmente la loro fragilità emotiva – con esempi del suo corrispondente auto-anestetico, cioè la freddezza. Anche su questo piano, è interessante - detto per inciso - che i maschi siano assai meno maturi delle ragazze.
Direi che a One Hitoshi è riuscito quello in cui era fallita Sofia Coppola con The Bling Ring: cioè dare concretezza narrativa e perfino umana (escludendo il personaggio esagerato, benché ineliminabile, del fool Osamu) a un gruppo di protagonisti privi di qualsiasi qualità. Questo film ha un movimento circolare. Dopo gli shock della parte finale, non c’è alcuna crescita come superamento: questi shock producono rabbia infantile (Koji che scaglia il telefono) o ambiguità (il ritorno di suo fratello alla cornificazione della fidanzata) o un puro e semplice ritorno ai vizi di prima (il caricaturale, appunto, Osamu). E la sorpresa finale, che qui non occorre svelare, aggiunge un finissimo tocco di cinismo al film.

Golden Chickensss

Matt Chow

Per fortuna non è morto lo spirito boccaccesco che in passato era rigoglioso nel cinema di Hong Kong. Riprendendo il personaggio di Kam (Sandra Ng), Golden Chickensss di Matt Chow è il terzo film della serie di commedie sulle prostitute Golden Chicken (infatti c'è un'interpellazione che intima agli spettatori: se non capite qualcosa, andate a rivedervi Golden Chicken 1 e 2).
A farlo amare, basta la geniale cavalcata storica dei titoli di testa, prima con Sandra Ng e Ronald Chen cavernicoli che ci mostrano l'origine della prostituzione (e del nome chicken per le prostitute), poi nel periodo Tang con Sandra Ng cortigiana e Anthony Wong cliente che trattano sul prezzo in versi stile poesia cinese classica, poi con Donnie Yen nei panni di Ip Man che va a donne... E' una commedia divertentissima nello spirito del cinema hongkonghese “basso” (quello delle commedie salaci). C'è una battutaccia perfino su Ann Hui! L'umorismo è del genere nothing sacred - non è per stomaci delicati (in confronto alla volgarità di certe gag il nostro Nando Cicero era un moderato), e tanto meglio così.
Siccome Sandra Ng è anche produttrice del film, è riuscita a chiamarci dentro tutti i suoi amici, per cui Golden Chickensss è anche una specie di enciclopedia del cinema hongkonghese d'oggi, piena di scherzi cinematografici che si vorrebbero citare tutti: da Louis Koo che si fa prendere in giro nella parte di se stesso, ad Andy Lau che va a escort nelle vesti del Chief Executive di HK, a Edison Chen che non solo ritorna dopo anni sullo schermo ma ha il coraggio di scherzare sull'argomento sessuale che lo ha rovinato (interpreta il gestore di un bordello giapponese specializzato in pompini!).
Come interprete Sandra Ng, con grandi seni finti che si rimpiange non siano veri, è bravissima sia nella commedia sia nel leggero tocco triste verso la fine, quando il film - che si era un po' perso - con una disinvolta correzione di rotta recupera alla grande, concentrandosi sullo spaesamento del boss Nick Cheng (amante di Kam appena uscito di prigione), e trasformandosi quasi in un'elegia sullo spirito di sopravvivenza hongkonghese.