martedì 2 ottobre 2012

Prometheus

Ridley Scott

Quantum mutatus ab illo... Ritroviamo ossessioni e suggestioni di tutto il cinema di Ridley Scott, ma immiserite e involgarite, in “Prometheus”: che rispetto al suo capolavoro “Alien” del 1979 si situa a mezza strada fra prequel e reboot (infatti sulla linea del tempo i fatti di “Prometheus” vengono molto prima di “Alien”, però la tecnologia è più avanzata: vedi i computer). In “Prometheus” si ritrovano infatti le tradizionali tematiche del cinema di Ridley Scott: in primo luogo la ricerca impossibile di un Eden sognato. E' per trovare risposte sul piano religioso che la scienziata Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) va, assieme all'umbratile compagno Charlie, sull'astronave Prometheus (siamo alla fine del nostro secolo) alla ricerca dei misteriosi “Ingegneri”, che hanno lasciato un messaggio nelle pitture e sculture preistoriche e protostoriche di tutto il mondo, e sono i supposti creatori dell'umanità.
Un altro tema fisso di Scott è la terribilità insostenibile della visione (spesso, ma non qui, declinato al passato); esso trova un'illustrazione metaforica in una delle immagini più riuscite della filmografia scottiana, all'interno di un contesto che non la merita: quando Charlie guardandosi allo specchio si vede dentro l'occhio dei piccoli vermi, che sono l'inizio della contaminazione.
La colpa del fallimento è fondamentalmente della sceneggiatura puerile di Jon Spaiths e Damon Lindelof (“Cowboys & Aliens”). Questi due danno ragione postuma a Greimas, che aveva ridotto le figure drammatiche ad attanti e funzioni: i personaggi del film sono pure funzioni narrative, malamente rivestite di pelle umana.
Basta vedere all'inizio come, a una semplice autopresentazione di cortesia a tavola, il tatuato Fifield risponde incazzosamente che lui è lì per i soldi e non per fare amicizia; poteva risparmiare tempo e dire solo: “Ai sensi della sceneggiatura, io sono il Rompipalle”. Infatti nel prosieguo non fa altro che rompere: non perché vi sia un qualunque motivo ma perché deve assolvere onestamente a un ruolo. Il personaggio più burattinesco di tutti è Miss Vickers (Charlize Theron), che fin dall'inizio è non solo gelida ma ostile in maniera incomprensibile. Isterismo? No, sceneggiatura. Che aveva bisogno di un personaggio femminile di Bitch (“stronza”) e l'ha scaraventato nel film nudo e crudo.
Di conseguenza in “Prometheus” trionfano tanto la banalità dei personaggi quanto l'implausibilità o incomprensibilità dei loro comportamenti. Si può anche accettare che, mentre il team di scienziati esplora la costruzione aliena - in realtà una nave spaziale - il tatuato e il suo sodale, spaventati da un ologramma di alieni visibilmente antico (nervi fragilini, per il 2093!), mollino rumorosamente la compagnia per tornare alla base. Tanto si perdono: serve a far partire le scene di mostri. Ma la verosimiglianza va a farsi benedire quando da un corso d'acqua spunta un biscione biancastro ritto come un cobra, primo elemento di vita visto sul pianeta, e uno dei due (che fino a un attimo prima erano spaventatissimi) va a fargli ghiri-ghiri-ghiri col ditino. Al cinema l'implausibilità è ammissibile - è un caso limite della famosa “sospensione volontaria dell'incredulità” - ma a patto che il racconto la faccia sottoscrivere per logica illusionistica interna. Per esempio, l'ultimo “Batman” di Christopher Nolan ha tutti i difetti del mondo, ma almeno riesce a farci credere a quello che racconta, anche quando le spara grosse (il pozzo-prigione).
Ma insomma, dirà a questo punto il paziente lettore: diamo per assodato che la costruzione dei personaggi e la loro interazione denunciano un'incompetenza tale che in confronto qualsiasi filmetto di fantascienza di serie B degli anni '50 sembra Kubrick; al di là di questo, “Prometheus” vale qualcosa?
Purtroppo no. Tutta la ricchezza e e tutto il cupo fascino che caratterizzavano il vecchio “Alien” sono andati perduti; le deboli tracce di quel film annegano in uno svolgimento manierato e impacciato, nonostante l'ansia di porre rispecchiamenti fra i due film (il “rapporto” finale). Scott rispolvera tutta una serie di problematiche filosofico-religiose, ma esse restano a un livello di verbosa superficialità. Perfino la suspense è solo una pallida ombra del vecchio film. Accanto agli Alien-Alien già noti (ormai pressoché babau), l'unica novità è l'invenzione di alieni umanoidi, cattivi pure questi - il che, se ci pensiamo, è una banalizzazione rispetto a quella gelida ondata di diversità biologica, vera alien/ità, che amplificava la solitudine assoluta dello spazio nel primo film.
Potremmo ammirare la resistenza fisica di Noomi Rapace, che corre e salta, benché con l'ausilio di sostanze, dopo essersi fatta asportare con taglio cesareo un Alien grosso come un feto umano - se non fosse troppo evidente che questo è per trasformarla in una Sigourney Weaver di complemento. In un cast diviso fra imbarazzanti e imbarazzati, l'interprete più convincente è Michael Fassbender nella parte di un androide (e sì, la sua demise rispecchia puntualmente quella di Ian Holm in “Alien” - c'era da dubitarne?).
Certamente “Prometheus” offre un'imagery piacevole, a tratti perfino notevole; ma è fondamentalmente una rimasticatura di quello che aveva inventato Giger per “Alien”. Giger-ismi e Alien-ismi a parte, restano da ricordare belle immagini del pianeta: non per nulla le sole scene veramente soddisfacenti del film sono gli esterni in campo lungo e lunghissimo.
Dopo la sua prima, grande stagione Ridley Scott ci ha abituati a improvvisi zigzag fra bravura e mediocrità (certe volte addirittura nello stesso film: “Robin Hood”). Qui però siamo interamente nel secondo caso. Aspettiamo fiduciosi la prossima volta.