venerdì 27 settembre 2013

Via Castellana Bandiera

Emma Dante

Due corpi e due volontà, uno di fronte all'altro, e il rifiuto di cedere il passo, una situazione senza uscita. E' un rabbioso puntiglio, questo, che sembra riemergere con maggior forza nei periodi peggiori della storia di questo paese: come non ricordare il Seicento dei Promessi sposi, l'episodio del duello di Lodovico, che poi diventerà Padre Cristoforo? Ma anche, in chiave comica, le pianure desolate dell'Italia dei secoli bui ne L'armata Brancaleone (“Cedi lo passo”). Non per nulla la parola “puntiglio” è entrata nella lingua italiana dallo spagnolo nel Seicento.
E così, in un momento di crisi, decadenza, blocco dell'Italia, ha particolare senso Via Castellana Bandiera, notevole esordio cinematografico dell'attrice e regista teatrale Emma Dante, dal suo romanzo. In una stretta via periferica di Palermo due auto si trovano bloccate l'una di fronte all'altra e nessuna delle due vuole retrocedere. Irrigidite al volante sono da un lato Rosa (Emma Dante) insieme alla sua campagna Clara (Alba Rohrwacher) e dall'altro la vecchia Samira (una potente interpretazione, premiata a Venezia, dell'ottantenne attrice di teatro Elena Cotta). Diventa una gara a “chi ha la corna più dure”, un duello di sguardi feroci, di ostinazione e di sacrificio: passa il tempo, arriva la notte, ed entrambe chiuse nell'auto soffocante buttano via la pastasciutta che un'anima buona ha portata e poi perfino l'acqua da bere. Intanto il cognato di Samira, il vedovo di sua figlia, organizza una scommessa truffaldina per spennare il quartiere. Una rabbia, una ferocia, un male diffuso percorrono un film che sul piano morale fa pensare alle incisioni di Goya. L'automobilista barbuto ragionevole - se ognuno si impunta, dice, nessuno la spunta - scompare subito dall'orizzonte del film.
E tuttavia questa disfida, prima tragicomica e poi solo tragica, non è in realtà l'argomento centrale di Via Castellana Bandiera. Non è che sia un pretesto, ma neppure il vero cuore del racconto: potremmo dire che è il meccanismo drammaturgico per far emergere qualcosa d'altro; Via Castellana Bandiera mette in scena un dolore avvolto dentro un altro dolore.
Al centro è la disperazione silenziosa di Samira, personaggio muto per quasi tutto il film. Lei è venuta con la figlia morta da Piana degli Albanesi ed è rimasta come naufragata in questa famiglia, dove il cognato le fa pesare il fatto che la mantiene; amata solo da uno dei nipoti, è straniera in quel luogo. Dicono le comari che pare abbia un piede di capra. Alle spalle ha una vita di tristezze (il film si apre alla tomba della figlia) il cui peso viene espresso con un'economia di espressioni e di gesti minuti in cui si può vedere il magistero teatrale.
Dal canto suo Rosa, che si rode di essere ritornata per un momento in un luogo che ha visto la sua infelicità da bambina, ha appena litigato in auto con la sua amante (“Ci lasciamo?” - “Forse è meglio”). Peraltro il suo personaggio, pur nella bellezza dell'interpretazione, soffre di una certa carenza di caratterizzazione rispetto al romanzo, il che contribuisce tanto più a spostare l'enfasi del film su Samira.
Nella rabbia del suo impiantarsi e bloccare la strada (un comportamento, sentiamo, non nuovo), il viso gelido e irrigidito, c'è una sorta di rivolta disperata e ferina. Non per nulla, nella sequenza del cimitero all'inizio del film, quando Samira si stende con le braccia a croce sulla tomba della figlia, un'inquadratura dall'alto mostra tutt'intorno, nei rettangoli delle tombe svuotate, i cani randagi che lei nutre: come se lei fosse un randagio tra gli altri. Come un kamikaze, in questa guerra stradale lei si brucia. Valgono per lei le parole del vecchio film di Luis Buñuel: “Vi riposerete quando sarete morti”. Non lo dico come metafora, alludo a una scena stupefacente a fine film.
Il quale si conclude con una lunga scena aq inquadratura fissa in cui tutto il quartiere, a gruppi, come nel giudizio universale, corre verso la scena dell'inevitabile disastro. Sull'inquadratura fissa risuona la canzone dei fratelli Mancuso, Cumu è sula la strata, che parla di pianto e di morte. Qui appare pertinente citare le parole esatte del ringraziamento alle comparse volontarie nei titoli di coda: “a tutti quelli che ci hanno dato una mano correndo all'alba verso il precipizio”. Correndo verso il precipizio... Sono parole che al di là della contingenza del ringraziamento, e certo volutamente, racchiudono in sé tutto il film.

giovedì 19 settembre 2013

Una fragile armonia

Yaron Zilberman

Basta fare un giro su Internet per vedere come Una fragile armonia, primo film di fiction del documentarista Yaron Zilberman, abbia diviso gli spettatori. Invero, non sarà un film di vertiginosa intensità bergmaniana, ma è un buon esempio di quel genere che si potrebbe definire “d'essai di massa”, il film medio di argomento elevato e fatto bene - e Una fragile armonia è fatto benissimo. Molto godibile, è in tutto e per tutto un film di attori: mostri sacri come Christopher Walken e Philip Seymour Hoffmann e i meno noti Mark Ivanir e Catherine Keener.
Il film racconta la crisi di un quartetto d'archi dopo 25 anni di attività. Quando il più anziano, e leader morale, Peter (Walken) annuncia che deve ritirarsi perché ha scoperto i primi sintomi del morbo di Parkinson, ciò fa da catalizzatore di una serie di tensioni sia professionali - Robert (Hoffmann) si sente sminuito nel ruolo di secondo violino - sia familiari: il matrimonio fra Robert e Juliette (Keener) va a pezzi e il fatto che Daniel (Ivanir) abbia una relazione con la giovane figlia dei due, Alexandra (Imogen Potts), getta benzina sul fuoco. Non è facile mettere d'accordo le proprie passioni e l'olimpica perfezione di Beethoven (il suo quartetto per archi n. 14, op. 131, risuona potente lungo il film), con il quale bisogna entrare in sintonia empatica se lo si vuole suonare.
Un quartetto è una fragile e complessa architettura musicale in cui ogni strumento ha un suo spazio e un ruolo decisivo - come del resto viene spiegato bene nel film, che ha una non nascosta vena didattica. Se vale per il quartetto, vale anche per il film stesso. Una fragile armonia (The Late Quartet) è come dicevamo un film di attori, e ciascuno dei quattro interpreti ha diritto a una parte egualmente importante (al massimo, volendo portare avanti l'analogia, potremmo dire che il ruolo di primo violino tocca a Christopher Walken - che invece nel film è il violoncellista). Così il racconto si sviluppa in segmenti interlineati; i passaggi dall'uno all'altro sono realizzati con un bel montaggio netto, dove la musica ha un ruolo legante.
Come dice Renoir ne La regola del gioco, il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni. Il presente film, che si avvale di una sceneggiatura molto ben calibrata sul piano drammaturgico, riesce a far emergere appieno questo concetto sullo schermo, così per i quattro musicisti come per il quinto personaggio, Alexandra. Tutti noi alterniamo nella vita momenti di saggezza e momenti di connerie (non è del tutto vero: ci sono anche i cons in servizio permanente effettivo). Il cinema americano però, senza per questo dover rinunciare all'approfondimento psicologico dei personaggi, per antica tradizione drammaturgica ama definizioni del carattere nette, clear cut (anche l'ottimo Quartet di Dustin Hoffman, analogo per l'elemento musicale). Qui le definizioni sono più sfumate, e ciò dà al film un senso realistico nelle sue notazioni sui rapporti umani: l'egoismo degli artisti, la crudeltà dei giovani, ma anche, più in piccolo, quella capacità che posseggono in sommo grado gli uomini di scegliere il peggior momento possibile per una discussione con la moglie (qui l'asta); aggiungo, perché sociologicamente sempre interessante, anche la deriva neo-puritana (si dice sempre così, ma in realtà è neo-piccoloborghese) dopo l'epoca di “non drammatizzazione” del sesso del secolo scorso.
Ben diretto (vedi come Zilberman rende con levità un pensiero di suicidio di Peter mediante una sola inquadratura in soggettiva), il film ricorre molto ai segni del passato: vecchie foto, articoli ingialliti, lontane interviste televisive. Il motivo non è solo di contrasto con la crisi del presente. Sembra di no, ma è il tempo - non l'amore - la forza occulta dietro Una fragile armonia. Ciò è sottolineato ricorrendo alla poesia, quella iniziale di T.S. Eliot sul tempo (ispirata al pensiero di Sant'Agostino) e quella di Ogden Nash sui vecchi. Lo stesso vale per un discorso di Peter su un autoritratto di Rembrandt che ammira con Juliette alla Frick Collection di Manhattan (New York appare nel film come un'autentica presenza, più che come sfondo). Indirettamente, anche il gelo che avvolge Central Park ha a che fare con questo: rispecchia la morsa del tempo sulle ambizioni giovanili, gli amori, i matrimoni (per non dire che anche un quartetto è come un matrimonio artistico).
Alla fine Peter si ritira, a metà di un concerto, sostituito dalla violoncellista Nina Lee (che appare as herself). Chi scrive non punterebbe molti soldi sulla sopravvivenza a lungo del quartetto dopo la muta riconciliazione che chiude il film. Ma questo è valido in generale per i rapporti umani: il massimo cui possono aspirare è “una fragile armonia”.

L'arbitro

Paolo Zucca

Il cinema non è di sicuro l'arte della verità. Ma è una delle bugie più spudorate della sua storia quella che appare a fine credits de L'arbitro di Paolo Zucca: la consueta dichiarazione che ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale. Menzogna gargantuesca! Perché uno dei personaggi, il corrotto e sadico arbitro Mureno, allude a gran voce a quel famigerato Byron Moreno che arbitrò in modo, diciamo, poco corretto Italia-Corea nei mondiali del 2002. E la FEFA, poi? Ricorda qualcosa?
Tuttavia quello dell'arbitro Mureno, interpretato con gusto da Francesco Pannofino, è solo un episodio: l'arbitro eponimo non è Pannofino ma Stefano Accorsi. Il film narra la lotta fra due squadre in uno scassatissimo torneo di calcio di terza categoria nella Sardegna profonda. Il Montecrastu è la più forte e arrogante, il Papabarile è da sempre l'ultima in classifica, disprezzata da tutti. A capo del Montecrastu c'è un possidente protervo; la scena in cui entra a cavallo nel bar dei nemici echeggia parodisticamente il western italiano. Ma dall'emigrazione è tornato Matzutzi, “il figlio di Sventura”, che per la povertà dovette emigrare in Argentina; e Matzutzi (Jacopo Cullin) si rivela essere un supercampione. Le prospettive del Papabarile cominciano a diventare inaspettatamente rosee, con gran rabbia degli avversari.
L'arbitro è costellato di facce memorabili. Perché in questa commedia, dalla fotografia in b/n elegante fino all'estetizzante di Patrizio Patrizi, c'è la scuola di quel naturalismo caricaturale, nutrito di una fotografia raffinata dalla perfetta messa a fuoco, che è nato da Cinico TV di Ciprì e Maresco. Il film è costituito di storie collegate (più un contraltare nel mondo ricco del calcio internazionale): l'ascesa perigliosa della squadretta; la storia d'amore di Matzutzi col suo amore infantile ritrovato, l'incazzosa Miranda (Geppi Cucciari), figlia di Prospero, l'allenatore cieco del Papabarile (Benito Urgu); il sub-plot su una faida a due, poiché un personaggio ammazza l'agnello di suo cugino per mangiarselo e questo furto (l'abigeato è una cosa seria in Sardegna!) innesta una serie di vendette reciproche. A questo proposito c'è una bellissima inquadratura ricorrente in cui, sullo sfondo di un paesaggio montano, in secchi dialoghi con faccia impassibile il vecchio saggio del paese viene interrogato su chi abbia fatto questo e quello, e il “dire non dicendo” del vecchio è delizioso.
Al capo opposto del mondo del pallone, l'ambizioso ma onesto arbitro Cruciani (Stefano Accorsi, capace e vanitoso) desidera coronare la sua carriera arbitrando una finale internazionale, ma incappa nelle pastette della FEFA (da segnalare l'apparizione di Marco Messeri come dirigente maneggione) e si ritrova sputtanato e retrocesso dalle stelle alle stalle, per cui finisce ad arbitrare... ecco, avete indovinato.
Paolo Zucca, al suo debutto nel lungometraggio, possiede un senso autentico del ritmo e della sorpresa (grande l'apparizione in strada, dopo la citata scena del bar, dei tre scherani a cavallo in posizione acrobatica che galoppano urlando “Papabarile merda!”). Il film si sviluppa in una serie di scene comiche calibrate e convincenti. Vorrei ricordare il funerale dove tutti discutono sussurrando della classifica di calcio (una pagina degna di Monicelli); la scenetta dei fiori tra Matzutzi e Miranda; la superba pedalata in bici del losco vice allenatore del Montecratu maledicendo fantasiosamente i nemici (e, con tempi perfetti, gli arriva subito la risposta); la folle partita finale, con la vecchia che fa un'invasione di campo da sola per prendere a ombrellate Accorsi, e con galline e un asino in campo alla fine.
Molto divertente, L'arbitro è una strana commedia, un Hellzappoppin' in salsa sarda, dove ci si aspetta di veder comparire tutto e il contrario di tutto - dal calcio come balletto (forse con un uso troppo ripetitivo della vecchia canzone Vivere) al naturalismo sarcastico stile Ciprì e Maresco, dalla commedia d'amore paesano alla farsa pura. Il regista Zucca ama le citazioni segrete – c'è Shakespeare (a parte i nomi di Prospero e Miranda, l'Amleto in un dialogo del presidente FEFA con il disperato Accorsi) e c'è una specie di Ultima Cena sospettosamente buñueliana (del resto, Don Luis è sicuramente un riferimento “alto” del film). Beh, nel panorama poco invitante della commedia italiana d'oggi, i film bisognerebbe farli proprio così.

domenica 15 settembre 2013

"Che strano chiamarsi Federico" - Scola racconta Fellini

Ettore Scola

A parte (va da sé) il contenuto, che è il commosso omaggio di Ettore Scola al suo amico Federico Fellini, il tratto più importante di “Che strano chiamarsi Federico” - Scola racconta Fellini è il rispecchiarsi e rifrangersi del discorso sul proprio argomento e di un autore su un altro autore. Questo docu-film misto di materiali e ricostruzione è un gioco di specchi, una serie di scatole cinesi stregate che si rovesciano l'una nell'altra. E ci fa riflettere su quelle analogie tra Fellini e Scola come cineasti che spesso rimangono inosservate. A ripensarci, tutto il cinema di Scola assume una differente luce. Per esempio è affascinante accostare Brutti, sporchi e cattivi al Fellini (a suo modo) realista degli anni '50; ma il film più indicativo in tal senso è sicuramente Il mondo nuovo. Lo suggerisce anche “Federico”, sebbene solo nell'ottica del personaggio: la scelta di Scola di dare la parte di Casanova a Mastroianni, ciò che Fellini non aveva fatto per il Casanova di alcuni anni prima (nel presente film, per inciso, vediamo i provini che Fellini fece a Sordi, Tognazzi e Gassman, e sono una perla). Ci invita a meditare sul gioco di analoghe pulsioni e differenti esiti (Fellini risolve la materia secondo la sua vis poetica, Scola attraverso la sua passione politica e didattica).
Scola si rispecchia in Fellini, e lo mette bene in rilievo la prima parte di “Federico”: sono due plutarchiane “Vite parallele”. Entrambi, provinciali inurbati, cominciano la loro carriera scrivendo e disegnando per il “Marc'Aurelio”. Della redazione di questa rivista il film mette in scena una ricostruzione vivissima - e che nomi da brivido rinascono sullo schermo! Steno, Mosca, Attalo, Maccari, Marchesi, Metz... Tutto il meglio della grande stagione perduta dell'umorismo italiano. Entrambi lavorano in veste di “negri” per il cinema di Marchesi e Metz (più tardi vediamo apparire anche Age e Scarpelli).
Amici per tutta la vita, hanno in comune anche un interesse verso lo svelamento della finzione cinematografica (per Fellini, fra tanti titoli vorrei citare E la nave va, capolavoro assoluto dell'ultimo periodo). In “Federico”, vedi quando la descrizione realistica in b/n della redazione del “Marc'Aurelio” culmina in un saluto di Fellini, passato al cinema, che chiama dalla strada i suoi ex colleghi, questi lo raggiungono per accalcarsi nel suo macchinone, ma il giovanissimo Scola, intimidito, resta di sopra; c'è uno scambio di guardi; ed ecco che la scena si rivela essere un set, il Teatro 5 di Cinecittà di felliniana memoria; e questa rivelazione del “falso” della ricostruzione si rinnova, passati al colore, un attimo dopo. Di qui in poi, l'artificio del cinema viene continuamente esibito: vedi le prostitute e poi il madonnaro su uno sfondo del tutto artificiale, o i giri in macchina per Roma con un trasparente di voluta evidenza (e accanto all'auto rombano i motociclisti del cupo finale di Roma). I tempi si confondono: Fellini e Scola, inquadrati di spalle, sono anziani ma il racconto della prostituta che fanno salire in auto, imbrogliata dal fidanzato che le ha sottratto i risparmi, sembra contenere l'ispirazione per Le notti di Cabiria di tanti anni prima.
Scola illustra Fellini in stile felliniano. Una pagina di “Ma tu mi stai a sentire?” - la surreale rubrica del giovane Fellini sul “Marc'Aurelio” - viene visualizzata in figurette del tutto felliniane, tra Amarcord e Roma; solo che vi riconosciamo i personaggi grafici del disegnatore Attalo: non è un semplice omaggio ma serve a ricordarci quanto dovesse Fellini a quel mondo. Ancora, c'è una reminiscenza di Roma in una scena del film coi giovani Fellini e Maccari al varietà che assistono al naufragio di uno spettacolo scritto da loro; sono puro Fellini anche quelle polpose ballerine, sebbene bisogni aggiungere che lo stesso Scola ha spesso mostrato un'ispirazione simile. Fa da tramite fra il film e il pubblico un narratore (interpretato da Vittorio Viviani), il cui rapporto con gli spettatori assomiglia straordinariamente a quello di Freddie Jones in E la nave va.
Caldo, umano, incisivo, “Federico” è un vero concentrato di professionalità; non c'è un dettaglio (men che mai un volto) che sia buttato lì o lasciato al caso, come capita spesso oggi. Accanto alla sceneggiatura di Ettore, Silvia e Paola Scola, alla fotografia di Luciano Tovoli, alla musica di Andrea Guerra, bisogna menzionare il montaggio elegante e funzionale firmato dal vecchio collaboratore di Scola Raimondo Crociani. Certi stacchi e soluzioni di raccordo sono una delizia: per esempio, quando dal bollettino di guerra (ascoltato alla radio in casa Scola), pronunciato con la “maschia” voce impostata in uso sotto il fascismo, si stacca con bella logicità al ras Ettore Muti in divisa in visita alla redazione del “Marc'Aurelio”.
Se si volesse trovare un difetto in “Che strano chiamarsi Federico”, è un'ombra di squilibro fra le sue due parti: la prima, l'accurata rievocazione della redazione del “Marc'Aurelio” e dell'arrivo di Fellini (e anni dopo, di Scola) in quella sede; la seconda, una relazione di Fellini come personaggio e regista famoso. Tuttavia sarebbe stato impossibile per il film mantenere lo stesso tono minuzioso e disteso, tanto più che non vuol essere un biopic. Diciamo che mentre la prima parte è analitica, la seconda è sintetica, quasi impressionistica. Ed elegiaca nella conclusione: vediamo il filmato dell'omaggio dei romani alla salma di Fellini vegliata da due carabinieri in alta uniforme. Riconosciamo la Ekberg, Benigni, Renato Nicolini. Ah, ma il morto se la svigna, inseguito dai due carabinieri! La sua fuga per Roma lo porta a una giostra – e mentre la giostra gira, un montage velocissimo fa scorrere sullo schermo immagini di tutti i suoi film. Ma quando infine appaiono i motociclisti di Roma e l'enorme palla di ferro di Prova d'orchestra, allora quel ritmo accelerato rallenta drammaticamente - a ricordarci quell'elemento nero, più che pessimista disperato, che esisteva in Fellini sotto la fantasia capricciosa e il rimpianto crepuscolare accompagnati dalle note di Nino Rota.

L'intrepido

Gianni Amelio

L'intrepido di Gianni Amelio si apre con questa didascalia di tempo e luogo: “A Milano, di questi tempi”. Evidente che essa ha un valore che va altre l'enunciazione del contesto: L'intrepido è un film sul nostro tempo. Dove Antonio Pane (Antonio Albanese) nel mondo senza lavoro se n'è inventato uno tutto suo: fa il rimpiazzo, ovvero vive sostituendo per tre ore, un giorno, due giorni, gente che fa qualsiasi umile lavoro e ha bisogno di una pausa. “A me mi piacciono tutti i lavori”, dice nel film, e in tutti i lavori lo vediamo. E' una favola, diceva Amelio a Venezia, e un inno alla dignità.
Antonio è buono come il pane (no pun intended, o meglio, è implicito nella sceneggiatura). Accetta tutto con un sorriso: è un'icona, più che della rassegnazione, del far fronte alla durezza del mondo – un atteggiamento che non sostituisce la rassegnazione ma viene come un superamento di essa. In questo senso il film aspira a dare al suo protagonista una specie di santità: e lo circonda un'aura poetica. Mi sembra evidente il riferimento a un mondo cinematografico che Amelio conosce bene: gli eroi “sonnambuli” (Petr Král) del comico muto americano. Non narrativamente (non c'è slapstick nel film) ma appunto per la loro caratterizzazione poetica; o altrimenti, potremmo allegare un grande attore italiano oggi troppo poco ricordato, Erminio Macario. E' proficua la contraddizione di mettere insieme un “uomo di fumo” con quella personalità aerea e sottile e una serie di lavori manuali pesanti. Davvero vi sono ne L'intrepido aspetti di commedia chapliniana.
Antonio Pane si muove in una Milano malinconica - in voluto contrasto con la splendida fotografia di Luca Bigazzi - dove Amelio lancia degli sguardi contristati sui rapporti umani (un mondo di contatti evanescenti o perduti) e sulla malvagità - oppure satirici (l'ironia sulla pubblicità che usa sederi nudi per vendere qualsiasi cosa). Si ritrovano ne L'intrepido le tematiche del cinema di Amelio: il rapporto padre/figlio, quel mondo di silenziosi scontri e impreviste complicità, quel peso schiacciante dell'organizzazione sociale. Nella prima parte del film quel rapporto adulto/ragazzo che interessa tanto ad Amelio sembra ricrearsi a parti invertite, tra il figlio che “vizia” il padre e Antonio, che effettivamente ha qualcosa del bambino in sé. Tuttavia in seguito il rapporto si rovescia interamente, ciò che, più che un percorso di crescita, mi sembra un escamotage narrativo.
Il problema del film è un problema di sceneggiatura (di Gianni Amelio e Davide Lantieri); si notano ne L'intrepido dei limiti che già comparivano ne La stella che non c'è del 2006 (ma non nel successivo Il primo uomo). Il film è stato accusato di essere episodico, ma non è questo il punto. Essere episodico è una necessità se devi raccontare la vita di uno che, reinventandosi ogni giorno come lavoro, ogni giorno per così dire deve rinascere; la sua struttura frazionata non impedisce che - anche grazie all'arte di Albanese - emerga un senso concreto e unitario del personaggio protagonista. Il difetto sta nelle tappe del viaggio, negli episodi stessi, che a volte sono irrisolti ( la poetica della leggerezza sfuma nell'inconsistenza), a volte fin troppo risolti - leggi, programmatici.
Un esempio del primo caso è la scena della consegna delle pizze nella sartoria: tutto a posto e niente in ordine: si capisce perfettamente tutto, ma l'episodio resta vacuo. Anche snodi narrativi importanti come l'episodio della pedofilia lasciano un senso di vuoto, di narrazione che “non stringe”. Altre volte invece si cade nel prevedibile: nel senso di una tendenza molto presente nel cinema italiano (ma non, ordinariamente, in quello di Amelio) alla bidimensionalità dei personaggi. Alludo al figlio quando diventa aggressivo perché è in crisi (una di quelle parti che quand'era giovane toccavano a Kim Rossi Stuart) o alla ragazza che muore suicida dopo la più tradizionale delle scene di incazzatura al caffè - dove si nota soprattutto la contraddizione fra la finezza formale della messa in scena di Amelio e il senso di déja vu dell'assunto.
Un esempio dei problemi di sceneggiatura del film sta nella moltiplicazione dei finali. Dopo che il classico cumenda losco, nuovo compagno della ex moglie, lo ha assunto in un negozio di scarpe, Antonio scopre (bella la scena delle scatole vuote) di essere un uomo di paglia e che il negozio serve al riciclaggio. Pianta tutto e se ne va: su di lui di spalle che si allontana c'è una chiusura in iride. Questo vecchio segno d'interpunzione, mai usato prima nel film, connota simultaneamente il cinema di Chaplin e il The End. Come ci restiamo quando vediamo che il film continua? C'è uno spostamento in Albania, rovesciamento amaramente ironico de Lamerica, e anche questa potrebbe essere una fine. Segue un ulteriore episodio col figlio (ma conchiuso, questo, e convincente); dopo di che, andandosene dopo risolto le cose, Albanese guarda in macchina e sorride, chiudendo per la seconda (o terza) volta il film.

mercoledì 4 settembre 2013

La natura ama nascondersi

Mostra fotografica, Udine, Palazzo Morpurgo, 30 agosto-15 settembre 2013

Nota per il catalogo

Il paradosso della fotografia è lo stesso paradosso della bambina che dopo aver giocato tutto il pomeriggio nel parco andava via ma poi ritornava in punta di piedi nascondendosi e spiando dietro gli alberi: voleva vedere che aspetto aveva il parco quando lei non c'era.
La fotografia della natura (ma non solo) è impegnata nella continua rincorsa fra l'obiettivo e il di là, l'irraggiungibilità della natura in sé. “La natura ama nascondersi”. Se nella sua qualità segnica di indice la foto mantiene in sé l'impronta materiale del suo oggetto, tuttavia permane uno scarto invalicabile. Sono lontani i tempi del realismo ingenuo per cui Fox Talbot pubblicava i suoi calotipi col titolo The Pencil of Nature e la Gazette de France salutava Daguerre parlando di “immagini che si dipingono da sole”.
Fotografare è interpretare; una fotografia è un discorso. Il click dell'otturatore è il momento magico in cui nell'occhio e nel cervello del fotografo scattano (click) simultaneamente una pluralità di condizioni concorrenti: di luce, di forme, di un pattern di linee e di geometrie definito dall'inquadratura. E' una triplice operazione quella che si attiva nell'atto di inquadrare: un'intersezione fra l'oggetto della foto sul piano denotativo; l'oggetto in quanto tessitura di valori spaziali, geometrici, coloristici, ritmici; l'oggetto per il suo valore connotativo, che è culturalmente determinato. Il fotografo porta nell'immagine una cultura fatta di modelli simbolici, pittorici, grafici, filmici, fotografici in primo luogo – e ideologici. Sono sempre validi, anche se il mondo è diventato più piccolo, i due grandi poli fra i quali si situa la fotografia di paesaggio: tra il sublime di una natura primigenia in procinto di trasformarsi da Deserto in Giardino, che affascinava i grandi fotografi americani dell'Ottocento, e le tracce dell'uomo che si fanno natura (come non citare Giacomelli).
Non è solo un pezzo di mondo che ritagliamo come un trofeo. La fotografia congela il tempo – ma così, potremmo dire, fa esistere l'attimo, in quanto lo materializza. Però quest'attimo materializzato è un excerptum, è altro dal continuum vivente della natura - per questo ci inquieta. Non per nulla Barthes connette la fotografia al passato e alla morte.
La foto si oppone alla durata. Il mosso, che disegna sulla foto la traccia del movimento, può suggerirla - ma è anch'esso un tempo pietrificato. E' il cinema quello che lavora sulla durata (anche sulla tautologia della durata: Empire di Andy Warhol). Ma proprio per questo il film solo in alcuni momenti di sospensione può raggiungere una dimensione epifanica - che invece la foto possiede quasi naturalmente nella sua natura di frammento di spazio-tempo. E' questa a conferirle, al di la del suo soggetto, un quid metafisico.


Presentazione mostra, 30 agosto

Nel 1521 Albrecht Dürer disegna un tricheco (che era già morto da giorni quando lui riuscì a vederlo), nella più antica raffigurazione dal vero dell'animale. Brucia in lui, come in Leonardo, la passione di riprodurre il visibile, di aggiungere al suo reame di conoscenza e riproduzione un altro brandello del reale. E' la stessa passione che informa la sua meravigliosa Zolla d'erba – o un Leprotto del 1502, disegnando il quale Dürer fa una vera fotografia: riproduce perfino la finestra che si riflette nell'occhio dell'animaletto. Conoscere significa possedere, e possedere significa riprodurre.

Ma c'è sempre uno scarto, sempre un inseguimento, fra la fotografia della natura e il suo oggetto. Cerchiamo qualcosa che non si può raggiungere nella sua nuda immediatezza, per il semplice fatto che il nostro sguardo è è uno sguardo di interpretazione; fotografare è interpretare: una fotografia è un discorso.
Una ricerca costante, che sceglie tra diverse apparizioni della natura: una natura primigenia, intatta, che ci trasmette il senso timoroso del sublime; o le tracce dell'uomo che si fanno natura (vorrei ricordare qui le splendide foto della Grande Muraglia cinese di Daniel Schwartz); ma anche la guerra eterna e pervasiva della natura per riprendersi e inglobare in sé la presenza umana.
In queste forme si declinano variamente le fotografie della mostra.

In primo luogo abbiamo il decano della fotografia Elio Ciol con le sue “concrete astrazioni” (un ossimoro che, come spesso in fotografia, funziona benissimo. Foto potenti, scolpite dalla luce, che vengono da Antelope Canyon o da Israele, Masada. C'è un senso di mistero, la realtà oggettiva trapassa nel fantastico. E non è affatto per la suggestione del luogo se c'è qualcosa di biblico, un senso primigenio: la bellissima foto di un raggio di luce nell'Antelope Canyon è come se fosse stata presa il giorno della creazione. Ciol ha una grandezza di sguardo che si esprime nella posizione e nella distanza; pur sempre legato a un punto di vista umano, è tuttavia il punto di vista di un gigante. Si parla spesso del lirismo di Ciol, ma è un lirismo (vorrei dire greco) della grandezza e della potenza del mondo.

In ordine di qui in poi alfabetico, abbiamo Guido Cecere con la serie Design della natura. Sono composizioni, dice lui stesso sul catalogo della mostra, arcimboldesche. Se nell'Arcimboldo gli elementi naturali sono riutilizzati per dire altro, mantenendo la loro connotazione (il mare, le stagioni), qui sono utilizzati per il loro gioco di forme e colori per comporre un disegno geometrico – e tuttavia mantengono la loro materialità, i peperoni sono peperoni e le ciliege ciliege; la solidità dei mandarini si contrappone nella stessa foto alla fragilità dei fiori; e così si crea un gioco tra l'astratto e il concreto, il tangibile e l'intangibile, fra la reciproca opposizione delle materialità e la reciproca collaborazione di colori e forme astratte.

In Gabriele Carlo Chiopris, ora la montagna innevata diventa un tessuto, una pelle, segnata dalla traccia degli sci (alcuni pini sobriamente ci richiamano alla concretezza del luogo); ora diventa uno sterminato lenzuolo bianco dove solo alcune piccolissime figure nere e dei paletti ci danno la traccia per contestualizzare; ora una serie di steccati campisce la foto in un aggraziato disegno; ora un albero dai rami innevati esplode prepotentemente nella foto, che recupera con eleganza un antico e sempre presente motivo della fotografia.
Come in molte delle foto, non solo di Chiopris, della mostra, la sensazione che viene trasmessa allo spettatore è quella di un solenne silenzio: a ricordarci il valore del silenzio nel mondo del rumore.

Stefano Ciol: Essenzialità, profondo senso dell'equilibrio, foto che sono giochi di tenui sfumature sul bianco, raffinate come se fossero graffiate sul ghiaccio o sul vetro. Un gruppo di steli disegna una figura concreta eppure impalpabile. Filari di piante spoglie sono sagome grige che si perdono nel bianco. Queste foto hanno un andamento di fuga che le rende sognanti e poetiche: la loro impalpabilità le dematerializza, sembrano invitare l'occhio a una fuga verso l'infinito: non c'è nulla che lo fermi nel fondo bianco che le avvolge. E i solchi, dove sono presenti, confermano e rinforzano questo calmo, voluttuoso senso di fuga.

Duilio Cosatto: un territorio di acqua e sabbia, geometrico, bilanciato. In tutte le foto tranne una compaiono i segni dell'uomo: ora forti, materiali, come una struttura in ferro o degli edifici; ora deboli, come presenze umane in campo lungo; ora il più tenue dei segni, una linea di orme che sembrano avere la stessa naturalità di quelle dune che le accompagnano quasi parallele. La sabbia è accogliente con le orme e le tracce dei pneumatici. E su tutto, il mare come una striscia all'orizzonte, e la presenza costante dell'acqua e dei suoi riflessi. Come scrive Cosatto nel catalogo, il mare e la costa si riprendono i luoghi – o ne inventano di nuovi: un gran teatro del mondo in cui la natura è primo attore.

Anche Marcello Franchin è innamorato del mare, ma in modo diverso. Ama molto i pontili; il proiettarsi dell'uomo verso il mare è anche un proiettarsi dell'occhio verso l'infinito. Non per nulla la foto di uno di questi pontili ha per titolo Partenza; c'è sempre un bagaglio di attesa e sospensione. Franchin ama l'inquadratura centrata e l'elegante geometria delle linee. A proposito di geometria, è bello che il titolo di una delle sue foto recuperi il termine Convergenze parallele, strappandolo alla “lingua di legno” della politica per restituirlo a una geometria immaginaria, una geometria dell'illusione – e alla fotografia. Perché la fotografia di Franchin è geometria.

Le foto di Daniele Indrigo sono profondamente materiche, tangibili allo sguardo; le esalta una stampa altamente curata e raffinata, in cui i particolari si stagliano con vigore estremo. C'è un senso di potenza in questi vasti orizzonti, in queste rocce modellate dall'acqua, in questi prati, queste nuvole che veleggiano libere o al contrario sono pesanti, opprimenti. Paesaggi fortemente romantici, non privi a volte di una vena di malinconia – come quella che si prova quando una nuvola offusca per un attimo il sole. Una splendida foto di un prato in Scozia, con colline brulle che arrestano lo sguardo sul fondo, personalmente mi ricorda un grande fotografo udinese, Silvio Maria Bujatti: non per il flou di cui Bujatti era specialista, naturalmente, qui non potremmo essere più lontani – ma per quest'atmosfera appunto di vastità, di ombre e luci, di malinconia delicata.

Franco Martelli Rossi ha sempre avuto un grande interesse per il colore; e come pittore del colore è affascinato dalle superfici e dalla loro sensualità tattile. Ma qui fa un passo oltre entrando nel territorio della macrofotografia, e osserva la grana tangibile delle foglie (anche nella mutevolezza della loro breve vita) e il loro gioco con l'azzurro liscio del cielo. Ordinando poi le foto in una serie che ha una conclusione di bellezza drammatica nel gelo della morte. Non è la morte della natura, perché la natura non muore mai (salvo i possibili tentativi dell'uomo per ottenere questo risultato) – ma in questa serie ci rispecchiamo noi stessi, in una costruzione dichiaratamente barocca.

E infine, Lucio Tolar: che ha un intento di partenza documentaristico, sul quale però innesta una sensazione come magica, atemporale (sottolineata dall'aspetto spettacolare della stampa su tela in grande fornato). I suoi titoli sono ora evocativi (Nebbia, Galaverna) ora magici (Magia, Fiaba). In Nanos, tronchi coperti di muschio si protendono verso l'alto come se una forza vegetativa nascosta volesse afferrare il cielo con le dita. In Fiaba, in una foresta spruzzata di neve un macigno giace fra i tronchi come un re della foresta circondato da una guardia di alberi. Vorrei aggiungere che alcune di queste immagini mi fanno pensare a Tolkien: non il Tolkien neozelandese dei film, beninteso, ma il vero Tolkien dei romanzi di un'era antichissima della Terra.

E ora si tratterebbe di trarre le conclusioni. Ma lo farò con una frase di Ernst Haas.
L'apparecchio fotografico rende solo più facile la 'presa'. Il fotografo deve compiere l'operazione del 'rendere' per poter trasformare e trascendere la comune realtà. Il problema è trasformare senza deformare. Egli deve arrivare a dare intensità alla forma e al contenuto introducendo un ordine soggettivo in un caos oggettivo”.
Non si potrebbe dir meglio!